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La vittima: l'eroe del nostro tempo

di Antonio Catalano - 28/04/2025

La vittima: l'eroe del nostro tempo

Fonte: Antonio Catalano

Stamattina girando intorno ad una rotatoria di Oristano vedevo una statua sul prato, ho parcheggiato quindi la macchina e sono andato a vedere. La statua (vai alla foto) rappresentava un uomo tutto bianco, con casco e mascherina, che regge un pannello ondulato, la targa posta alla base spiegava che il monumento era dedicato alle vittime dell’amianto. Purtroppo l’esposizione all’amianto ha causato (e continua a causare) molti decessi, la lotta per il riconoscimento dei danni, e delle morti, dovuti a questa esposizione è stata dunque sacrosanta. Rientrato in macchina, riflettevo come da un po’ di tempo a questa parte nel nostro mondo le statue, le titolazioni a strade eccetera pullulano di richiami a qualche genere di vittima mentre fino a un po’ di tempo fa esse richiamavano chi si era distinto per qualcosa: atti d’eroismo, virtù civiche, politiche, culturali, religiose, militari, artistiche. Sempre ad Oristano, per esempio, di tutt’altro genere è il monumento alla giudicessa Eleonora d’Arborea, non caso risalente all’Ottocento, in cui si raffigura l’imperiosa figura di questa donna che nel lontano Trecento promulgò la famosa “Carta de Logu d’Arborea”, statuto che raccoglie gli usi giuridici locali. Lasciamo stare ora se il soggetto richiamato alla memoria meritasse o meno l’onore della memoria, ma il soggetto rappresentato doveva fungere da esempio e modello di “grandezza”: un Dante, un Cesare Augusto, un Cid equestre, un Garibaldi… comunque un eroe in qualcosa. Ora invece è tutto un richiamare alla vittima di qualcosa, è lo status di vittima a conferire un’identità. Non è quindi la figura dell’“eroe” a dover modellare l’immaginario collettivo, specialmente delle giovani generazioni, ma quello della vittima, così che ognuno possa sentirsi rafforzato nel suo essere lamentoso, lagnoso, piagnucoloso per qualche sopruso (o presunto tale) subìto. Non a lottare. Robert Hughes lo aveva scritto già più di trent’anni fa (1992) nel suo mirabile “La cultura del piagnisteo”. Stiamo assistendo, scriveva, a una “lacrimosa avversione all’eccellenza”, soltanto le vittime sembrano aver diritto al successo. Cultura del vittimismo che genera debolezza d’animo e fragilità psichica, per cui qualsiasi ostacolo diventa “ingiusto” e qualsiasi difficoltà va superata con l’apporto di un “supporto” psicologico.