La Turchia profonda vuole Erdogan
di Alberto Negri - 25/06/2018
Fonte: Ispe
rdogan ha fatto il pieno vincendo le elezioni presidenziali e legislative anticipate, sopravanzando i sondaggi che pronosticavano la perdita della maggioranza parlamentare per il partito di governo Akp. Per capire la popolarità di Recep Tayyip Erdogan, presidente con pieni poteri, capo quasi assoluto della Turchia, noi giornalisti (e forse pure i sondaggisti) dovremmo frequentare meno la brillante e intellettuale borghesia di Istanbul e un po’ di più la Turchia profonda: una considerazione che mi veniva alla vigilia del voto conversando qui a Istanbul con Ferzan Ozpetek, il regista di “Napoli Velata” e di altri film eccellenti, quasi tutti appartenenti per altro alla tradizione italiana, come lui stesso sottolinea con orgoglio.
Dal 2002 l’Akp ha vinto 12 elezioni e comunque in un decennio i turchi hanno raddoppiato il loro reddito medio pro capite: per quanto il concorrente più serio di Erdogan, Muharrem Ince del partito repubblicano Chp, abbia rivitalizzato l’opposizione con comizi oceanici, da quasi una generazione i turchi sono inclini a dare più fiducia a Erdogan che a chiunque altro. E ancora di più - soprattutto dopo il fallito colpo di stato del luglio 2016 - una maggioranza è disposta anche a passare sopra a centinaia di migliaia di arresti di gulenisti e non perché il Reìs assicura continuità e comunque il proseguimento di un sogno di modernizzazione ed emancipazione economica e sociale delle fasce più tradizionali della popolazione che i secolaristi non sanno assolutamente veicolare.
Non è il confortevole cosmopolitismo borghese che vince in Turchia ma un forte e talora esasperato nazionalismo. Anzi un turbo-nazionalismo, come dimostra l’alleanza elettorale vincente forgiata da Erdogan e dall’Akp, il partito islamico e tradizionalista, con la formazione di ultra-destra Mhp, i famosi Lupi Grigi fondati dal colonnello Arsplan Turkes negli Sessanta e Settanta, il cui esponente più famoso da noi fu Ali Agca, l’attentatore di Papa Woytila.
Oggi in Turchia festeggiano il Reis Erdogan, Develet Bahceli, capo dell’Mhp e i curdi di Diyarbakir che hanno accolto con entusiasmo l’ingresso in Palmento del partito Hdp, il cui leader Salahettin Demirtas per altro è ancora in carcere. Le elezioni presidenziali e legislative anticipate si sono svolte sotto lo stato d’emergenza e con una guerra aperta alle frontiere della Turchia contro il Pkk, la guerriglia curda.
C’è anche una timida ripresa della lira turca anche se l’economia rimane il vero problema di Erdogan e di un Akp che comunque rispetto alle elezioni del novembre del 2015 ha perso il 7% dei consensi (dal 49 al 42%): la maggioranza parlamentare è assicurata alla coalizione dall’inatteso successo proprio dell’Mhp.
Ma è sulle questioni economiche che si dovrà concentrare il nuovo governo che sarà scelto tutto dal presidente con qualche concessione agli alleati Lupi Grigi. La lira turca ha perso in un anno oltre il 30% del suo valore e ormai batte in testa il modello Erdogan: denaro a buon mercato all’interno e alti tassi all’esterno per attirare i capitali stranieri. Pur essendo stato registrato un tasso di crescita del 7-8 per cento, il premio sui credit default swap - i derivati sul debito turco - è passato da 187 a 311, il livello più o meno della Grecia. Alla fine del 2017 il debito estero era di 390 miliardi di euro, quello interno di 104 miliardi, in totale circa il 70% del Pil. Il tutto messo insieme al disavanzo cronico della bilancia commerciale segnala che la Turchia deve recuperare fiducia per uscire dall’indebitamento a breve scadenza che la rende vulnerabile, soprattutto nel settore delle imprese.
Per questo si attende da Erdogan un governo meno forse meno strettamente legato alla cerchia del clan Akp e con qualche elemento più presentabile sulla scena internazionale per guadagnare credibilità sui mercati.
Cosa farà in politica estera? L’avvicinamento alla Russia e i rapporti con l’Iran per il momento non sembrano in discussione. Il vero nodo è il rapporto con gli Stati Uniti e la Nato, di cui la Turchia è un membro storico: la recente consegna ad Ankara del primo caccia F-35, che per altro resta negli hangar americani, sembra un segnale di distensione come pure le operazioni militari congiunte con gli Usa nel Nord della Siria. Ma il fatto che l’Imam Fethullah Gulen resti in esilio negli Stati Uniti costituisce un caso di tensione latente. Quanto all’Europa resta importante: quasi il 50% dell’export turco va in Europa mentre il 70% del debito delle imprese è contratto con banche europee. Ma l’Europa come approdo politico appare sempre meno attraente, soprattutto questa Unione sempre più litigiosa e disunita.