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La scommessa di Israele

di Enrico Tomaselli - 09/01/2025

La scommessa di Israele

Fonte: Giubbe rosse

Che la caduta di Assad in Siria non fosse poi questo gran successo, per l’occidente, è cosa che sta lentamente cominciando a chiarirsi; ciononostante, sono più o meno tutti concordi nel ritenere che – tra tutti gli attori regionali ed internazionali in scena – l’unico ad averne tratto sicuramente grande vantaggio è Israele. Il che effettivamente è difficile da contestare, visto che ha potuto ottenere, praticamente a costo zero, una serie di risultati niente affatto di poco conto.
Innanzi tutto, ha potuto procedere in tutta tranquillità alla distruzione sistematica dell’intera infrastruttura militare siriana, eliminando dall’orizzonte quello che – pur ormai ridotto molto male – è stato uno degli eserciti arabi sempre in prima linea in tutte le guerre con lo stato ebraico. Ha inoltre potuto occupare una parte significativa di territorio siriano, ben oltre le alture del Golan annesse di fatto dal 1967. Occupazione che dà a Tel Aviv più di una carta da giocarsi, nella ridefinizione degli equilibri in Medio Oriente.

Tanto per cominciare, la conquista del monte Hermon, che offre all’IDF la possibilità di controllare una vasta aerea, dal Mediterraneo alla Giordania, per non parlare di quella di alcune dighe, che danno ad Israele il controllo sulle forniture di acqua dolce alla Siria ed alla Giordania, un evidente leva geopolitica di grande rilevanza. Niente affatto secondariamente, poi, i nuovi territori occupati offrono ulteriori possibilità, dall’espansione degli insediamenti coloniali (venendo così incontro ai desiderata dell’ala più estremista della sua maggioranza, ed al tempo stesso offrendo uno sfogo all’irrequieto movimento dei settler), alla creazione di uno stato-cuscinetto affidato ai drusi siriani. Per non parlare, ovviamente, del fatto che ora l’IDF controlla la parte meridionale del confine siro-libanese, il che dà all’esercito israeliano la possibilità (in caso di riaccendersi del conflitto con Hezbollah) di attaccare il territorio libanese da un lato dove non esistono linee difensive fortificate.

Se, dunque, indiscutibilmente Tel Aviv ha tratto vantaggio dal cambio di regime in Siria, resta da capire se si tratti di un vantaggio tattico o strategico. Il che, a sua volta, richiede che si comprenda in quale direzione sta andando Israele.
Ovviamente, la narrazione del governo Netanyahu è che stia inanellando un successo dopo l’altro, anzi che tali successi siano non solo numerosi ma decisamente di tutto rilievo, quasi che manchi poco alla definitiva sconfitta dell’intero Asse della Resistenza. Narrazione che però non solo risulta sconnessa dalla realtà, né più né meno che quella occidentale sul conflitto in Ucraina (le similitudini tra questi due teatri di guerra sono davvero infinite…), ma che rivela essa stessa tutta la sua fallacia nel momento stesso in cui non considera alcuna prospettiva per il dopo. Il punto è che c’è sicuramente un interesse degli attuali partiti di governo a mantenere lo stato di guerra, ma quello che risulta meno evidente è che in effetti questa è oggi un’esigenza dello stato ebraico stesso, indipendentemente da chi lo guidi.

Tutte le mosse della leadership israeliana, infatti, anche quando appaiono andare in direzione di una (parziale) chiusura dei fronti di guerra, sono in realtà determinate da esigenze puramente tattiche; la direzione strategica di Israele va invece verso il prolungamento del conflitto (e quindi la sua estensione), poiché se dovesse venire meno la tensione della guerra, a cadere non sarebbe semplicemente l’attuale maggioranza di governo, ma l’esistenza stesso dello stato ne risulterebbe così profondamente scossa da rasentare il collasso.
Da sempre, Israele si è imposta ed è sopravvissuta grazie al sostegno diplomatico, militare ed economico dell’occidente; per una breve fase della sua storia recente, ha cercato di emanciparsi – almeno parzialmente – dalla dipendenza economica, cercando di sviluppare una propria economia (soprattutto nei settori della difesa e della cyber security), ma una delle conseguenza del 7 ottobre – non solo, ma principalmente – è stata che questo tentativo di crescita autonoma si è rivelato strutturalmente impossibile, poiché Israele rimane uno stato coloniale, che non può sopravvivere senza i legami con la madrepatria.

In effetti, quindi, la guerra è per Israele non solo il modo migliore per tenere vivo questo legame, ma per tenere insieme la stessa società israeliana, ed è pertanto irrinunciabile.
Il cessate il fuoco con Hezbollah in Libano, ed i più o meno sinceri tentativi di raggiungere uno scambio di prigionieri a Gaza, vanno pertanto visti come mosse tattiche, dettate da esigenze specifiche e circostanziate, per nulla inserite in un percorso strategico.
L’accordo di cessate il fuoco sul fronte nord, mediato dagli Stati Uniti e la cui attuazione è da questi verificata, ha consentito all’IDF di porre fine alle dure perdite che stava registrando nei combattimenti, senza peraltro conseguire alcun risultato né in termini di avanzamento territoriale, né in termini di sicurezza. Ma questo accordo risponde pienamente alla medesima logica dei famigerati accordi di Minsk, è solo un modo per guadagnare tempo. Non solo l’IDF sta approfittando della tregua per ottenere quei risultati che non è stato capace di ottenere in battaglia, ma le sue continue violazioni (già oltre 300), costantemente coperte dagli americani, preannunciano ciò che del resto i vertici israeliani dicono apertamente: non si ritireranno dalle porzioni di territorio occupato (se non nella misura che riterranno vantaggiosa), violando pertanto i termini dell’accordo.

Più o meno la stessa sceneggiatura dell’ormai saga infinita sull’accordo di scambio prigionieri a Gaza. È sin troppo evidente che l’unica ragione per cui il governo di Tel Aviv tiene ancora in piedi le trattative è tener buona quella parte di cittadinanza che vorrebbe il ritorno degli ostaggi, e soprattutto blandire Trump che vorrebbe tanto intestarsene la liberazione. Ma il nodo di tutto non sono certo le diatribe sui nomi di chi dovrà essere liberato, da una parte e dall’altra – benché poi anche questo assuma rilevanza politica. Il cuore di tutto sono le richieste più importanti della Resistenza: completo ritiro israeliano, cessazione delle ostilità. Richieste che possono essere avanzate e sostenute non soltanto perché, dopo quindici mesi, ci sono ancora decine di prigionieri israeliani in mano alle formazioni combattenti, ma soprattutto perché queste sono – appunto! – ancora combattenti. Nonostante lo spaventoso volume di fuoco riversato sui 360 kmdella Striscia, infatti, la Resistenza non cessa di affrontare quotidianamente le forze israeliane.

Che si tratti di Hezbollah o di Hamas, quindi, la questione per Israele è semplicemente prendere tempo, sia per far riprendere parzialmente fiato alle truppe, sia per aspettare congiunture migliori. Idealmente, infatti, Israele deve affrontare i suoi avversari separatamente, ed in tempi diversi, perché sostenere uno scontro a tutto campo ha un costo insostenibile oltre una certa soglia. Ma se questo è assai chiaro alla leadership militare, lo è assai meno a quella politica. Questa divergenza crea spesso attriti, ma soprattutto impedisce di mettere a punto una strategia politica e militare che si ponga degli obiettivi realisticamente raggiungibili, e di definire i passaggi attraverso cui conseguirli. Non a caso, e da ormai moltissimo tempo, la rilevanza politica delle forze armate è di molto ridimensionata, rispetto agli anni delle guerre arabo-israeliane, e la leadership politica viene solo in piccola misura dai quadri dell’esercito, e sempre più invece dalla burocrazia di apparato e dai coloni. Per questi leader, la guerra diventa quindi uno strumento politico, ma non in senso clausewitziano.

La leadership israeliana, e dietro di essa il potente movimento dei coloni, sembra essere entrata in una fase in cui il delirio messianico della Grande Israele biblica si coniuga con le opportunità (presunte) offerte dal momento, il che la spinge in una direzione ancora più folle. A convincere i leader israeliani che sia questo il momento giusto per la grande espansione dello stato ebraico, è per un verso una distorta lettura degli avvenimenti presenti, e per un altro – forse ancor più determinante – la percezione che il mondo sia entrato in un’era in cui il diritto è pienamente soppiantato dalla forza.
Fondamentalmente, è a partire dalle guerre balcaniche per la disintegrazione della Jugoslavia che questo processo prende avvio, e trova il suo coronamento con l’aggressione della NATO alla Serbia e la creazione dello stato-fantoccio del Kosovo. In quel momento, infatti, viene definitivamente a cadere l’imperativo dell’integrità territoriale delle nazioni, e si riapre il vaso di Pandora delle guerre di conquista. Che, tra l’altro, giustificano sul piano sostanziale anche l’azione russa in Ucraina.

Del resto, di questa nuova era all’insegna del diritto della forza (e di cui le dichiarazioni di Trump su Groenlandia, Canada e Canale di Panama sono corollario), Israele è stato precursore. Ma la progressiva caduta delle inibizioni dovute al diritto internazionale agisce di fatto come elemento liberatorio, nei confronti delle storiche pulsioni espansionistiche sioniste. Ed ecco quindi che si ripresentano tali ambizioni non solo su Gaza e sulla Cisgiordania, ma anche sul Libano e sulla Siria, e persino sul Sinai egiziano.
È ormai conclamato che non intende ritirarsi né dal Libano né dalla Siria, il che ovviamente significa innanzi tutto che l’accordo di cessate il fuoco, e la stessa risoluzione 1701 dell’ONU, resteranno carta straccia, e quindi Hezbollah sarà nel pieno di diritto di non applicarne a sua volta i termini, e di riprendere il conflitto cinetico quando lo riterrà opportuno. Ma, per quanto riguarda i territori siriani occupati, si apre invece una partita assai più complessa, in cui il potenziale avversario diventa la Turchia.

Sul breve termine, ovviamente la questione su cui si verificherà l’attrito è la posizione di Ankara rispetto all’integrità territoriale della Siria, che non può essere messa in discussione. Sia perché è il principale strumento per negare ai curdi la possibilità di ritagliarsi un proprio enclave, sia perché la Turchia ha a sua volta aspirazioni espansionistiche, ovviamente non in termini di conquista ed annessione, ma in termini di egemonia ed influenza. Queste due spinte contrastanti sono destinate a confliggere quasi ineluttabilmente, e sicuramente raggiungeranno un punto di crisi dal momento in cui la questione curda sarà risolta, in un modo o in un altro. Dal punto di vista israeliano, si tratterebbe di uno scenario estremamente preoccupante, non solo perché le forze armate turche sono le seconde della NATO, ma anche perché – nonostante la retorica di Erdogan – attualmente la Turchia ricopre un ruolo fondamentale nell’assicurare la sopravvivenza dello stato ebraico, sia attraverso considerevoli forniture commerciali [1], sia attraverso le forniture di petrolio azero, che coprono il 40% del fabbisogno israeliano.

Significativo che il Comitato Nagel, un organismo del governo israeliano, abbia di recente raccomandato la necessità di  prepararsi alla guerra con la Turchia, una minaccia che potrebbe “superare anche la sfida dell’Iran”. Secondo il Comitato, Ankara sta cercando di ripristinare la sua influenza sull’ex-Impero Ottomano, il che potrebbe portare ad un conflitto con Israele; in questa eventualità, Ankara potrebbe unire le sue forze con quelle siriane. Lo stesso Netanyahu ha dichiarato che “l’Iran è stato a lungo la nostra più grande minaccia, ma nuove forze stanno entrando nell’arena e dobbiamo essere preparati all’inaspettato”.
Sebbene la questione di un confronto diretto tra i due paesi non sia imminente, e sicuramente vi sono interessi reciproci che spingono in direzione opposta, è evidente che due imperialismi regionali tendono naturalmente a collidere, ed è ovvio che si preparino per questa eventualità. Ciò significa che Tel Aviv deve mettere nel conto la possibilità di uno scontro con i turchi, magari anche soltanto attraverso i suoi proxy siriani. Il che significa molto semplicemente che l’occupazione dei territori in Siria richiede una presenza militare di sicurezza, estendendo ulteriormente l’impegno dell’IDF. Estensione sia nello spazio che nel tempo.

Come se non bastasse, cresce la tensione anche con l’Egitto. Israele lamenta che Il Cairo stia rafforzando la sua presenza militare nel Sinai, sia attraverso il dispiegamento di unità corazzate, sia con la (presunta) costruzione di barriere difensive. Tel Aviv accusa il governo egiziano di violazione degli accordi di Camp David, dimenticando però che li sta a sua volta violando, attraverso l’occupazione militare del cosiddetto Corridoio Philadelphia al confine meridionale della Striscia di Gaza. In sostanza, Israele soffia sul fuoco anche verso sud, e non mancheranno prima o poi i coloni che invocheranno la creazione di insediamenti nel Sinai. Un famoso giornalista sionista, Hallel Bitton Rosen [2], ha lamentato che le misure difensive egiziane, in caso di un conflitto, potrebbero ostacolare l’azione delle forze israeliane! La mossa egiziana, d’altro canto, è legata anche al timore che – sull’onda della rivoluzione siriana – ci siano forze regionali e non che possano cercare di spodestare Al-Sisi, e la penisola del Sinai è proprio l’area dove si muovono le formazioni legate ai Fratelli Musulmani. Anche l’Egitto è, come la Turchia, un paese sostanzialmente in buoni rapporti con Israele, ma è anche consapevole che i sogni degli estremisti sionisti si spingono anche su terre egiziane, e che a Tel Aviv si pensa al Cairo come un competitor e (potenzialmente) un temibile avversario, con i suoi 113 milioni abitanti.
Israele non è infatti estranea alle manovre sottotraccia per destabilizzare l’Egitto, e guarda con malcelato favore al riemergere delle tensioni interne [3].

Anche al netto del messianesimo di alcune componenti del governo, e delle ambizioni personali di Netanyahu, appare evidente che c’è un movimento della società israeliana nel suo complesso verso uno stato di guerra permanente, che risponde all’esigenza di non fare i conti con le proprie insanabili contraddizioni, prima tra tutte la crisi del progetto sionista, messa radicalmente in discussione con l’operazione Al-Aqsa Flood.
Prova ne sia che, nel momento in cui la leadership israeliana proclama la propria volontà colonizzatrice, si rivela al contempo incapace di delineare un disegno post-bellico; al contrario, alimenta nuovi scenari di conflitto. La guerra deve continuare perché il governo non vede alternative praticabili, e continua perché (e finché) Israele è in grado di sostenerla.
La scommessa è tutta qui. I nodi di ottant’anni di occupazione ed apartheid sono arrivati al pettine, e l’unico modo che la leadership sionista vede per impedire il collasso è la mobilitazione permanente della società, che deve essere rassicurata con la narrazione di successi e vittorie (vere o fittizie che siano), ma anche tenuta in tensione con la paura di minacce vecchie e nuove, vere o fittizie che siano.


1 – Tra il 3 maggio e il 7 dicembre 2024, nonostante gli annunci ufficiali di rottura delle relazioni, l’attività commerciale turca con Israele è aumentata in modo significativo. Durante questo periodo sono stati effettuati oltre 340 viaggi tra i due paesi, le navi turche attraversano il Mediterraneo passando per l’Egitto, e raggiungendo i porti di Haifa e Ashdod. Nel periodo in questione, 108 navi turche hanno viaggiato verso Israele, trasportando una varietà di merci tra cui petrolio, prodotti chimici, veicoli, materiale rotabile e altri materiali essenziali. 36 navi portacontainer turche hanno effettuato 148 viaggi, mentre 30 navi cargo generali hanno completato 66 viaggi nello stesso periodo. 48 navi petrolifere e chimiche hanno effettuato 48 viaggi e 61 navi per veicoli e roll-on/roll-off hanno completato 61 viaggi in Israele.
2 – Si tratta di un estremista antiarabo, di recente ha scritto sul suo canale Telegram che “è necessario lanciare una guerra totale contro tutte le città e i villaggi arabi nel settore del Comando Centrale, prima che lo facciano davanti a noi” (Cfr. HallelBittonRosen).
3 – Cfr. “Is It Egypt’s Turn Now? Anti-Sissi Campaign Gaining Traction on X”, Nagham Zbeedat, Haaretz