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Le escalation dei perdenti

di Salvo Ardizzone - 15/07/2024

Le escalation dei perdenti

Fonte: Italicum

 Premessa

Siamo in tempi di mutamento egemonico, e i mutamenti egemonici generano guerre, per 14 degli ultimi 16 così è stato. Del resto, siamo già da tempo nella Guerra Grande che, col passare degli anni, aumenta d’intensità e si dilata. Caratteristica che sfugge nella bolla mediatica occidentale, focalizzata sull’attimo presente e incapace di allargare lo sguardo al contesto, al tutto. Come si sa son due i teatri principali, Ucraina e Medio Oriente, con il più potenzialmente rilevante sullo sfondo, nell’Indo-Pacifico, ma a corona, in Africa, in Asia, in Sud America, vi sono una miriade di conflitti che gemmano dallo sfacelo di ciò che era l’ordine multipolare e dal tentativo dell’Egemone di puntellarlo. Ma non ci riesce. Evidenza abbastanza chiara a sette ottavi dell’umanità, che guarda con crescente fastidio virante in ostilità le iniziative dell’Occidente collettivo, ossimoro geopolitico per indicare il declinante impero americano.

Il punto è che gli USA non sono più in grado di controllare il globo, non hanno risorse né tantomeno strategie per farlo. Sono privi del senso del limite e sconoscono qualsiasi visione della realtà diversa dalla propria, dunque non hanno il senso della Storia, quindi vivono in eterno presente, perciò dediti solo alla tattica ignorando le basi della strategia. Ma si rendono conto che la partita in corso è per essi esiziale, si percepiscono egemoni o nulla; implosa l’URSS, che rappresentava l’unico altro da sé con cui era obbligo confrontarsi, non riconoscono a nessuno parità d’interlocuzione, meno che mai concepiscono di riconoscere ad alcuno un’area di influenza o patteggiare con altri una coabitazione ai vertici del pianeta.

L’incapacità di leggere il mondo per ciò che è, e ciò verso cui è indirizzato, induce gli Stati Uniti ad alzare la posta, a continuo rilancio per tamponare – almeno rinviare – l’inevitabile. Escalation dunque, malgrado dal Vietnam in poi tale pratica (esitiamo a usare il termine strategia in tale contesto) si sia risolta in un’ininterrotta serie di disastri. Ed escalation da un lato imposta ai sudditi europei e dall’altro subita dall’unico partner al mondo capace d’imporre le proprie scelte agli USA, Israele.

Paradossale situazione che vede gli USA lavorare perché il conflitto ucraino duri indefinitamente e quello in Medio Oriente cessi, antitesi dovuta al fatto che gli ucraini, anche più degli europei, sono spendibili, Israele no, è organico agli Stati Uniti, inscindibile parte della loro cultura, del loro stare nel mondo. Semmai è da salvare da se stesso, dalla sua cieca follia d’onnipotenza. Inoltre, per come stanno ed evolvono le cose, l’Europa è e rimane malconcia provincia dell’impero USA, a prescindere, nel suo complesso senza neanche provare a porsi alternative. Il Medio Oriente no: laggiù, i principali stati della regione sono in rapido riposizionamento – in particolare nel Golfo Persico – non più partner esclusivi degli Stati Uniti, per cui la guerra deve finire prima che il netto ridimensionamento dell’influenza americana nella regione evolva in totale esclusione, e nell’implosione del pilastro israeliano.

Discorso a parte è per la partita nell’Indo-Pacifico, dove gli stati tendono assai più a ragionare in termini di interessi nazionali piuttosto che di appartenenza a “blocchi”, concetti manichei, binari, del tutto estranei a loro prassi e cultura, nei tempi odierni riservati a chi s’è rinchiuso in un Occidente sempre più piccolo e marginale.

Fatto è che, come in altri nostri scritti evidenziato, nei tempi della crisi odierna il soft-power americano non funziona più, meno che mai gli USA sono oggi capaci di esprimere smart-power, quella miscela di hard e soft-power che venne chiamata “potere intelligente” da Joseph Nye perché sostenibile nel tempo. Messo alle strette, in crescente affanno, l’Egemone vira sull’hard-power nel tentativo di mantenere la sua posizione. A costi sempre più onerosi e risultati decrescenti che l’inducono ad alzare ancora il confronto, finendo per esaurirsi. Non proiezione di potenza ma certificazione d’impotenza dinanzi a un mondo che ne rifiuta ormai ruolo e rango. È questa la radice delle escalation che si moltiplicano nel mondo.

La guerra ucraina…

Dell’Ucraina si parla molto, benché la narrazione che se ne fa nella bolla mediatica occidentale sia surreale. Tralasciando le dinamiche sul campo, evidenti per chi abbia occhi per vedere, lo scopo dell’Occidente è proseguire lo scontro, ovvero non scopo per eccellenza perché finalità di un conflitto è raggiungere obiettivi politici, al momento assenti, e il paradosso della Conferenza a Burgenstock, in Svizzera nel giugno scorso, dove si pretendeva di parlare - e decidere - sulla guerra in Ucraina senza neanche invitare Mosca ne è conferma. O meglio, più che obiettivo, esiste un mantra ripetuto all’ossessione: infliggere alla Russia una sconfitta strategica, impegnando fino all’ultimo ucraino (in verità sempre più riluttanti a farsi massacrare); in prospettiva, facendo scendere in campo gli europei (riteniamo periodo ipotetico del terzo tipo). In ogni caso con i soldi della UE e dei soci della NATO. Di qui il precipitare di iniziative per impegnare quei paesi a esborsi stratosferici anche per gli anni futuri, a pagare una guerra contro se stessi, contro i loro più elementari interessi nazionali per favorire quelli americani. In pratica, a pagare le catene con cui sono avvinti. Fuor di questo il nulla, negando platealmente la realtà.

Gli USA puntavano a un rapido collasso della Russia via onnipotenti sanzioni (si riempirebbero biblioteche con lo sciocchezzaio elargito da vertici ed establishment occidentali che vaticinavano subitaneo crollo dell’economia russa); è sbalorditivo come leader, commentatori e sedicenti esperti occidentali abbiano voluto credere che il mondo avrebbe accettato di isolare un produttore di commodities del calibro della Russia. Clamoroso errore di giudizio di chi vive in una bolla autoreferenziale, prigioniero della propria narrazione. Paradigmatica negazione dell’altro da sé che porta a sbattere. Sia come sia, sbagliati tutti i calcoli, gli Stati Uniti non hanno un piano B. Eppure, i risultati che si erano prefissi li avevano conseguiti da subito, salvo non riuscire a leggere la realtà, costruendo una sconfitta strategica per sé e una vittoria per la Russia, che potrà dire d’aver affrontato e vinto l’intero Occidente Collettivo.

Non ci stancheremo di ripetere che la situazione odierna è figlia dell’incapacità strategica degli USA. Il 24 febbraio del 2022, e nei mesi immediatamente successivi, gli Stati Uniti hanno conseguito i due obiettivi principali che si erano posti nella crisi: troncare i rapporti fra Russia e UE e rinserrare la presa su di essa, che si era fatta più lasca (giova notare che i timidi tentativi di smarcamento condotti da alcuni stati avevano motivazioni economiche, non consapevoli radici politiche; per gli USA è stato semplice soffocarli). Non aver sostenuto l’accordo fra Mosca e Kiev, raggiunto nel marzo/aprile del 2022 con la mediazione turca è stato errore madornale, ubris pura. Incapacità di leggere il mondo per come è e di porsi necessitati limiti seppur a propria convenienza.

Invece, la situazione oggi volge a pericolo estremo perché due anni e mezzo di grancassa mediatica e di escalation hanno fatto divenire la guerra una questione esistenziale per la Russia, quantomeno è percepita tale e, a questo punto, la dirigenza russa non indietreggerebbe neanche sulla soglia nucleare. D’altra parte, anni di smaccata propaganda impediscono a Washington di tornare indietro, anche solo di fermarsi, pena, una stratosferica sconfitta politica in Europa con disastrose ricadute in altri quadranti. Dopo aver aizzato per anni polacchi, baltici e nordici, come giustificare uno stop? E, cosa assai più importante, quale peso darebbero alle garanzie americane i paesi dell’Indo-Pacifico?

Risultato? Continuo rilancio per spingere in là l’esito della partita malgrado le carte in mano evolvano da cattive a pessime. Si dirà che in fondo i morti non sono americani e in futuro neanche i soldi. Ma il capitale politico sì, e quello si sta esaurendo insieme alla credibilità della leadership USA e della sua pretesa egemonica su un mondo che continua a evolvere a prescindere da essi.

Di tentativi di pace neppure a parlarne: malgrado le mille smentite avute dalla realtà, i governi europei continuano a rimaner serrati in una narrazione straniante, schierati a prescindere, incapaci di affrontare argomenti come guerra e politica (quella con la “P” maiuscola, non di bottega) con un minimo di pragmatismo. La feroce opposizione all’iniziativa di Viktor Orban, novello presidente di turno del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo della UE da parte dei vertici – ormai a fine corsa – di Bruxelles e dei loro mentori ne è prova provata.

…e la guerra in Medio Oriente

Abbiamo volutamente detto in Medio Oriente e non in Palestina perché non ci stancheremo di sottolineare quanto sia riduttivo e fuorviante restringere lo sguardo allo scontro fra Israele e la Resistenza, peggio che mai fra Hamas e l’entità sionista. Quello in atto è conflitto fra quanto resta nell’area del sistema egemonico americano, che ha in Israele irrinunciabile pilastro e appoggio da storici partner oggi sempre più riluttanti, e l’Asse della Resistenza, costituito da soggetti statuali e non statuali che si riconoscono nella Dottrina della Resistenza.

È questa la dinamica principale per comprendere senso e dinamiche dei conflitti della regione: il cozzo fra chi tenta di mantenere uno status quo che frana e la spinta rivoluzionaria di chi vuole eliminare l’influenza americana dal quadrante per instaurare governi espressi da sistemi politici che tendano all’indipendenza di quei popoli, secondo loro standard e culture. E verrebbe da dire: finalmente! È un nuovo polo che in questo contesto multipolare – anzi, policentrico – si è formato e si è saldato efficacemente quanto sinergicamente con l’azione di altri due poli: Russia e Cina. Con ciò determinando il rapido riposizionamento dei principali stati della regione e il netto ridimensionamento dell’influenza USA nell’area. Preavviso di futura esclusione.

In questo contesto, Al-Aqsa Flood e ciò che ne è seguito è stato spartiacque, irruzione della Guerra Grande in Medio Oriente, innesto in un conflitto già in atto da decenni ed elevazione di esso a scontro sistemico di portata globale. È stato attacco all’egemonia USA attraverso Israele, alla sua essenza talassocratica via interdizione degli Stretti di Babel-Mandeb, sfide a cui gli Stati Uniti non hanno saputo dare risposta. Nove mesi di guerra hanno frantumato quanto restava della deterrenza israeliana; paralizzato il potere dell’hasbara (la propaganda israeliana) nel vasto mondo, riducendone l’eco perfino in Occidente; dilaniato come mai il fronte interno sionista, diviso in un tutti contro tutti. Gli USA si scoprono ridimensionati, peggio, impotenti: spostano portaerei, bombardano, forniscono fiumi di armi e aiuti a un partner che annaspa senza alcuna strategia che neanche essi hanno, se non provare a ridurre il danno. Che è già irreparabile.

Al momento, possono solo tentare di salvare Israele da se stesso: missione resa proibitiva dall’incapacità di chi dev’essere salvato di leggere minimamente la situazione. Di comprendere che non è più il “cane pazzo” cui tutto è concesso. Di mutare atteggiamento per adeguarsi a tempi drasticamente nuovi. Non può. Conosce solo il registro della forza e prova ad applicarlo anche quando gli manca. Clamorosamente. La proposta dell’Amministrazione USA di fine maggio, e nei giorni in cui scriviamo pare in fase di faticosa definizione, tende a questo; dietro alla sospensione delle ostilità e al ritorno dei prigionieri non ancora uccisi dai bombardamenti indiscriminati delle IDF ci sono almeno quattro scopi inseguiti dalla Casa Bianca.

Il primo è rinsaldare i vincoli con l’Arabia Saudita, fermando il suo scarrellamento verso Cina, Russia e Iran. Forse avverrà, forse no, ma certamente a un prezzo estremamente alto per Washington: adesso è lei a dover chiedere, Riyadh potrà accettare ma non si riterrà legata, meno che mai limitata a un Occidente in declino.

Il secondo è creare una nuova Autorità Nazionale Palestinese che sostituisca quella attuale, del tutto screditata, impresentabile. Naturalmente anch’essa del tutto subordinata a Israele. È idea che sorride a molti paesi arabi, meglio, ai gruppi dirigenti di quegli stati che vogliono “normalizzare” la lotta dei palestinesi prima che influenzi troppo le proprie opinioni pubbliche (sta già avvenendo). Hanno già in mente il sostituto di Mahmoud Abbas: è Mohammed Dahlan, già dirigente dell’OLP prima d’esserne espulso e ora anima nera di tutti gli intrighi mediorientali. Uomo (se così può dirsi) a fogliopaga di tutti i servizi e attuale “consulente” di Mohammed bin Zayed, presidente degli Emirati. Soggetto perfetto per annullare una causa estremamente scomoda, quella palestinese, riportata al centro della scena dal sangue di decine di migliaia di martiri. Peccato che la situazione sul campo renda il progetto pura fantasia.

Il terzo è formare un’alleanza organica contro l’Iran. Pia illusione prima che obbiettivo: i centri di potere che reggono gli stati dell’area fanno i conti con una realtà che afferma il declino dell’Occidente e l’ascesa di un policentrismo che annovera l’Iran fra i suoi poli. E agiscono di conseguenza, intrecciando relazioni secondo convenienza, contrapponendosi solo per acclarata necessità, non schierandosi a priori.

Il quarto è propiziare un corridoio commerciale che faccia concorrenza alle BRI, “Le Nuove Vie della Seta” cinesi. Un nuovo progetto logistico e infrastrutturale che dall’India dovrebbe giungere al Mediterraneo attraverso Emirati, Arabia e Israele, per approdare in Europa via Italia. Tentativo di plagio d’assai dubbia riuscita a prescindere. Peggio che mai nelle temperie odierne.

Nelle intenzioni – e sottolineiamo: intenzioni – di Washington c’è l’imperativo di tamponare gli effetti di Al-Aqsa Flood, che ha spazzato via questi progetti. Che ci siano le minime possibilità di riportarli in vita dubitiamo, molto. Come dubitiamo che, al punto in cui è, Israele sfugga a futura ma prossima implosione.

Al momento in cui scriviamo, le IDF sono impantanate a Gaza, subendo perdite assai superiori a quelle ammesse senza riuscire a controllare un francobollo di 365 km quadrati; logorate in scontri giornalieri nella Cisgiordania e “ridotte a pungiball” in Galilea e Golan (è definizione dei media israeliani). I vertici militari chiedono un accordo per il cessate il fuoco perché non sanno come venir a capo di Gaza, e senza quello non c’è modo di fermare gli attacchi di Hezbollah. Pensare di sfidare la Resistenza in Libano è ritenuta pura fantasia che sfocerebbe in incubo, in autodistruzione. C’è da riflettere sull’inversione della deterrenza, ora esercitata da Hezbollah, non certo da Israele. In questo quadro, a tifare per la prosecuzione della guerra è rimasto solo Netanyahu, aggrappato al conflitto perché è da esso che dipende la sua sopravvivenza, e i coloni più estremisti capeggiati da Ben Gvir e Smotrich.

Dinanzi a loro, la massa degli israeliani ebrei (per quelli arabi è altra storia) è disorientata: attende da nove mesi la vittoria totale che le è stata promessa, che invece s’allontana, e il ritorno dei prigionieri che, semmai torneranno, saranno in una bara, uccisi dai bombardamenti indiscriminati del loro esercito. È una massa infuriata e radicalizzata che non comprende come il loro tanto decantato stato – “villa nella jungla”, così autodefinito – non riesca ad aver ragione di “bande” d’arabi da sempre disprezzati; che la loro vantata economia cada a pezzi e gli investitori nelle star-tap fuggano; che il mondo non accetti più a prescindere ciò che essi vogliano. Addirittura li critichi! È una massa che si sta sfarinando nel momento del massimo pericolo, che fugge (sono centinaia e centinaia di migliaia gli israeliani che sono andati via e aumentano ogni giorno). Una massa che ha perso la fiducia nei loro capi, che si dividono e litigano come non mai, baruffe fra direttori d’orchestra su un Titanic che affonda. Con il governo che critica apertamente e attacca IDF e Servizi, su cui prova a scaricare tutte le colpe del disastro, infrangendo un tabù fino a oggi ritenuto intoccabile.

A lungo Netanyahu ha cullato la speranza d’allargare il conflitto, costringendo gli USA a scendere in campo. Opzione doppiamente suicida, per sé e per l’Egemone in affanno che, almeno in questo, s’è defilato e che per questo ha subito da Israele invettive d’ogni tipo mentre pagava costi altissimi per sostenerlo. Finora è stata una continua escalation che la Resistenza ha saputo controllare mantenendo l’iniziativa incurante delle provocazioni, seguendo la propria strategia. Divenuta semplicemente insostenibile per Israele, perché il tempo lavora contro di lui, ultimo – anacronistico – paese coloniale. Tale percepito nel mondo fuor d’Occidente, da pilastro strategico scaduto a problema per un Egemone che non può distaccarsi dall’area, pena implosione dell’entità sionista. Inversione dei ruoli esiziale per entrambi. In estrema sintesi: è campana a morto per il “vecchio” Medio Oriente e annuncio del nuovo che sta sorgendo.

Intanto, nell’Indo-Pacifico…

Non ci soffermeremo su tutte le manovre che gli Stati Uniti tentano per contenere la Cina, servirebbe un saggio a parte e ne abbiamo già parlato lungamente in altre occasioni. Il punto fondamentale è che gli USA si rendono conto di non riuscire a strangolare un gigante, di cui peraltro continuano ad aver bisogno per la manifattura che essi hanno abbandonato. Meno che mai sono in grado di fermarlo.

A guardare il teatro con occhio geopolitico spicca un fatto: San Francisco dista 10.500 km da Taiwan, epicentro della crisi che gli Stati Uniti tentano in ogni modo di acutizzare, la costa continentale cinese ne dista solo 150. È vero che gli USA sono una potenza talassocratica e che per mare sono adusi a proiettare la propria forza, ed è pur vero che contano su una straordinaria costellazione di basi che non si stancano di moltiplicare, ma l’US Navy non è più quella di una volta, la sua strabordante superiorità su chiunque altro è un ricordo, archiviata insieme alla capacità cantieristica, e al Pentagono lo sanno bene. Inoltre, piaccia o no, le retrovie per alimentare un prolungato e assai intenso sforzo militare (e questo lo sarebbe assai più che in Ucraina) restano pur sempre a 10.500 km di distanza.

Ergo: gli Stati Uniti hanno più che mai bisogno di alleati, clientes a vario titolo disponibili a immolarsi per loro. E qui cominciano i problemi perché, se le Filippine di Ferdinand Marcos Jr – figlio del dittatore che fece dell’arcipelago filippino una piattaforma per gli interessi USA in cambio di fiumi di denaro e protezione – si fanno docile strumento, gli altri stati hanno pur sempre agende proprie da tenere in conto. Giappone, Corea del Sud, la stessa Australia hanno solidi interessi da coltivare con la Cina per cui, a una contrapposizione politica cercano di bilanciare una collaborazione economica. Dunque non frattura netta.

La logica del blocco, tanto comune in terra europea, a quelle longitudini non attecchisce, temperata da più sani interessi nazionali, per cui laggiù si può dialogare e collaborare nella reciproca convenienza pur su posizioni diverse. Attitudine incomprensibile, urticante, all’occhio dell’Egemone americano che a questa realtà deve adattarsi. In altre parole: le Amministrazioni USA e i loro proconsoli a capo dell’INDOPACOM non possono limitarsi a diramare ordini come in Europa: Giappone, Corea e su tutti l’India si conformeranno solo se li riterranno coerenti a ciò che ritengono i propri interessi nazionali. E con molti distinguo. Con ciò facendo briciole dei progetti americani o, quantomeno, diluendoli e sviandoli. Ma producendo comunque molti rischi.

Il principale è che la Cina si convinca che gli USA abbiano già deciso di andare comunque allo scontro. Corrente di pensiero invero già diffusa all’interno dell’establishment americano; almeno una sua parte ritiene ormai impossibile frenare l’ascesa di Pechino. Dunque, non concependo di limitare la propria pretesa egemonica globale, che per essi è una – la propria – o non è, meglio andare allo scontro prima che l’avversario si rafforzi ancora.

Dinanzi a tale ottica Pechino potrebbe essere tentata di fissare lei tempi e modi di un conflitto. Anticipandoli per cogliere gli USA in mezzo al guado, in over stretching per i tanti impegni nel mondo. Classico esempio di “Trappola di Tucidide”, che autoavvera un pericolo estremo, con conseguenze disastrose per l’intero globo.

Conclusione

Da quanto detto sin qui il mondo pare avviato a catastrofico conflitto, innescato dal bullismo di un Egemone che non sa rassegnarsi al suo declino, o dalla follia di chi si ritiene unico popolo al mondo degno d’esistere (Israele) non fa molta differenza. È in tal senso illuminante il nome con cui l’entità sionista ha chiamato il suo piano d’attacco nucleare: Protocollo Sansone; qualora si sentisse minacciato scatenerebbe decine e decine di testate, incurante di qualsiasi conseguenza per gli altri e sé, secondo il concetto che se Israele non può sopravvivere nel modo che pretende è inutile che esista il mondo e Israele stesso. Nel 1973, al tempo della Guerra dello Yom Kippur che andava assai male per Tel Aviv, Golda Meir stava per farlo.

Molti ritengono che questa deriva folle che porta alla guerra sia figlia dell’Amministrazione democratica e una Presidenza Trump porterà l’America a ritirarsi su se stessa e segnerà la fine delle crisi. Non lo crediamo affatto, anzi, riteniamo il contrario. Non è una semplice opinione: recentemente Robert O’Brien, ultimo consigliere alla Sicurezza Nazionale dell’Amministrazione Trump e assai probabile Segretario Nazionale in pectore di una prossima presidenza repubblicana, ha pubblicato un lungo saggio su Foreign Affairs; in esso è esposto il manifesto della futura politica estera del Tycoon newyorkese. In fondo è molto semplice: il tema di fondo sostiene come un mantra che l’America debba tornare a fare paura.

In realtà non dice nulla di nuovo, strizzando al massimo il lungo documento, che beninteso non eccelle in alcuna parte, emerge una stupefacente continuità con le politiche dell’Amministrazione Biden, ciò da cui se ne discosta sono i toni, elevati al parossismo da un pugno di figure avventuriste quanto improbabili. Con potenziali conseguenze dirompenti.

In primo luogo O’Brien sostiene che i tentativi di cooperazione con Pechino devono cessare per far posto ad aperta competizione allo scopo di costringere la rivale a piegarsi a un accordo alle condizioni di Washington. Concetto non si sa se più frutto d’ignoranza o d’arroganza, certo esercizio di pura irresponsabilità che può davvero convincere la dirigenza cinese che sia inutile sperare in un accomodamento con gli USA e indurla a rompere gli indugi e arrivare a conflitto aperto.

In Italia va di moda sostenere che Trump troncherebbe la guerra in Ucraina bloccando il flusso degli aiuti; assai diversamente, O’Brien sostiene che le attuali forniture militari a Kiev bastano appena a farla sopravvivere, non a permetterle di vincere e continua sostenendo che la nuova presidenza intensificherà gli aiuti per esercitare una vera pressione sulla Russia e costringerla a trattare. Come evitare un conflitto diretto non lo dice, né si pone il problema – non lo comprende – che quello in atto per Mosca è conflitto esistenziale, per cui è pronta a giocarsi tutto. Ciò che sottolinea invece è che quei sistemi d’arma saranno pagati dagli europei, per la gioia del comparto militare-industriale americano.

Infine, Trump tornerebbe alla politica della massima pressione sull’Iran, identificato come unica fonte dei problemi alla vacillante egemonia USA in Medio Oriente; ciò in perfetta simbiosi col pensiero di Israele. Peccato che tale politica sia già fallita nel corso della sua prima presidenza e peccato ancora che l’Iran di oggi sia ben altra cosa di quello di anche pochi anni fa e il contesto sia sideralmente mutato. Pensare di affrontare l’Iran frontalmente è in perfetta continuità – e cecità strategica – con l’odio viscerale del Deep State americano per la Repubblica Islamica, rea d’aver umiliato gli USA ed aver resistito a ogni guerra e tentativo di sovversione, riuscendo invece a espandere la propria area d’influenza e proiettare la Dottrina della Resistenza. Con simili presupposti, pensare a una guerra che travolga il quadrante è quantomeno ovvio, con tutte le conseguenze sulla regione.

Anzi, è del tutto logico pensare a guerre che finirebbero per saldarsi tutte contro l’unico vero centro di destabilizzazione globale – gli USA – e i suoi partner (Israele, Gran Bretagna, etc.), cozzo esiziale che rischia d’annichilire il mondo. Eppure questa non è affatto via obbligata: la guerra in Europa può essere disinnescata da una nuova Helsinki, che ridisegni l’architettura di sicurezza europea, messa in crisi dopo l’implosione dell’URSS e squilibrata dalla proiezione della NATO verso est. Tutti gli attori devono essere coinvolti secondo il principio dell’indivisibilità del concetto di sicurezza: esso dev’essere valido per tutti o è finzione.

In tale ottica la NATO è oggi del tutto superata, va sciolta o del tutto ridisegnata; se vogliamo usare uno slogan provocatorio: “Fuori gli USA dalla NATO!”. Perché hanno virato l’Alleanza da una funzione puramente difensiva (naturalmente dell’impero USA) a una aggressiva, proiezione armata degli interessi americani nel mondo. Non europei, tantomeno italiani. Meno provocatoriamente, scioglierla, al pari di una società che è venuta macroscopicamente meno ai suoi scopi sociali. Magari fondando una nuova organizzazione di mutua sicurezza, ma su basi e obiettivi politici del tutto diversi.

Anche con la Cina sarebbe del tutto possibile trovare convivenza, e sarebbe pure reciprocamente utile: piaccia o no a narrazione occidentale, Pechino non ambisce a egemonia sul mondo, pretende, questo sì, che le venga riconosciuto lo status di soggetto con interessi globali di cui tener conto, con cui gli USA devono dialogare rinunciando al tradizionale unilateralismo. Le tre iniziative lanciate da Xi Jinping fra il 2022 e il 2023 – Global Security Initiative (GSI), Global Development Initiative (GDI), Global CivilizationInitiative (GCI) – più che puntare a concreti risultati immediati segnalano tendenze, che poi riflettono quelle d’assai vasta parte di mondo. Esatto contrario della cocciuta pretesa unipolare americana, che la Storia sta demolendo.

Per quanto attiene al Medio Oriente, è teatro di un conflitto ad assai probabile rischio di espansione, con conseguenze disastrose quanto imprevedibili; una guerra (in verità un insieme di guerre) condannata anche dall’ONU, che la Corte di Giustizia Internazionale ha definito genocida, figlia dell’avidità e dell’arroganza. Piaccia o no, la composizione durevole di quel conflitto passa per il riconoscimento dell’autodeterminazione dei popoli; è una guerra di liberazione al pari di quelle che hanno posto fine alla triste stagione del colonialismo qui ancora non tramontata. E fin quando quel capitolo vergognoso non sarà archiviato fra il pattume della Storia, non si può chiedere ai popoli di accettare le catene che gli sono state poste addosso.

 Concludendo, le escalation che sono in corso nei conflitti che gemmano per il mondo a nostro avviso continueranno. Sono le risposte, se così possono definirsi, di un sistema egemonico in rapido declino che con l’uso frenetico dell’hard-power tenta di mantenersi al vertice ma, in realtà, così affretta la propria decadenza. Sono le escalation dei perdenti che rifiutano i cicli della Storia. Possono ancora causare ecatombi in nome dei loro (pseudo) valori bugiardi, potranno pure rallentare il processo che li vede spinti ai margini del globo, ma non fermarlo.

Dopo cinquecento anni, il predominio del mondo colombiano, incentrato sulle due sponde dell’Atlantico, è al capolinea. Resta da vedere cosa faranno i popoli europei. Come verranno fuori da questo gorgo di autodistruzione. Pensare di risolvere un quesito storico di tale portata seguendo il “fenomeno” politico di turno, e ritenere che una semplice “x” su una scheda elettorale basti, prima che ingenuità è pura fantasia.