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Ucraina: una guerra per procura

di Giacomo Gabellini - 22/02/2022

Ucraina: una guerra per procura

Fonte: Arianna editrice

Estratto della versione rivista e aggiornata al giugno 2021 del mio libro Ucraina. Una guerra per procura, edito nel 2016:

Per quanto influenzato da dinamiche avverse di carattere domestico, l’atteggiamento ambiguo e ondivago tenuto da Zelens'kyj nei confronti di Mosca, passato da un approccio collaborativo a una postura smaccatamente aggressiva nell’arco di poche settimane, tradisce una profonda renitenza – riscontrabile in larga parte della classe dirigente ucraina – a riconoscere e accettare i limiti e i condizionamenti imposti all’Ucraina da una realtà economica e geopolitica che la vede condividere oltre 2.000 km di frontiera con un vicino “ingombrante” come la Russia. Nonché da una comunanza culturale che si esprime sotto il profilo storico (lo Stato russo ha le proprie origini nel Rus’ di Kiev), religioso (è dall’Ucraina che l’ortodossia ebbe il suo punto di diffusione) ed etno-linguistico (l’Ucraina ospita milioni di russofoni e di russi etnici). Piaccia o meno, la prosperità e la sopravvivenza stessa dell’Ucraina passano necessariamente per la costruzione di un rapporto collaborativo con la Russia, implicante la trasformazione del Paese in un ponte di collegamento tra est e ovest, un «collante tra grandi potenze dagli interessi economici sostanzialmente complementari (Germania e Russia)» collocato su una posizione di neutralità militare che esclude in partenza qualsiasi prospettiva di adesione alla Nato.
Al pari di Porošenko e di gran parte degli uomini politici che hanno guidato l’Ucraina dopo il putsch di “Euro-Majdan”, Zelens’kyj ha ignorato questa imprescindibile “legge di gravità”, nella convinzione che, con la conclusione della problematica era trumpiana e l’insediamento dell’amministrazione Biden, gli Stati Uniti avrebbero ricominciato a guardare alla questione ucraina come a un problema di sicurezza globale e fornito quindi a Kiev tutto il supporto necessario per il ripristino dell’integrità territoriale sui due binari del Donbass e della Crimea.
Nell’ottica statunitense, tuttavia, l’Ucraina continua a rappresentare una pedina preziosa, sistematicamente impiegata per mettere alle corde la Russia nell’attuale fase ma potenzialmente riciclabile, in un’ottica di medio-lungo periodo, come merce di scambio in nome di un riavvicinamento tra Washington e Mosca funzionale al contenimento della Cina. Prospettiva apparentemente inconcepibile, alla luce del fervore anti-russo che anima gli ambienti neoconservatori fortemente sovrarappresentati all’interno dello “Stato profondo”, ma pur sempre presente nel novero delle opzioni strategiche e proprio per questo profondamente temuta dai leader russofobi e ultra-atlantisti della “nuova Europa”. I quali non perdono occasione per trascinare l’imbelle Unione Europea verso una posizione di crescente ostilità nei confronti della Russia – dai risultati catastrofici dal punto di vista sia economico che strategico – proprio perché persuasi che il rango dei loro Paesi, e i relativi dividendi di natura economica e (geo)politica che ne derivano, risulti direttamente subordinato al grado di rilevanza che gli Stati Uniti attribuiscono all’accerchiamento della Russia.
Osservata dal punto di vista strettamente geopolitico, infatti, la dottrina del rollback applicata da Washington nei confronti della Federazione Russa denota una smaccata illogicità di fondo. Prima d’ora, gli Stati Uniti non si sono mai trovati nelle condizioni di affrontare un avversario come la Repubblica Popolare Cinese, che va ogni giorno di più attrezzandosi per soverchiare gli Usa sotto il profilo economico, tecnologico e militare […].
Oggi, la logica della strategia imporrebbe ai decisori statunitensi l’adozione di un approccio pragmatico, implicante la predisposizione di una manovra di avvicinamento verso il Cremlino basata sul riconoscimento degli interessi nazionali russi e la strumentalizzazione delle non inesistenti divergenze tra Mosca e Pechino. In primo luogo perché la Russia «non ha la taglia per scalare la vetta del potere planetario. Ma è la quantità marginale che gettando il suo peso sull’uno o sull’altro piatto della bilancia può decidere della partita fra Stati Uniti e Cina»; un’alleanza tra Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese rag-giungerebbe la massa critica per «squilibrare il parallelogramma delle forze a danno di Washington». Un’intesa con il Cremlino, viceversa, permetterebbe a Washington di riposizionare nell’area dell’Indo-Pacifico le risorse attualmente dedicate all’accerchiamento della Federazione Russa in Europa orientale, Caucaso e Medio Oriente, e focalizzare così l’attenzione sulla questione di gran lunga più cogente, costituita dall’ascesa della Cina e dalla rapidità con cui Pechino continua implacabilmente ad erodere i residui vantaggi di cui godono ancora gli Usa.
Non è un caso che il più convinto sostenitore della linea della normalizzazione dei rapporti con Mosca sia proprio Henry Kissinger, il principale architetto dell’intesa sino-statunitense del 1972. In un’intervista rilasciata a «The Atlantic» nel 2016, l’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale e segretario di Stato di Nixon raccomandava di guardare alla Russia «non come a un avversario, ma come a un partner con cui trovare una soluzione», e sottolineava che «Putin è consapevole che la Russia oggi è molto più debole di un tempo […]. Ha perso 300 anni di storia con il collasso dell’Unione Sovietica e ora si ritrova minacciata strategicamente lungo tutti i suoi confini».
Sulla strada che conduce all’attuazione delle direttive kissingeriane si ergono una serie di ostacoli formidabili, a partire dall’impellente necessità dell’apparato dirigenziale Usa di preservare un “nemico perfetto” attraverso cui (tentare) tenere insieme i pezzi di una società dome¬stica frustrata, impoverita e pericolosamente avviata verso la disgregazione, e legittimare allo stesso la sopravvivenza di un’organizzazione obsoleta e sempre più contestata come la Nato. La quale costituisce a sua volta la migliore garanzia per la perpetuazione dell’occupazione militar-strategica statunitense di un teatro di primaria importanza come l’Europa, che nella visione profondamente influenzata dalle teorizzazioni di Mackinder e Brzezinski tuttora imperante nel mondo degli “apparati” di Washington risulta imprescindibile per prevenire qualsiasi forma di collaborazione tra Russia ed Europa (leggi: Germa¬nia) in grado di ridimensionare la supremazia Usa. Di qui la decisione statunitense di pianificare la sovversione degli equilibri politici interni all’Ucraina per trasformarla in un cuneo da frapporre tra Mitteleuropa e Russia votato all’isolamento dell’Heartland, e intensificare al contempo la pressione militare (espansione della Nato, moltiplicazione delle esercitazioni dell’Alleanza Atlantica in Europa orientale), economica (inasprimento delle sanzioni) e politica (strumentalizzazione del caso Naval’nyj e delle proteste in Bielorussia) sulla Russia.
Kissinger è stato tra i pochissimi – nell’intervista a «The Atlantic», è egli stesso a definire minoritaria” la sua scuola di pensiero – a cogliere la natura spiccatamente difensiva delle mosse compiute da Vladimir Pu¬tin a partire dal 2014, e a rendersi conto che nessun leader russo avrebbe mai potuto accettare la prospettiva, resa particolarmente concreta dal colpo di Stato di “Euro-Majdan”, di ritrovarsi la Nato saldamente impiantata in Crimea e alle porte dello stesso bassopiano sarmatico attraversato dalle armate di Napoleone ed Hitler. L’annessione della penisola, attuata con il consenso schiacciante della popolazione locale, ha preservato il controllo russo sull’importantissimo porto di Sebastopoli, mentre l’appoggio garantito alle repubbliche secessioniste di Luhans’k e Donec’k ha permesso alla Federazione Russa di frapporre un imprescindibile cuscinetto fra sé e la Nato. Le cui porte rimangono aperte non solo per l’Ucraina, ma anche per la Georgia, come dichiarato sia dal segretario di Stato Blinken che dal segretario generale dell’Alleanza Stoltenberg. Ai due Paesi, la possibilità era già stata prospettata durante il vertice della Nato di Bucarest dell’aprile 2008, pochi mesi prima che Saakashvili ordinasse l’attacco contro Abkhazia e Ossezia del Sud innescando l’escalation culminata con la sconfitta militare della Georgia ad opera della Russia. A dispetto di quanto prospettato da alcuni, le intenzioni del Cremlino non vertono sull’annessione del Donbass sulla falsariga del precedente della Crimea, ma sulla stretta osservanza degli Accordi di Minsk, implicanti la concessione di uno statuto speciale alle regioni di Luhans’k e Donec’k (dove i russi etnici sono in maggioranza) che assicuri alla Russia una “quinta colonna” interna allo Stato ucraino di cui avvalersi per influenzare il processo decisionale di Kiev – per lo stesso, identico motivo, la leadership ucraina ostacola l’applicazione dell’intesa raggiunta in Bielorussia e ne invoca la revisione.
A ennesima riprova del fatto che, ristabilito l’equilibrio strategico grazie alla messa a punto di un formidabile arsenale nucleare, la priorità odierna della Russia consiste nel sigillare i propri confini occidentali, consolidando la propria influenza entro gli ex satelliti al fine di ricostituire legami politico-economico-commerciali con il proprio “estero vicino” confluito sotto l’ombrello militar-strategico statunitense e impedire un’ulteriore espansione della Nato verso est […].
L’ostinata renitenza dell’Alleanza Atlantica a riconoscere a Mosca qualsiasi legittimità nell’esercizio di influenza nel proprio “estero vicino” ha portato alla formazione di una sorta di “vallo eurasiatico” che, nelle intenzioni di Washington, dovrebbe «interrompere arterie secolari, in grado di assicurare la circolazione di beni materiali, culture, costumi, tradizioni, religioni, dialogo interetnico che si era sviluppata dall’antichità all’età di mezzo, dall’era moderna a quella contemporanea fino ai nostri giorni». A differenza di quella originaria, per di più, la nuova “cortina di ferro” appare strutturalmente votata a produrre frizioni anziché (relativa) stabilità, soprattutto perché priva di una collocazione geografica fissa. Essa non corre più “da Stettino a Trieste”, ma da Murmansk a Sebastopoli, sfiorando la direttrice San Pietroburgo-Rostov. La “linea del fronte” si è quindi spostata 1.200 km più a est, a una distanza dal cuore storico, demografico ed economico della Russia mai così pericolosamente ridotta dai tempi di Ivan in Grande. La presenza della Nato a ridosso dei confini russi priva il Cremlino dello spazio necessario a qualsiasi forma di arretramento, costringendo Mosca a reagire a ogni iniziativa dello schieramento nemico con la durezza e l’imprevedibilità ravvisabili in qualsiasi soggetto che si ritrovi nelle condizioni di dover fronteggiare minacce di tipo esistenziale. Di qui l’inequivocabilità con cui Putin ha indicato nel mantenimento dell’Ucraina in uno stato di neutralità geopolitica e nella permanenza della Bielorussia entro la sfera d’influenza russa – con o senza Lukašenko – le due “linee rosse” di cui non verrà d’ora in poi tollerata in alcun modo la violazione.
Come ha osservato Stephen Cohen, eminente russologo statunitense recentemente scomparso, «l’epicentro politico della “nuova Guerra Fredda” non si trova più nella lontana Berlino, come accadeva nei tardi anni ’40, ma direttamente ai confini della Russia, all’altezza dei Paesi baltici, dell’Ucraina e di un’altra ex repubblica sovietica, la Georgia. Da ciascuno di questi fronti potrebbe scaturire la scintilla in grado di scatenare una guerra […], perché il blocco sovietico che un tempo fungeva da cuscinetto tra la Nato e la Russia non esiste più», grazie all’espansione dell’Alleanza Atlantica verso est avviata nella seconda metà degli anni ’90 per iniziativa di Washington. Un processo che George Kennan, massimo architetto della dottrina del containment, aveva caldamente sconsigliato di innescare già nel 1997; a suo avviso, l’allargamento della Nato avrebbe infatti «infiammato le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militariste in seno all’opinione pubblica russa; prodotto un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; rigettato le relazioni tra est e ovest nel clima della Guerra Fredda e indirizzato la politica estera di Mosca verso direzioni a noi sfavorevoli».
I decisori di Washington hanno puntualmente ignorato il monito di Kennan, in nome di una hybris imperiale che continua ancora oggi a definire le direttrici strategiche statunitensi nonostante il palese declino politico, economico e sociale che attanaglia il Paese. Lo si evince dall’ostinazione con cui l’apparato dirigenziale Usa si prodiga per impedire che gli equilibri geopolitici mondiali assumano una configurazione multipolare, nell’ambito di una “fatica di Sisifo” intrapresa in base all’illusoria convinzione di poter invertire un processo storico ineluttabile. Anche a costo di spingere il pianeta sull’orlo del disastro.