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La vita di traverso di Nole l'asceta

di Massimo Fini - 23/04/2025

La vita di traverso di Nole l'asceta

Fonte: Massimo Fini

Novak Djokovic, detto ‘Nole’ dai suoi tifosi. Aldo Cazzullo ha scritto sul Corriere: “Novak Djokovic mi ha dato un’intervista di due ore in italiano, parlando non di smash e volée ma del bombardamento di Belgrado e dell’arresto in Australia” (16.4). Djokovic parla bene cinque lingue, ma se la cava anche in spagnolo e arabo. Una volta, non so in quale occasione l’ho sentito esprimersi in cinese. Del resto gli slavi sono portati per le lingue. Rudi Nureyev ne parlava cinque, capiva anche l’italiano anche se lo spiccicava male. Mia madre, ebrea russa anche se nata misteriosamente in Polonia, Paese che detestava insieme ai polacchi (se volevo farle un dispetto le dicevo che le polacche erano più slanciate e più belle, mentre le russe, di base contadina, erano tracagnotte. Adesso viste quelle sberle di russe che vengono a vendersi in Italia, il gap mi sembra colmato) sosteneva di parlarne sei. Il ruski naturalmente, il francese perché negli anni Trenta aveva vissuto a Parigi, e parlava uno splendido italiano anche se aveva qualche difficoltà con le ‘doppie’ perché in russo non esistono e io stesso, potenza dell’ereditarietà, se ho qualche dubbio sulla mia lingua è proprio sulle doppie. Sulle altre tre che pretendeva di parlare, il lituano, l’estone, il lettone, non potevo verificare e avevo anche motivo di dubitare perché i russi, oltre avere una forte malinconia di fondo, sono strabugiardi, Putin docet. Forse il lituano lo sapeva davvero perché la sua famiglia dopo la Prima guerra mondiale aveva vissuto a Trieste con passaporto lituano. Evidentemente avevano amici in Lituania tanto che quando fuggirono dalla Russia stalinista si rifugiarono proprio in quel Paese. Quanto a me, che pur sono slavo a metà, per le lingue sono negato. So il francese perché da ragazzino i miei genitori quando affrontavano in mia presenza qualche argomento pruriginoso, parlavano in francese. L’inglese lo so male, non l’ho imparato a scuola dove veniva insegnato in modo canino da docenti italiani ma durante i viaggi internazionali. Se parlo, poniamo, con un tedesco me la cavo ma con un londinese pedigree sono in difficoltà perché non si sognano di darti una mano. Sono o non sono stati un Impero coloniale? In compenso avendo viaggiato a lungo in Africa nera so qualche parola di swahili. Ma la cosa che più mi addolora è di non sapere il russo come seconda lingua. Va bene, quando ero piccolo in Italia c’erano i nazisti e non era prudente parlar russo soprattutto con una madre ebrea, ma a partire dall’immediato Dopoguerra mia madre avrebbe potuto insegnarmelo. Fui io a chiederglielo quando avevo otto anni e quindi la possibilità di essere bilingue, com’era mia sorella Anna nata a Parigi negli anni Trenta, era tramontata. I russi sono scialacquatori di tutto, anche di patrimoni linguistici. Però questa conoscenza maldestra della lingua mi fu d’aiuto quando nel 1985 feci un reportage dall’Urss. Quando ne avevo bisogno me la cavavo da solo ma quando interloquivo con dei russi facevo finta di non sapere una sola parola di ruski così quelli parlavano liberamente.
Comunque una lingua la si può sempre imparare. Cosa diversa è conoscere la cultura e la storia di un Paese. Djokovic quando viene intervistato dopo un match massacrante dà a divedere di conoscerle entrambe del Paese in cui è momentaneamente ospite. Importante se non determinante è stata la sua prima coach, Jelena Gencic, che lo avvicinò alla cultura e alla musiche europee (per la musica serba sarebbero bastati Bregovic o Kusturica).
Novak Djokovic è per certi versi un serbo particolare. Si sa che i serbi sono violenti (quando ero in Svizzera per sfuggire alla noia della Confederazione, quando la mia fidanzata lavorava, mi rifugiavo in un bar frequentato da serbi perché una scazzottata ci scappava di sicuro).
Lui invece, Djokovic intendo, è educatissimo e leale in campo e fuori, solo quando ha dei momenti di stizza caccia i coach che gli stanno alle spalle, per poi ripescarli qualche minuto dopo. Se un punto è controverso, la palla ha toccato o no la linea, puoi fidarti della sua parola anche, e soprattutto, quando gli è contro. In questo mi ricorda Stefan Edberg che però era uno svedese e non un trafficone balcanico.
Djokovic è un uomo dolcissimo. Nei vari tornei si porta sempre dietro la famiglia, la moglie Jelena, conosciuta nell’infanzia, e i figli.
Dice ciò che pensa e fa quel che dice, pagandone tutti i prezzi. Era no-vax e per questo nel 2022 fu estromesso, e anche momentaneamente arrestato, dagli Australian Open. Idem per il successivo torneo, lo slam statunitense US Open.
Djokovic ha anche una notevole importanza politica. E’ stato lui ad affermare ripetutamente “il Kosovo è serbo e rimarrà sempre serbo” attirandosi le ire della cosiddetta Comunità internazionale che ha provato in tutti i modi di squalificarlo. Una volta fu duramente attaccato perché fotografato a cena con un ex paramilitare serbo che aveva partecipato alle guerre balcaniche. Ma, dico, uno che per la sua professione, per il suo mestiere, per la sua arte oso dire, sta mesi e mesi lontano dalla sua patria quando vi ritorna chi deve frequentare? I militari della Kfor, forza Nato, fra cui moltissimi italiani, schierati illegalmente a difesa del Kosovo?   Inoltre Djokovic nella sua infanzia a Belgrado ha dovuto subire i bombardamenti ancor più illegittimi della Nato (qualcuno ricorderà, forse, che l’aggressione alla Serbia del 1999 era stata fatta contro la volontà dell’Onu, altro che Putin) e questo Nole non l’ha certamente dimenticato.
Probabilmente sotto alcuni aspetti i suoi grandi avversari Rafa Nadal e Roger Federer erano migliori di lui, Nadal più tecnico, Federer più potente, ma Djokovic li supera per la sua grande capacità di concentrazione sui punti decisivi. Portare Djokovic al quinto set voleva dire sconfitta sicura. Naturalmente oggi che sta per compiere 38 anni qualcosa è cambiato, nonostante la sua vita, durissima da asceta, è vegano. Nella finale di Wimbledon dello scorso anno ha perso in soli tre set con Alcaraz che oggi, insieme a Sinner, peraltro attualmente autosospesosi per una questione di doping, è uno dei migliori tennisti del mondo. Ma alle Olimpiadi di pochi mesi dopo la storia è cambiata. Djokovic non aveva mai vinto un’Olimpiade perché, sacrificandosi per il suo Paese, faceva anche il doppio e il doppio-misto, tutte energie sprecate. Nel 2024 voleva a tutti i costi la vittoria alle Olimpiadi. E l’ha conquistata. Questione di concentrazione, come sempre.
Djokovic non è però, nonostante tutti i suoi record, il tennista più vincente di tutti i tempi. Chi è allora? Metto in palio 50 euri per chi lo individua. Naturalmente può indicare un solo nome, non una rosa. Se ci azzecca gli do i 50 euri, se non ci azzecca me li prendo io. Gioco d’azzardo? Sicuramente e anche pubblico. Potrei andare non i galera perché l’età me lo consente, ma se dovesse accadere preferirei la prigione ai “domiciliari”. In prigione si possono incontrare persone molto interessanti e quindi non i ‘colletti bianchi’ che in un modo o nell’altro la sfangano sempre, diventano anche, per meriti penali, editorialisti di qualche giornale, come Giovanni Toti. In altre epoche tutte culturalmente di sinistra, Adriano Sofri, accusato non di una bagatella ma dell’omicidio del commissario Calabresi, è diventato editorialista della Repubblica, il più importante quotidiano di sinistra italiano, e di Panorama, il più importante, all’epoca, settimanale di destra. Attualmente mi pare collabori col Foglio.
Del resto in galera ci sono da quando scrivo perché mi sono sempre messo di traverso. Come Djokovic.