Le conseguenze del crack di First Republic Bank sul sistema bancario Usa
di Giacomo Gabellini - 02/05/2023
Fonte: L'Antidiplomatico
Al termine di una caduta verticale che l’ha vista perdere il 75% della propria capitalizzazione sulla scia di una massiccia fuga dei depositanti (si parla di circa 100 miliardi di dollari di ritiri nell’arco di pochi giorni), la First Republic Bank è stata rilevata dalla Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), che ha a sua volta organizzato la vendita della gran parte dei suoi asset a Jp Morgan Chase. Vale a dire lo stesso istituto che nel marzo 2008, quando erano già cominciati a manifestarsi i primi forti segnali di crisi, aveva acquisito la banca d’investimento Bear Stearns nell’ambito di un’operazione di salvataggio coordinata da Dipartimento del Tesoro e Federal Reserve di New York, che si accollò gran parte dei costi.
Nei confronti di First Republic Bank si è dispiegato un piano d’azione non troppo dissimile: Jp Morgan Chase si è impegnata a versare 10,6 miliardi di dollari a Fdic per rilevare i 229,1 miliardi di dollari di attività e i 103,9 miliardi di dollari di depositi dell’istituto di credito, il cui default è stato definito dal «Wall Street Journal» il più grande crack bancario della storia degli Stati Uniti dopo quello di Washington Mutual del 2008. Il quale si è per di più verificato a stretto giro di boa rispetto ai fallimenti di Silicon Valley Bank e Signature Bank, imputabili al pari del crollo di First Republic Bank e al drastico incremento dei fallimenti aziendali registrato nel primo trimestre 2023 anche – ma non solo – alla stretta creditizia varata dalla Federal Reserve. Prosegue così, sempre con il decisivo sostegno delle autorità di Washington, l’inaudito processo di concentrazione bancaria avviato nel 2008: all’epoca, subito dopo l’approvazione del cosiddetto “assegno in bianco” concesso dal Congresso all’amministrazione Bush attraverso il Troubled Asset Relief Program (Tarp), governo e Federal Reserve diedero il via libera – negato solo pochi giorni prima a Lehman Brothers – alla conversione di Goldman Sachs e Morgan Stanley in holding bancarie regolate dalla Banca Centrale ed autorizzate ad approvvigionarsi di denaro pubblico a basso costo attingendo alla relativa finestra di sconto. Successivamente, una volta appurata l’insufficienza del sostegno istituzionale (10 miliardi a testa) ad allentare la pressione sul settore bancario, Washington per un verso intercesse presso Mitsubishi e Berkshire Hathaway affinché salvassero (rispettivamente) Morgan Stanley e Goldman Sachs dalla bancarotta attraverso l’acquisizione di quote societarie sotto forma di azioni privilegiate. Per l’altro, autorizzò il passaggio della pericolante Merrill Lynch, che aveva già beneficiato di 10 miliardi di dollari di capitale pubblico, in Bank of America. Risultato: a inizio ottobre 2008, nessuna delle cinque principali banche d’investimento che il Paese aveva conosciuto fino a pochi giorni prima esisteva più.
Parallelamente, la Federal Reserve si avvalse della facoltà di prestare denaro a basso costo a istituzioni non bancarie per concedere alla Aig, colosso assicurativo che dall’inizio dell’anno aveva accusato perdite per oltre 13 miliardi di dollari e una caduta dell’indice azionario dell’80% circa, una linea di credito da 40 miliardi di dollari. Anche in questo caso, lo sforzo si rivelò largamente insufficiente, come testimoniato dall’intervento di emergenza da 85 miliardi di dollari attuato dal Dipartimento del Tesoro per rilevare la quota di controllo della società, entrata pericolosamente nell’orbita della China Investment Corporation. Il cui piano di investimenti nella compagnia assicurativa, superiore per imponenza all’operazione di nazionalizzazione, non prevedeva peraltro il salvataggio “a rimorchio” di Goldman Sachs, che aveva attivato presso la Aig di Londra Credit Default Swaps a fini speculativi – addirittura, per lucrare sulla caduta degli stesi Cdo che aveva rifilato ai propri clienti – per 22 miliardi di dollari e perfino acceso una polizza da 150 milioni per assicurarsi contro l’eventuale fallimento della compagnia. L’intervento del Dipartimento del Tesoro, viceversa, risultava rispondente alle esigenze di natura sia geopolitica che economica perché consolidava la presa statunitense su un colosso del settore Financial, Insurance and Real Estate e implicava allo stesso tempo la deviazione di parte sostanziosa della liquidità devoluta al salvataggio di Aig verso le casse di Goldman Sachs a coronamento della sua colossale manovra speculativa. Nell’arco di poche settimane, il costo dell’operazione di salvataggio di Aig salì alla cifra vertiginosa di 182 miliardi di dollari, necessari a liquidare le posizioni con tutte le banche che reclamavano lo stesso trattamento riservato a Goldman Sachs; Société Générale e Deutsche Bank ottennero circa 12 miliardi a testa, Barclays 8,5, Merrill Lynch 6,8, Bank of America 5,2, Ubs 5, Citigroup 2,3. «È come se la Federal Reserve di New York avesse usato la Aig come salvadanaio a cui attingere per tenere a galla le grandi banche di tutto il mondo», commentò amaramente il senatore repubblicano dell’Iowa Charles Grassley nel 2010. In realtà, il vasto programma di ricapitalizzazione portato avanti dalla Federal Reserve non si limitò a salvare gli istituti di Wall Street perché, integrandosi e sostenendosi vicendevolmente con la smaccata predisposizione del Tesoro e delle altre autorità di vigilanza a violare i pochi regolamenti anti-cartellistici rimasti in vigore, spalancò le porte a una nuova, imponente ondata di fusioni e acquisizioni che andava a riattivare un processo di concentrazione bancaria preesistente verificatosi a partire dalla seconda metà degli anni ’90.
Gli effetti principali sono consistiti in una drastica diminuzione del numero degli istituti indipendenti e nella nascita di un gruppo di mega-conglomerati “troppo grandi per fallire” (too big to fail) dotati di un enorme peso politico che è andato peraltro ingigantendosi grazie alla rimozione del tetto ai finanziamenti privati per le campagne elettorali disposta dalla Corte Suprema nel 2011. Nonché per effetto del Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act, una legge presentata dall’amministrazione Obama e approvata dal Congresso nel luglio 2010 implicante la reintroduzione di alcune limitazioni in relazione ai requisiti di capitale e alla negoziazione dei titoli in conto proprio che evitava tuttavia di affrontare i problemi basilari del sistema, costituiti anzitutto dall’assenza di limitazioni relative all’effetto leva e dalle commistioni bancarie venutesi a determinare grazie all’abolizione del Glass-Steagall Act. Il divieto di investire i risparmi dei clienti, concepito da Paul Volcker e inserito nel corpo nella legge per volere soprattutto della senatrice democratica del Massachusetts Elizabeth Warren, fu puntualmente “disinnescato” dalle innumerevoli eccezioni introdotte nel corso degli anni successivi per volontà di Wall Street. «La legge – scrive l’ex banchiere Nomi Prins – ha accresciuto l’influenza delle maggiori banche del Paese a livelli mai raggiunti nemmeno alla vigilia del collo del 1929 […]. Grazie al collaborazionismo di Washington, i sei principali istituti statunitensi sono arrivati a detenere il 60% di tutti depositi; la più grande concentrazione di capitali nella storia degli Stati Uniti». E, come evidenziato anni addietro dall’economista James K. Galbraith, «la scala e la concentrazione del settore bancario comporta inesorabilmente una concentrazione di potere politico e una sovversione dell’ordinamento democratico in senso lato».
Eppure, come ammesso recentemente dal presidente della Fdic Martin Gruenberg nel, la combinazione tra incremento degli stress per il comparto bancario, perdurante alta inflazione, graduale innalzamento dei tassi di interesse da parte della Banca Centrale Usa, aumento del numero dei fallimenti aziendali e diffusione dei timori in merito a un’imminente recessione economica si è tradotta nel ridimensionamento del volume complessivo dei depositi bancari statunitensi a 19.200 miliardi di dollari. Si tratta della prima diminuzione su base annua mai verificatasi dal 1948 a questa parte. Segno piuttosto inquietante, per un’economia deindustrializzata, “terziarizzata”, finanziariamente ipertrofica e caratterizzata da elevatissimi livelli di indebitamento sia pubblico che privato come quella statunitense.