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Le camere dell'eco

di Marco Tarchi - 24/04/2023

Le camere dell'eco

Fonte: Diorama Letterario

Gli studiosi dei processi comunicativi, in omaggio alla ormai consolidata tradizione anglosassone, le chiamano echo chambers, un’espressione traducibile come camere dell’eco o casse di risonanza. Di esse, il vocabolario Treccani offre una definizione tanto sintetica quanto efficace: “Nella società contemporanea dei mezzi di comunicazione di massa, caratterizzata da forte interattività, [sono] situazion[i] in cui informazioni, idee o credenze più o meno veritiere vengono amplificate da una ripetitiva trasmissione e ritrasmissione all’interno di un ambito omogeneo e chiuso, in cui visioni e interpretazioni divergenti finiscono per non trovare più considerazione”. Aggiungendo che il risultato prodotto dalla loro esistenza “è particolarmente importante perché dimostra chiaramente come la tendenza ad aggregarsi con persone con le stesse attitudini e interessi sia un processo determinante sia nel rinforzare l’echo-chamber sia nel determinare la dimensione di un processo virale”. Per concludere che all’interno di queste ‘bolle mediatiche’ “non esiste la verità dei fatti, perché ciascuno ha selezionato e riceve solo le notizie e i commenti con i quali concorda a priori”[1].
Osservato e analizzato in relazione ai social media, al cui interno se ne riscontra sempre più spesso la presenza, questo fenomeno sta estendendosi a numerosi altri ambiti massmediali meno interattivi, e oggi le sue caratteristiche descrivono alla perfezione il funzionamento dell’intero sistema dell’informazione delle liberaldemocrazie occidentali, trasformatosi in un circuito chiuso quasi ermeticamente, dove – se si guarda agli strumenti capaci di ‘fare opinione’, i cosiddetti media mainstream – la tendenza ad una sostanziale omologazione dei criteri di somministrazione delle informazioni e dei commenti, e all’esclusione delle notizie e dei punti di vista non in linea con l’ortodossia dettata dai centri di potere politico, culturale ed economico, ha raggiunto punte di intensità mai viste. Soprattutto quando all’interno di questo circuito entrano gli argomenti di maggior peso agli occhi di quei soggetti – istituzioni, partiti, gruppi d’interesse – attraverso cui si articolano i conflitti politici e geopolitici della nostra epoca. La scena mediatica si trasforma a quel punto in una camera dell’eco in cui tutte le informazioni e le rappresentazioni devono convergere, le prese di posizione allinearsi, i giudizi sintonizzarsi, creando un’atmosfera psicologica avvolgente in cui le rare voci dissonanti devono apparire agli utenti bizzarre, stonate, sgradevoli e soprattutto irragionevoli, dal momento che la verità è definita una volta per tutte dall’intonazione che il coro ha dato al (peraltro inesistente) dibattito. L’effettività di questo assunto è facilmente – e dolorosamente – constatabile giorno dopo giorno, se si guarda alla maniera in cui vengono trattati dall’apparato massmediale dei paesi “occidentali” (ovvero quelli inclusi nella sfera di controllo e condizionamento statunitense) alcuni dei temi cruciali della realtà contemporanea, oggetto di ondate sempre più massicce di una comunicazione ideologicamente orientata che punta ad accreditarne a livello di massa una interpretazione univoca ed indiscutibile, al servizio di una strategia di egemonia sulle mentalità e sull’immaginario collettivo che non ha nulla da invidiare a quella messa in atto al tempo della guerra fredda dai partiti comunisti. Si pensi, per richiamare gli esempi più eclatanti, a come sono presentate da radio, tv, giornali e dai maggiori siti internet le questioni attinenti all’attuale guerra ucraina e agli equilibri internazionali che ne vengono toccati, all’immigrazione, ai cosiddetti diritti civili – e forse si potrebbe aggiungere la vicenda climatica, che attraverso un allarmismo spinto ai limiti dell’isteria ha respinto ai margini della discussione pubblica altri aspetti non meno importanti, ma meno “popolari” – e meno graditi ai vertici del conglomerato economico capitalista, incluse quelle componenti che hanno rapidamente indossato i panni green – dell’ecologia.
Demagogia, eufemismo e manipolazione regnano sovrani nell’approccio adottato dai media verso questi argomenti, che può riassumersi in una sola parola: propaganda. Un termine ed un concetto che, dopo essere stati a lungo camuffati sotto le vesti tranquillizzanti del marketing pubblicitario, sono ormai ritornati a svolgere la funzione che nel XVI secolo aveva loro assegnato la Chiesa di Roma, quando aveva deciso di costituire la Congregatio de propaganda fidei con il preciso scopo di arginare il diffondersi del proselitismo degli eretici protestanti. Il compito della propaganda che oggi ci troviamo di fronte è infatti convertire gli infedeli, sradicare l’errore, ripulire le menti da idee e dubbi pericolosi. Non solo con argomentazioni razionali ma anche e soprattutto facendo ricorso alla suggestione emotiva e alla minaccia di essere scaraventati nel girone dei malvagi – che oggi non porta più sul rogo ma consegna i malcapitati alla pena per molti insopportabile del pubblico linciaggio ad opera delle tricoteuses e dei voyeurs scatenati su Facebook, Twitter, Instagram, TikTok. Mai come oggi il concetto di pensiero unico, di cui Alain de Benoist rivendica la paternità, rivela la sua veridicità.
E nel cassetto degli attrezzi della propaganda le armi a disposizione sono molte. A cominciare dalla più potente di tutte, le parole – specialmente quando a sostenerle sono le immagini, secondo una logica a suo tempo individuata e brillantemente analizzata da Giovanni Sartori in Homo videns.
Le parole contano. Contano molto, da sempre, nelle relazioni private fra gli esseri umani così come nella vita pubblica di ogni società e comunità, perché conferiscono senso alle cose e consentono di decifrare o confondere, svelare o celare, comprendere o fraintendere le intenzioni, gli obiettivi, i comportamenti, gli atteggiamenti di coloro con i quali si interagisce. E manipolando le parole, quando si dispone di palcoscenici che consentono di raggiungere grandi platee, è possibile – e in molti casi facile – influenzare l’interpretazione corrente della realtà di chi ascolta. Per questo, non c’è epoca che non sia stata teatro di vere e proprie guerre delle parole, di conflitti combattuti attorno ai loro significati e al loro utilizzo, e in cui chi deteneva ruoli e posizioni di potere abbia rinunciato a servirsi delle loro potenzialità ai propri scopi.
Per fare solo qualche esempio di come questo dato sia chiaro a quanti servono la causa degli attuali padroni del pensiero, i depositari di quel Verbo liberal­progressista che si sta cercando da più parti di trasformare nell’alfabeto dell’omologazione planetaria, si può citare il modo in cui i media da essi posseduti o diretti usano i termini per diversificare l’immagine dei soggetti dei quali si occupano. Il teatro di guerra ucraino ne offre le illustrazioni più palesi: Zelensky afferma che i russi, se vinceranno la guerra contro l’Ucraina, non si accontenteranno ed attaccheranno altri paesi. Putin invece sostiene nel suo discorso davanti alla Duma che i paesi della Nato stanno partecipando attivamente alla guerra contro la Russia e attacca l’Occidente quando dichiara che è l’Occidente ad attaccare il suo paese fornendo di continuo armamenti Nato a Kiev. Come si può notare, da un lato viene così accreditata quella che, anche se non la si vuol considerare (quale verosimilmente è) una falsità, è comunque solo una congettura; dall’altro, si relativizzano o si invertono di segno evidenti dati di realtà[2].
In un altro ambito, soltanto in apparenza sconnesso da quello relativo alla guerra ai confini orientali dell’Europa, spiccano, fra le tante che si potrebbero citare, altre tre vicende che hanno le parole come protagoniste della strategia manipolativa a cui facevamo riferimento. Apprendiamo così che, come sempre su impulso statunitense, in molti paesi sono sorti movimenti che puntano a cambiare i rispettivi inni nazionali, o quantomeno a modificarne la terminologia, espurgandone sostantivi ed aggettivi troppo cruenti o irrispettosi delle minoranze o delle popolazioni straniere: in ambedue i casi è la cancel culture a reclamare la propria supremazia sulla storia[3].
In Gran Bretagna, la casistica è più variegata. Da un lato la casa editrice Puffin Books e la Roald Dahl Story Company hanno deciso di modificare e di sostituire alcune delle parole contenute nei libri del celebre scrittore di favole e racconti per bambini onde “adeguarsi alla sensibilità odierna”, cancellando i termini grasso, nano e pazzo e un’espressione “sessista” come donna delle pulizie. (Tutto questo, beninteso, mentre si addita al pubblico ludibrio il solito Putin perché si servirebbe della letteratura scolastica, conculcando le fragili menti degli infanti, per il bieco scopo di attivare nei giovani il sentimento patriottico). Dall’altro lato, la Chiesa anglicana si sta interrogando sulla opportunità di affiancare al nome di Dio, nelle traduzioni delle sacre scritture, nelle letture e nei sermoni domenicali, aggettivi di genere neutro al posto di quelli maschili tramandati dalla tradizione. E se, sul caso-Dahl, anche nella camera dell’eco occidentale sono riuscite a farsi ascoltare un certo numero di opinioni critiche, in altri ambiti il dissenso resta rigorosamente off limits. Come dimostra l’assordante sinfonia di repliche indignate che si scaglia contro chiunque si sottragga al rituale ricatto della compassione e della commozione attivato dal fronte no borders all’indomani di ogni naufragio di imbarcazioni destinate a scaricare immigrati sulle coste europee. Accoglienza, inclusione e integrazione sono le uniche espressioni ammesse per affrontare la questione dei flussi migratori, nella speranza che la loro ripetizione ossessiva finisca per prevalere sulla ragionevole considerazione delle conseguenze economiche, sociali e culturali negative dell’accumularsi di questi arrivi ‘irregolari’ (ecco un altro bell’eufemismo, che ha preso il posto del politicamente scorretto, e pertanto impronunciabile, ‘clandestini’).
Non c’è peraltro solamente l’uso preventivamente addomesticato del lessico a caratterizzare lo schema manicheo di inquadramento delle vicende destinate a scuotere l’opinione pubblica adottato nelle casse di risonanza massmediali. Ci sono anche i silenzi o le sistematiche minimizzazioni di tutte le notizie che suonano sgradite, come – tanto per ritornare alle vicende belliche in corso – lo scoop del premio Pulitzer statunitense Seymour Hersh, che con una accurata e coraggiosa inchiesta ha rintracciato una serie di solidi indizi che portano a ritenere il suo paese responsabile del sabotaggio a mezzo di esplosivi del gasdotto Nord Stream, essenziale per il trasporto di combustibile dalla Russia alla Germania. Per aver svelato questo ennesimo episodio della guerra sporca che gli Usa da sempre conducono contro i rivali geopolitici e, quando è nel loro interesse, contro gli stessi alleati, questo ottantacinquenne maestro del giornalismo investigativo mondiale è stato degradato nel giro di poche ore a propalatore di fake news e oscurato dai media che contano. Ovvero da quegli stessi canali informativi che hanno decretato una sostanziale censura per altre storie sgradite che avrebbero meritato di essere raccontate con dovizia di particolari, come quelle che hanno avuto per protagonisti due giornalisti e fotoreporter italiani, Andrea Sceresini e Alfredo Bosco, e la loro collega danese Matilde Kimer.
I primi due, che hanno seguito sin dal 2014 il conflitto apertosi nel Donbass con servizi per la Rai, La7, Mediaset, “il Fatto Quotidiano”, “il manifesto”, la tv tedesca Rtl, “l’Espresso”, “le Figaro Magazine” e “la Croix”, si sono visti ritirare dalle autorità ucraine l’accredito stampa e il permesso di circolare nelle zone del fronte perché accusati da anonimi di collaborare con il nemico, sebbene uno di loro avesse realizzato poco tempo prima un reportage ‘coperto’ in Siberia per raccontare il malcontento di una parte della popolazione russa e un certo numero di diserzioni verificatesi nel paese, andato in onda in prima serata su Rai2[4]. Alla cronista danese, da molti anni corrispondente della rete televisiva pubblica da Mosca, non soltanto è stato annullato l’accredito, ma è capitato, a causa di un malinteso verificatosi ad un posto di blocco delle truppe di Kiev, di essere brevemente detenuta e di vedersi in seguito sottoporre da un ufficiale dei servizi di sicurezza ucraini (Sbu), alla presenza di due funzionari diplomatici del suo paese, una proposta di collaborazione con l’intelligence in cambio del riottenimento dell’autorizzazione a svolgere il suo lavoro. Per avere quel permesso, Matilde Kimer avrebbe dovuto “produrre una serie di ‘buone storie’ sulla guerra, interamente basate su video e fotografie forniti dalla Sbu, e postarle sulla sua pagina Facebook per provare di non essere filorussa”[5].
Di questi edificanti episodi, a chi frequenta i programmi radiotelevisivi e i grandi quotidiani italiani non è giunta pressoché alcuna eco, mentre quei canali e quei giornali davano un ampio spazio, con fotografie e interviste, sia alla accorata protesta di una rappresentante degli studenti che, durante l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova, tenutasi alla presenza del Presidente della Repubblica, aveva deprecato la condizione di stress causata a lei e ai colleghi dalla “competizione scolastica” (leggi: il fatto di dover sostenere esami) sia alla scazzottata davanti ad un liceo fiorentino fra sette-otto militanti di formazioni politiche di opposte vedute che ha indotto presidi, insegnanti e collettivi politici ad emettere vibranti proclami sull’eterna minaccia di un ritorno in auge del fascismo. Molteplici, come si vede, sono le direttrici dell’attacco che i sostenitori del pensiero unico portano a quel poco che resta di un mondo dove le leggi di natura vengono riconosciute, i popoli conservano le proprie specificità etnoculturali, nozioni come onore, bellezza e coraggio non sono state espunte dal vocabolario e i fatti storici non vengono alterati né cancellati. Ma tutte convergono verso il medesimo obiettivo: lo sradicamento delle tradizioni e dei modi di vita ereditati dalle precedenti generazioni, l’omologazione planetaria, l’affermazione di un modello di civiltà fondato sull’individualismo e sul materialismo. E trovano il loro alleato più potente nelle strutture della (dis)informazione, mediatiche ed educative, dove le loro parole d’ordine, adattate a seconda degli ambiti e dei pubblici, risuonano incessantemente.
È questo l’Occidente che, come ha scandalosamente osato denunciare in più occasioni Vladimir Putin, ha di fatto mosso guerra alla Russia molto prima che questa attaccasse l’Ucraina per prevenire l’ormai imminente accerchiamento da parte della Nato, che alimenta una ostilità sempre più acuta verso la sua cultura[6] e che, pur senza volerlo ammettere, punta alla sua disgregazione per procurarsi una testa di ponte di cruciale importanza per il futuro scontro con la Cina, che i suoi circoli militari hanno già da anni programmato[7]. È questo l’Occidente che oggi invia – Unione europea in testa – armi e garantisce addestramento all’esercito di Kiev affinché continui a fornire carne (ucraina) da cannone per le operazioni belliche che gli Stati Uniti stanno conducendo per suo tramite con l’obiettivo di rendere sempre più salda la loro egemonia sul pianeta. E questa è l’Europa che subisce con accondiscendenza la penetrazione all’interno dei suoi confini di masse umane sempre crescenti che portano con sé stili di vita, modelli culturali e convinzioni religiose estranei al suo passato, che importa in dosi sempre più massicce da Oltreoceano le corrosive teorie woke che sgretolano i pilastri della sua identità e avvelenano i cervelli delle sue più giovani generazioni, e che contribuisce con sconcertante incoscienza all’accumularsi delle premesse di una nuova conflagrazione mondiale. All’ideologia occidentalista che si propaga attraverso le casse di risonanza di cui Washington e i suoi alleati-vassalli dispongono è dunque più necessario che mai opporsi, denunciandone in ogni sede – a partire dagli ambienti scolastici e universitari, dove la sua penetrazione è più insidiosa – la nocività e contrastandone con intelligenza e con coraggio gli argomenti. Ancora una volta, sappiamo che ci attende un compito sproporzionato alle minime forze di cui disponiamo, ma non dobbiamo mai cancellare dalle nostre menti l’immagine del granello di sabbia che può essere sufficiente ad arrestare il meccanismo più poderoso. O a rovinare la programmazione di qualche algoritmo.

(Diorama Letterario, n. 372, marzo-aprile 2023, pp. 1-3)

[1] https://www.treccani.it/vocabolario/echo-chamber_(Neologismi).

[2] I due esempi sono tratti dalle pagine web del “Corriere della sera” e di “Le Figaro” della terza settimana del febbraio 2023, curiosamente (?) convergenti nell’uso dei verbi.

[3] Se nel caso degli Usa l’origine della contestazione si intreccia con le polemiche antirazziste, perché The Star-Spangled Banner è stata scritta da Francis Scott Key, una cui statua è stata abbattuta a San Francisco dopo aver appurato che il poeta e scrittore ottocentesco possedeva degli schiavi (e si sta discutendo se sia il caso di adottare, come inno sostitutivo, Imagine di John Lennon), negli altri ciò che si vuole cancellare è il frequente riferimento a memorie belliche.

[4] Cfr. https://ilmanifesto.it/giornalisti-italiani-bloccati-e-censurati-dalle­autorita-ucraine.

[5] Robert Mackey, Danish Reporter Says Ukrainian Intelligence Tried to Coerce Her Into Working as a Propagandist, https://theintercept.com/2022/12/29/matilde-kimer-ukraine/, 29.12.2022.

[6] Un’ostilità che in Ucraina sta ormai debordando verso un assurdo – date le origini comuni dei due popoli – odio razziale, come è dimostrato dalla decisione del governo di Kiev di mandare al macero tutti i capolavori della letteratura russa per ricavare fondi (quanti, poi?) a sostegno dello sforzo bellico, con la motivazione, riportata in sintetici trafiletti dalla stampa italiana, che “da un popolo che non si ribella a Putin non possono essere venute cose buone”.

[7] Come era da aspettarsi, nelle echo chambers occidentali è risuonato un deciso diniego di questo obiettivo. Peccato che gli stessi giornali che hanno accusato Putin di inventarsi una minaccia inesistente avessero poco tempo prima proposto lo stesso scenario. Cfr. a titolo di esempio Luca Angelini, La Russia sta per disintegrarsi come l’Urss? I segnali e le incognite, in “Corriere della sera”, 23.1.2023.