La società delle dipendenze
di Adriano Segatori - 19/07/2022
Fonte: Italicum
Intervista ad Adriano Segatori, autore del libro “Società tossica e sistema spacciatore” Settimo Sigillo 2021, a cura di Luigi Tedeschi
1) La modernità e la postmodernità traggono la loro ragion d’essere dalla fine delle ideologie e dalla progressiva scomparsa dalla dimensione trascendente dell’uomo. L’avvento della società cosmopolita dell’era della globalizzazione ha comportato lo sradicamento delle identità dei popoli e degli stati nazionali. La scomparsa delle culture identitarie non ha profondamente inciso sulla stessa base antropologica dell’uomo, trasformatosi da essere sociale a essere virtuale? Tale trasformazione non è stata resa possibile dalla rescissione della naturale trasmissione generazionale dell’eredità storica ed etica che costituivano gli elementi fondativi della struttura comunitaria della società? La postmodernità non è identificabile con la rimozione generalizzata di quell’inconscio individuale e collettivo sedimentatosi per millenni e che costituiva il patrimonio etico e culturale identitario di ogni comunità e ne consentiva il perpetuarsi nel succedersi delle generazioni e quindi della storia?
La contemporaneità è il risultato di decenni di manipolazione di massa e di disintegrazione metodica e pervasiva di ogni trascendenza. La cosiddetta “fine delle ideologie e della Storia” è stato un abile trucco posto in essere dal sistema globalista per far passare come ineluttabile l’unica narrazione possibile, quella del progresso indefinito e del mercato onnipotente. In questo cruciale trapasso sociale e politico, l’uomo ha perduto ogni connessione con le leggi di natura e il retaggio comunitario, rintanandosi in una ottimistica sottomissione. Dice bene Diego Fusaro quando denuncia in termini marxiani il passaggio dalla coscienza infelice e dal coraggio critico alla patetica allegria della superficialità felice della “tribù resiliente della post-modernità”. Perché in questo stato sociale e psicologico sono stati ridotti sia il proletariato che la borghesia – condizione desiderata e perseguita sempre dal primo: una massa informe simile alla gleba, sufficientemente gratificata dai sussidi governativi e dalle distrazioni emotive: una riedizione post-moderna del panem et circenses di Giovenale.
2) Secondo Carl Schmitt lo stato deve assumere il monopolio del “politico”, pena la sua dissoluzione. La società civile deve dunque compenetrarsi nello stato. Nella ideologia liberale lo stato invece è solo garante dei diritti individuali e svolge una funzione regolatrice nella società civile. Allo stato è devoluta la governance tecnico – economica della società. Nella prospettiva neoliberista sembrano essersi capovolti i rapporti tra stato e società e appare del tutto stravolta la stessa struttura dello stato liberale. Lo stato infatti assume una funzione strumentale rispetto alle forze economiche e politiche dominanti nella società civile. Nel contesto della società neoliberista non si è affermata una nuova statolatria totalitaria e repressiva subordinata alle direttive di organismi sovranazionali esterni allo stato, quali effettivi detentori della sovranità degli stati?
Lo Stato, in quanto entità politica, deve essere necessariamente sovrano, in politica, nei confini e in economia. La sovranità è l’anima dello Stato, avverte Hobbes, e senza questa prerogativa non negoziabile viene meno la stessa identità di popolo che lo Stato ha diritto/dovere di rappresentare. La società è la rappresentazione dei bisogni individuali e, se vogliamo, anche dei vizi connessi, da ciò la necessità imprescindibile di un controllo superiore e di una educazione che attivi il senso di appartenenza comunitaria in una totalità di memoria e di destino. Da diversi decenni, contro lo Stato è in atto una lotta senza quartiere da parte dell’economia globalista e della finanza internazionale, che non possono tollerare limiti al libero commercio di uomini e di merci. Deve essere chiaro, quindi, che il potere globalista è avversario acerrimo di tutti gli stati nazionali. Ecco individuato il nemico di cui parla Schmitt, quell’istanza imprescindibile dal concetto stesso di Stato. Il problema contemporaneo è aggravato da un nemico interno, la quinta colonna mondialista, quella sinistra radical-chic alleata alle forze disgregatrici transnazionali. La sinistra ha fatto propria la teologia liberista e, con essa, la mistica dei diritti individuali: non più lo Stato etico allevatore di anime e di cittadini, ma apparato societario difensore dei rapinatori finanziari e delle voglie egoistiche individuali e collettive. La miscela esplosiva della disintegrazione statuale.
3) Nella civiltà classica erano i valori etici comunitari a presiedere al governo politico della società. Pertanto erano i valori civili, quali virtù etiche praticate dai cittadini a preservare la sussistenza della polis. La società medioevale era fondata sui valori trascendenti della religione cristiana. Quindi, era la prospettiva salvifica ultraterrena intesa come definitivo compimento del senso della vita dell’uomo a emendare l’umanità da tutti i suoi mali. Nel mondo postmoderno, la prospettiva tecnocratico – scientista dominante ha imposto una concezione patologica della antropologia umana, che coinvolge l’integrale corso della vita dell’uomo. La vita stessa, diviene quindi una patologia che per essere esorcizzata necessita del superamento della stessa condizione umana? La patologizzazione della esistenza umana, non costituisce il fondamento da cui traggono origine le ideologie scientifiche transumanistiche emerse con l’avvento della postmodernità?
Uno dei princìpi irrinunciabili delle comunità antiche, e quella ellenica come esempio originario, era racchiuso nella formula katà métron, secondo giusta misura. È il limite che, come virtù, deve essere presente in ogni forma, dalla natura all’interesse individuale. “Il Dio Termine si trova all’entrata del mondo in funzione di sentinella. La condizione di entrarvi è l’auto-limitazione. Quello che diviene realtà, lo diviene sempre esclusivamente in quanto è qualcosa di determinato”, enuncia Feuerbach, e in tempi più vicini a noi, Benasayag e Schmit, rispettivamente psicoanalista e psichiatra, scrivono che “Se tutto è possibile, allora più niente è reale”. Ecco che, in uno spazio di duecento anni, un filosofo e due esperti della psiche concordano su un criterio adottato dalla mentalità degli antichi greci. La modernità ha scatenato le forze meccaniche per controllare la natura, trasformando la tecnica in tecnocrazia e la scienza in scientismo, con lo scopo di sollevare l’uomo dalle fatiche e dal dolore. La post-modernità, a questo punto, ha superato ogni limite fino a scoprire le vere carte del progetto: non la liberazione dell’uomo ma, letteralmente, la liberazione dall’uomo. E così la vita è passata da impresa irripetibile da dedicare al destino a programmazione cibernetica di una inverosimile eternità transumana.
4) La tecnocrazia e il capitalismo hanno distrutto la dimensione storica ed etica dell’uomo. Ne è scaturita una umanità alienata nell’oggettività produttiva – consumistica dell’eterno presente. L’ideologia del progresso illimitato è alla base dello sviluppo del capitalismo globalista. Ogni conquista del progresso implica il suo superamento. Con il progresso illimitato è venuto meno il concetto di limite, intrinseco alla natura umana, proprio della cultura classica e delle religioni monoteiste. La stessa ontologia umana nella prospettiva del progresso illimitato, costituisce un limite che esige il suo superamento. La tecnocrazia ha dunque creato una realtà virtuale che si antepone e progressivamente si sostituisce al mondo reale. Ma è la tecnocrazia a possedere il monopolio del mondo virtuale e quindi ne detiene le chiavi d’accesso. Così come nella società neoliberista, in cui il denaro è il motore del mondo, sono le istituzioni finanziarie globali a detenere il monopolio dell’emissione di un denaro virtuale, perché creato dal nulla. Pertanto, la tecnocrazia, quale monopolista del mondo virtuale e il capitalismo finanziario, quale monopolista del denaro, non hanno imposto un dominio totalitario neoliberista a livello globale, di cui la rivoluzione digitale incombente non potrà che rappresentare la fase del suo definitivo compimento?
Tecnocrazia e finanza: le due ganasce di una morsa dentro alle quali l’uomo è schiacciato. Un uomo glebalizzato, per usare il linguaggio di Fusaro, ridotto a meccanismo di apparati impersonali e sostanzialmente cinici. L’uomo ridotto a consumatore, confermando il pensiero di Massimo fini che scrisse: “Il liberal-capitalismo ha bisogno del bisogno, quindi lo crea”. È sull’induzione del bisogno strumentalmente indotto che il sistema si è trasformato in spacciatore di voglie e di illusioni. Dall’alcol all’estetica, dal gioco al lavoro, dalla sessualità ad internet allo sport – tutte le abitudini e le attività umane sono state sfruttate dalla tecnocrazia e dal capitale – dispositivi sinergici e convergenti allo stesso scopo – per rendere l’uomo da cittadino a suddito. È così che il potere, senza necessità di particolari coercizioni evidenti, ha soggiogato la massa in una operazione di autoaddomesticamento. Una modalità pseudospontanea di mansuetudine, sufficiente a disinnescare qualunque desiderio di liberazione, il minimo desiderio di rivoluzione: non si denuncia lo spacciatore che soddisfa le nostre pulsioni e appaga le nostre astinenze. Il panem et circenses di Giovenale è stato modernizzato in reddito di cittadinanza e distrazioni ingannevoli – dai giochi di ruolo al casinò telematico, dal sesso virtuale alla ginnastica video trasmessa, dai cibi a domicilio alle relazioni via Skype. Il tutto in relazioni aleatorie e in blindato isolamento reale.
5) L’avvento di internet ha destrutturato le capacità cognitive dell’uomo. Ha determinato la desensibilizzazione della coscienza, in quanto comporta un accesso mediato alla realtà. La tecnocrazia ha prodotto nuove dipendenze, la virtualità ha generato l’espansione illimitata delle voglie incontrollate, l’emersione di patologie destinate a destabilizzare l’equilibrio psichico di intere generazioni. Il mondo virtuale è il regno dell’illimitato e della disintegrazione sociale. Una umanità affetta da dipendenze patologiche non si identifica con una società caratterizzata da un infantilismo collettivo bisognoso di protezione e di dominio assoluto? Ma soprattutto, nella società tossica in cui regna il relativismo etico assoluto, in cui ogni concezione veritativa è ormai scomparsa, come sarà possibile definire un confine tra patologia e salute psicofisica nell’uomo?
La liquefazione del collante comunitario, con il persistente e pervasivo attacco ai legami familiari, alle stabilità relazionali, alla certezza lavorativa, a tutti i fattori di reciprocità e di solidarietà, è stata un’operazione riuscita da parte del sistema globalista. In più, è da dire, con il soccorso di quella fortunata occasione offerta dalla comparsata virale. Ecco, allora, confermare ulteriormente la necessità di dissoluzione generale con l’applicazione del lavoro a domicilio, della didattica a distanza, del cosiddetto e-commerce. Uno scenario completo di decostruzione politica e simbolica dell’uomo e della realtà di appartenenza. La paura indotta, poi, è intervenuta pesantemente non solo sulle competenze cognitive, ma soprattutto sulla tenuta emotiva individuale e collettiva. Da un lato, la rinuncia ad indagare sulla possibile verità della narrazione, accettando ogni indicazione martellata dalle agenzie varie del potere – pseudoscienziati, megafoni del pensiero unico, stregoni della psiche e filosofi organici; dall’altro una richiesta supina di sicurezza, fino all’introiezione di quel principio deleterio che va sotto il nome di resilienza. Risultato finale: tra flessibilità e rassegnazione, siamo all’avvento dell’idiota riunito sotto il motto “andrà tutto bene”, del servo sufficientemente accudito da non accorgersi della sua condizione plebea, del nuovo uomo – o forse l’ultimo? – felicemente incosciente e impotente, senza capacità critica di sé e del contesto nel quale è immerso. È la patologia del mondo che viene scaricata sul singolo colpevolizzandolo di un fallimento che non è il suo.