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Le mafie nel PIL

di Isaia Sales e Simona Melorio - 26/11/2016

Le mafie nel PIL

Fonte: Maurizio Pallante

Pubblico qui di seguito un interessante articolo degli amici Isaia Sales e Simona Melorio su cosa contiene in nostro attuale PIL. L’articolo è un po’ lungo ma leggerlo non peserà e farà comprendere il delirio che stanno inseguendo e dove vogliono trascinarci.

1.Attività criminali nel Pil

Dal 2014 i Paesi dell’Europa, su indicazione di Eurostat, l’Istituto statistico europeo, hanno potuto inserire alcune attività illegali nel calcolo del Pil, in particolare prostituzione, droghe e contrabbando di sigarette. Lo scopo è di dare “stime esaustive” che comprendano “tutte le attività che producono reddito, indipendentemente dal loro status giuridico”. Si vuole, cioè, dare una fotografia il più possibile reale delle condizioni economiche dei nostri Paesi, anche per consentire una comparazione più facile tra essi, un confronto ad “armi pari”. Prima del 2014, infatti, la prostituzione era inserita nel calcolo del Pil da Germania, Grecia e Ungheria, il traffico di droga dall’Olanda. In Italia c’era una generica indicazione nel conteggio dell’Istat della economia sommersa, cioè di attività legali, ma per così dire non “registrabili”, perché sfuggenti ad ogni controllo, ad esempio a causa di raggiri fiscali (che nel 2008 pare coprivano circa il 16% del Pil) o contributivi. L’adeguamento, dunque, è apparso uno strumento necessario, anche in considerazione del fatto che è proprio in base al Pil, in particolare al rapporto tra deficit e Pil, che si deduce se un Paese è “virtuoso”, se merita, pertanto, di partecipare ai benefici che tale virtuosità comporta all’interno dell’Unione Europea. Le attività criminali arrivano, allora, a dare il loro contributo all’economia e, sembra incredibile, alla “virtuosità” dei Paesi europei.

Dunque, la prostituzione, la droga e il contrabbando contribuiscono a pieno titolo al benessere dei Paesi europei che decidono di conteggiarne le attività nel Pil. Queste tre attività sono illegali nella stragrande parte dei Paesi membri, ma essendo attività economiche “consenzienti”, in cui, cioè, la domanda e l’offerta si incontrano senza costrizioni, fanno parte del benessere europeo. Nel 2013 questi tre reati hanno consentito all’Italia una crescita del Pil di circa un punto percentuale (0,9%), equivalente a circa 16 miliardi di euro (15,5), in cui il traffico di droga fa la parte del leone, occupando più di 10 miliardi di euro, a fronte dei 3 miliardi e mezzo della prostituzione e dei 300 milioni del contrabbando.

Una sorta di riconoscimento del peso delle mafie nella economia italiana. Non vi è dubbio, infatti, che tali organizzazioni criminali agiscano in condizione di monopolio sul territorio della nostra penisola (e non solo!) per il traffico di droga e per il contrabbando e “consentano” la prostituzione, richiedendo il pizzo alle organizzazioni criminali straniere che trafficano migranti.

 

  1. Il riconoscimento delle mafie nella economia

Certo, la violenza mafiosa ha a che fare con l’economia e nasconderlo o minimizzarlo sarebbe antistorico e antiscientifico. Non solo e non tanto per il semplice fatto che ogni criminalità ha nel suo orizzonte il denaro e i beni altrui. Per le mafie c’è un di più: esse si distinguono dalle altre forme criminali apparse nella storia per la capacità di immettere nel circuito economico ciò che sottraggono con mezzi predatori fino a diventare esse stesse soggetti economici. Nel capitalismo criminale l’accumulazione può dirsi predatoria, ma il reinvestimento appartiene alla categoria di ciò che definiamo in termini economici «produttivo».

Ciò che definiamo mafia è un’attività criminale che interagisce e si interfaccia con soggetti economici e incide sulla produzione della ricchezza e non solo sulla sua diversa allocazione. Le mafie hanno avuto sempre a che fare, nel corso della loro lunga storia, con le attività economiche. Non esiste mafia, non si dà mafia, se non in legame con il denaro e le attività economiche. Cambia nel tempo il peso che vi ricopre, cambiano i settori coinvolti ma non l’interesse precipuo dei mafiosi alla ricchezza, a chi la produce, a chi la commercializza, a chi l’accumula e a chi la reinveste. Mafie ed economia sono, alla luce degli studi storici, due fenomeni assolutamente interconnessi.

E questo fin dalle loro origini. Le mafie che oggi si occupano di economia e vi intervengono massicciamente non sono una novità, rappresentano solo la continuazione di un interesse che è consustanziale all’essere mafioso.

Il metodo mafioso è, innanzitutto, uno strumento di capitalizzazione della violenza, cioè un modo di procacciarsi risorse economiche con l’uso della violenza. Più che industria del crimine, come la definì Leopoldo Franchetti già nel 1876, la mafia è crimine che si fa industria e attività economica. La violenza, insomma, con i mafiosi entra a pieno titolo nelle relazioni di mercato e si fa beffa delle sue presunte regole “morali”, che cioè il mercato è uguale a democrazia, che il mercato è contrapposto a illegalità, che la criminalità è distruttrice di ricchezza, secondo i canoni classici del capitalismo moderno dettate da Adam Smith e John Stuart Mill. È l’ipocrisia sulle regole del mercato che ha tenuto nascosto che anche nelle economie produttive le forze violente non sono respinte di per sé ai margini, non c’è contrapposizione tra mercato e violenza, tra economia legale e illegale. L’economia criminale è contro le leggi degli Stati, ma non contro quelle dei mercati, avendo una sua barbara imprenditorialità, come ha scritto Franco Cassano.

Di questo pare che l’Europa si sia resa conto, dando riconoscimento economico a tali attività.

Nella dimensione imprenditoriale non esiste un confine sicuro, certo e invalicabile tra attività legali e quelle illegali. E non basta la morale o la religione a porli. L’economia legale non scaccia automaticamente l’economia illegale e criminale, tra le due non c’è totale incompatibilità, l’una non contrasta l’altra, anzi la convivenza sembra essere la caratteristica del loro rapporto. L’inconciliabilità tra economia legale ed economia illegale sembra essere una pia aspirazione del pensiero economico classico, più che una certezza scientifica. Nella prassi la compatibilità e un loro reciproco adattamento sembrano prevalere.

Se ci sono beni desiderati da ipotetici acquirenti e se il bene si presta ad essere scambiato, l’economia classica ci dice che ciò determina una logica di mercato basata sulla domanda e sull’offerta. Tra leggi dello Stato e mercato non c’è, però, totale sintonia e rispondenza. Il mercato può tranquillamente valere e operare per beni e prodotti non conformi alle leggi e il cui consumo è vietato.

Se il mercato legale fosse un mercato trasparente l’imprenditore criminale sarebbe immediatamente identificato ed estromesso. Ma non lo è. Labile è il confine tra parassitismo e produttività, e il mafioso rappresenta il caso emblematico di questa ambiguità e di questo sottile confine. Il traffico di droga è riprovevole, ma trasforma prodotti della terra e li immette sul mercato dopo una ulteriore lavorazione, cioè crea «valore aggiunto».

La crescita della criminalità economica mai come oggi non sembra sia stata ostacolata dall’economia legale.

L’economia per funzionare e girare sulla base della domanda e dell’offerta non presuppone il monopolio della forza e della violenza in mano allo Stato, ma che ci sia rispetto per gli accordi stipulati e sanzioni per chi non li rispetta. Se tutto ciò non lo assicura lo Stato, l’economia non si ferma e questo compito, fondamentale per gli affari, viene assegnato ad altri, compresi i guappi e i mafiosi.

L’economia è molto più aperta della rigida regolazione della legge. Si può fare economia anche fuori o addirittura contro la legge: le mafie ne sono la più autentica e duratura dimostrazione.

E ora gli Stati lo “certificano”, su suggerimento degli uffici dell’UE. Siamo di fronte a una legittimazione del ruolo economico delle attività mafiose. Con un piccolo particolare: queste attività sono formalmente e giuridicamente illegali, cioè contro le leggi degli Stati che le calcolano nel loro Pil.

 

  1. La crisi del diritto

L’inserimento di alcune delle attività mafiose più remunerative per le organizzazioni criminali nel Pil, se, da un lato, al di là di ogni imbarazzo, “certifica” il ruolo di creazione della ricchezza da parte di essa, dall’altra crea una frattura nella coerenza ordinamentale. “Fate che le leggi sian chiare, semplici e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle”, così Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene. Combattere le mafie e contemporaneamente riconoscere il loro ruolo di “portatrici di benessere economico” fa sentire tutto il peso di uno Stato in crisi, rivelando una evidente anomia, per dirla con Emile Durkheim, in cui la discrasia tra norme crea spaesamento nei cittadini.

C’è disordine, c’è entropia nella società moderna, non c’è più un diritto statale sovrano, ma prevale un diritto plurale, multinazionale, transnazionale. Sembra che il negozio giuridico abbia preso il sopravvento sulla legislazione tra le fonti del diritto, osserva Vincenzo Ferrari. La lex mercatoria impera, presentandosi come sistema giuridico parziale che non ha il suggello di alcuna norma statuale e si caratterizza per l’elasticità, l’incertezza e l’inventiva giuridica. La debolezza degli ordinamenti giuridici è sotto gli occhi di tutti. Eventi sociali soverchianti come la migrazione e la crisi economica hanno messo sotto i riflettori tutta l’inadeguatezza delle regole statali, la incapacità del sistema giuridico di assorbire le novità e, dunque, anche la diffusione delle mafie in settori dell’economia e della finanza. Siamo di fronte ad una crisi della efficacia del diritto nei confronti di molte forme di devianza, specie criminale e specie di stampo mafioso. Per dirla con Giuseppe Capograssi, assistiamo all’“economizzamento” della vita attuale. Le mafie entrano nella globalizzazione con molta facilità, attraverso il mercato e la lex mercatoria. Laddove il primato dell’economia sancisce la eclisse dello Stato e della sua sovranità, come nota con acume Paolo Grossi, si aprono spazi immensi per gli affari dei clan. Sembra che l’unico limite al capitalismo moderno sia quello della convenienza, i mafiosi lo sanno e sanno porsi sul mercato con grande appeal. I capitali illegali dagli stessi accantonati garantiscono offerte vantaggiose per i loro interlocutori economici, come è avvenuto nel campo del traffico dei rifiuti e in tutte le altre trattative economiche dagli stessi condotti.

Il diritto positivo, quello degli Stati, è lento, distratto e assolutamente incapace di far fronte a tali emergenze criminal-economiche. Probabilmente, in molti casi, non c’è neppure la volontà di attuare un controllo su affari di ampia portata che spesso vengono considerati persino utili alla tenuta economica degli Stati stessi. I mafiosi, infatti, arrivano in nuovi territori non con la coppola e la lupara, ma con giacca e cravatta, con proposte economiche vantaggiose. All’estero, nella stragrande maggioranza dei casi, non sparano, non chiedono il pizzo, non generano allarme sociale, ma investono molto denaro, cosa peraltro rara in tempo di crisi, prerogativa quasi esclusiva delle mafie. Per questa via, il riciclaggio di denaro sporco non diventa un fenomeno da combattere, ma quasi da auspicare, per garantire liquidità agli Stati. Gli interessi economici dei singoli e degli Stati, talvolta denunciati, ma molto più spesso liquidati come incapacità, ignoranza, impossibilità di intervento, diventano, ancora in un’ottica strettamente capitalistica, l’unico parametro di distinzione del bene dal male, del giusto dall’ingiusto.

Il potere economico spesso strumentalizza la dimensione giuridica al fine del raggiungimento con ogni mezzo e ad ogni costo del maggior profitto possibile. Inserire nel Pil attività illegali pare che risponda agli stessi fini, alla necessità di accaparrarsi finanziamenti europei, millantando un benessere solo apparente.

 

  1. Interessi economici e interessi sociali

È vero che il Pil cresce, è vero che le mafie, per dirla bruscamente, danno lavoro, sono ammortizzatori sociali e cuscinetti che garantiscono il non conflitto all’interno della società italiana; è vero che esse non si limitano a sottrarre beni, ma reinvestono i ricavi dei loro delitti, facendo circolare danaro. Ma questo è sufficiente per inserirle tra le attività che creano benessere in un Paese? E il calcolo del Pil rappresenta davvero la misurazione più convincente del benessere di una nazione?

In effetti da tempo si discute sulla capacità del Pil di rappresentare il benessere, ben prima del 2014. Sono stati proposti indicatori differenti che possano prendere in considerazione anche la salute, l’ambiente, l’occupazione, insomma la qualità della vita a 360 gradi e non soltanto limitata alla sfera economica.

Se si utilizzassero, quindi, indici più sostenibili, attività come quelle oggi inserite nel Pil non sarebbero neppure vagamente conteggiate, sarebbero chiamate con il loro nome e non ci sarebbe la difficoltà di doversi chiedere se combatterle o lasciarle vivere nella speranza di “mettersi a posto” con gli stringenti parametri europei.

In effetti appare abbastanza strano pensare che si possano approntare efficaci politiche di sicurezza contro quei reati che garantiscono la crescita e il rispetto dei parametri europei, reati che, per altri versi, sono spesso veri e propri indicatori di insicurezza urbana. Il Decreto del Ministero dell’Interno del 5 Agosto 2008 ha sottolineato all’articolo 2 che le situazioni urbane di degrado o di isolamento favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi e ha indicato tra esse lo spaccio di stupefacenti e lo sfruttamento della prostituzione. Le politiche di sicurezza annunciate in ogni campagna elettorale puntano molto sulla “pulizia” delle strade da ciò che può generare paura o che può diventare un’abitudine illegale tipica di certi luoghi. Prostitute e spacciatori sono le prime “pietre dello scandalo”, quelle che danno il “senso di sporco”, che prima indignano, spaventano e rendono insicuri e poi, se persistenti, non fanno più notizia, diventando tristemente normali. In tal senso la teoria delle finestre rotte aiuta a comprendere meglio il fenomeno.

Nel 1982 George Kelling e James O. Wilson firmarono un articolo sulla “Monthly Review” dal titolo “Broken windows”, avanzando l’ipotesi che esistesse un legame tra degrado urbano e criminalità: “se le persone si abituano a vedere una finestra rotta, in seguito si abitueranno anche a vederne rompere altre”. Quanto più un ambiente urbano fosse degradato, abbandonato a se stesso, ridotto a territorio di comportamenti devianti anche se non propriamente criminali, tanto più probabile sarebbe stata la manifestazione in quel determinato contesto di forme più gravi di trasgressione. Il degrado, insomma, elevando la soglia di indifferenza della comunità urbana verso varie forme di devianza, andrebbe a consolidare le culture criminali. Per ridurre la criminalità nelle strade delle grandi metropoli, perciò, urgeva attuare nuove strategie di prevenzione del crimine: la polizia si sarebbe dovuta occupare di reprimere anche quei comportamenti che, pur non configurando alcun reato, risultassero molesti, fastidiosi e dessero al cittadino un’immagine degradata della città. La broken windows theory ha avuto fortuna negli Stati Uniti, ispirando di fatto una nuova politica penale a partire dagli anni Novanta del 1900 definita “zero tolerance”. Ed è a New York che avviene la prima sperimentazione della “zero tolerance” nel gennaio del 1994, con il sindaco Rudolph Giuliani.

Si mettono, così, in campo un complesso di strategie volte a ridurre drasticamente la frequenza e la gravità di determinati fenomeni percepiti come socialmente indesiderabili; si tratta di un insieme di sistemi di controllo e prevenzione della criminalità rivolti non solo ai recidivi, ma anche agli autori di “reati di strada”, come prostitute e tossicodipendenti, che, aumentando il senso di insicurezza nei cittadini, conducono all’assuefazione al “brutto”. Proprio contro tale situazione si approntano sistemi di prevenzione situazionale comprendente strategie rivolte a installare ostacoli materiali, dissuasori, come dispositivi di vigilanza televisivi ed elettronici, per rendere più difficili determinati delitti. In Italia, numerosi sono gli strumenti utilizzati dai comuni per attuare queste misure; grande diffusione ha avuto l’utilizzo di apparecchiature tecnologiche di video-sorveglianza, l’incremento delle attività della polizia municipale e l’adozione di provvedimenti amministrativi in funzione dissuasiva. Negli ultimi anni si è assistito ad una specializzazione della polizia municipale sui temi della prevenzione, finalizzata all’aumento della sorveglianza a fini deterrenti, con conseguente sviluppo di una sorveglianza formale. Le polizie municipali, poi, sono chiamate ad occuparsi dell’attuazione delle ordinanze amministrative spesso impegnate a contenere i due fenomeni con interventi talora stigmatizzanti. Nel panorama delle misure situazionali, le ordinanze amministrative rappresentano, tra gli strumenti a disposizione dell’amministrazione comunale, quelli più idonei a dissuadere e ad imporre determinati comportamenti, a gestire e regolare comportamenti sociali di disturbo, ad attuare attività di contenimento, contrasto e allontanamento di un fenomeno criminale, con l’obiettivo di tutelare la sicurezza urbana, offrendo una risposta rapida, ma episodica e, perciò, per nulla efficace in quanto non incide sulla domanda dei servizi illegali, incide sulla forma e non sulla sostanza.

Insomma, sembra alquanto destabilizzante pensare che lo stesso comportamento possa essere, da una parte, portatore di benessere, dall’altra, di insicurezza urbana; da una parte, possa essere tollerato per ragioni economiche, dall’altra, debba essere combattuto per ragioni sociali. Quale sfera avrà la meglio? Quale interesse sarà sacrificato?

 

  1. Prostituzione volontaria

A proposito di sacrifici, siamo sicuri che gli scambi illegali inseriti nel Pil siano “consenzienti”? Non è forse vero che le prostitute siano in realtà spesso vittime sacrificali?

Le vittime della tratta sono costrette a pagare il pezzo di marciapiede dove lavorano, oltre che il vitto e l’alloggio, ai loro sfruttatori e una percentuale sulla prestazione. Queste donne, spesso rapite dai loro Paesi d’origine o invogliate a partire per l’Italia in cerca di un futuro migliore, scoprono, ben presto, di essere schiave, cose, merci vendute da uno sfruttatore all’altro; ignare della condizione di assoggettamento che le aspetta, si accorgono solo quando è troppo tardi dell’inganno ai loro danni circa il tipo di lavoro promesso. Con gli sfruttatori contraggono debiti per il viaggio che non riusciranno a pagare in poco tempo per via dei costi che devono affrontare in Italia. Violentate, cosificate, perdono la fiducia in se stesse e si arrendono alla cruda realtà, temendo ulteriori violenze anche in capo ai loro familiari nel paese di origine o paventando (nel caso delle nigeriane) che i riti vodoo a cui si devono sottoporre prima di partire, se si ribelleranno, avranno effetti terribili su di loro, in particolare sulla loro mente.

Su queste donne viene esercitato dai connazionali un potere totale, nonché un diritto di proprietà esclusivo, come testimoniano alcuni feroci episodi, che si aggiungono alle violenze, agli stupri e alle condizioni disumane di vita a cui sono costrette, quali lo sfregio o addirittura la marchiatura a fuoco. Proprio come per il bestiame, si delinea la proprietà del singolo, si marca il territorio, si distrugge una vita.

La criminalità organizzata di stampo mafioso di solito non si sporca le mani direttamente in questo traffico tanto redditizio e conveniente, lasciando fare agli stranieri che possono vantare organizzazioni molto ben strutturate. Come si legge in una pubblicazione dell’ Associazione On the road «Il livello basso dell’organizzazione è costituito da emissari delle organizzazioni etniche che operano sul territorio di destinazione per la presa in carico, il controllo, la riscossione del denaro oltre che da fiancheggiatori autoctoni con funzioni di autisti verso le stazioni ferroviarie più vicine o per il reperimento informale di alloggi.» «Il livello medio [è rappresentato da] una sorta di agenzie di servizi che hanno il compito di occuparsi della fase operativa del viaggio dei clandestini (produzione di documenti falsi, corruzione di persone per il rilascio di visti, scelta di rotte e mezzi); [i membri di queste agenzie] devono avere ottima conoscenza del territorio e consolidata rete criminale transnazionale [per garantire] ingresso e alloggio nei paesi di transito, introduzione clandestina nei paesi di destinazione, consegna della merce agli emissari delle organizzazioni criminali. Il livello alto [è, poi, costituito da] le organizzazioni etniche che pianificano e gestiscono lo spostamento dei connazionali dai luoghi di origine al paese di destinazione. [Esse svolgono un] lavoro manageriale, stabiliscono prezzi, comprano e vendono clandestini, droga, armi, tabacchi, fissano prezzi e sanzioni per gli sgarri, tessono relazioni politiche e costruiscono network internazionali.»

A margine di tali organizzazioni straniere, si pongono le mafie nostrane, esattori di tasse su questo terribile mercato illecito.

Secondo i dati del Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio del 2007, sono più di 9 milioni, il 45,14% dei residenti, gli italiani che vanno abitualmente a comprare sesso, uomini normali, spesso mariti adorabili. Né i clienti né i cittadini più in generale si prendono cura del problema che viene inquadrato in un normale do ut des senza approfondimenti, e senza consenso pieno. Le prostituite, da vittime effettive, nell’immaginario collettivo diventano colpevoli della indecenza cittadina e delle infedeltà coniugali, vengono etichettate e male accolte anche quando abbiano deciso di denunciare i propri aguzzini e di riprendersi la loro vita. Ma dietro tanta “brutta apparenza” c’è spesso una sostanza di schiavitù.

Con queste premesse, non sembra proprio che la prostituzione possa entrare in quella libertà di scambio di cui parla Eurostat, tanto che l’Insee, Istituto statistico francese, non ha inserito la prostituzione nel calcolo del Pil. Se la domanda è libera, l’offerta è in gran parte costretta, condizionata, cioè non libera. Dunque, se è una libera scelta servirsi di prostitute da parte di un uomo, non è altrettanto libera la scelta delle prostitute di fornire i servizi richiesti.

Sebbene l’Eurostat escluda dal conteggio lo sfruttamento della prostituzione, si può affermare senza dubbio che la maggior parte del mercato del sesso è alimentato da prostituite.

 

  1. Droga volontaria

E non sembra che si possa parlare di libertà dell’acquirente neppure nel commercio della droga.

Il commercio delle droghe oggi appare il principale motore del crimine. Il giro di affari in Italia è calcolato attorno ai 35 miliardi di euro, nel mondo si arriva a ben 560 miliardi di euro. Siamo di fronte a una vera e propria epidemia: 250 milioni di persone al mondo assumono droghe almeno una volta l’anno, 25 milioni sono veri e propri tossicodipendenti. Almeno 200.000 persone ogni anno muoiono per conseguenze del consumo di droghe. Con un mercato di queste proporzioni e con un giro d’affari di tali dimensioni si comprende facilmente come ormai è il traffico di droghe e il suo controllo a determinare il peso globale della criminalità di tipo mafioso e anche le gerarchie al suo interno. La droga rappresenta il 20% del Pil messicano. Nel 2009 l’esportazione delle cosiddette nuove droghe e della cocaina ha prodotto per il Messico più dell’export di petrolio. Recentemente il direttore dell’ufficio per la lotta alla droga e al crimine delle Nazioni Unite (UNODC), Antonio Maria Costa, ha affermato che nel 2009 ben 325 miliardi di euro provenienti dal narcotraffico sarebbero stati impiegati per fronteggiare problemi di liquidità del sistema bancario di diverse nazioni europee, in particolare di grandi banche inglesi, svizzere e italiane, tutte vicine al tracollo. In seguito al fallimento della Lehman Brothers del 15 settembre 2008, il cosiddetto mercato interbancario (attraverso il quale gli istituti si riforniscono reciprocamente di denaro) si era trovato improvvisamente all’asciutto provocando la bancarotta di più di 200 istituti e società di mutui e ad approvvigionare quel circuito ci hanno pensato i narcodollari.

La droga immette certamente nel mercato una grande liquidità, ma la domanda e l’offerta non si incontrano in libertà, perché i consumatori di droghe sono dipendenti da esse, come ha sottolineato Eric Dubois, direttore dell’Insee, il già citato Istituto di statistica nazionale francese, che ha deciso di attribuire al traffico di droga un valore molto basso rispetto a quello effettivamente stimato. Egli afferma che “l’attività di spaccio non è tra adulti o minorenni consenzienti” e che “molti clienti sono persone tossicodipendenti.”

E poi forse vale la pena di ricordare che la droga, come si è detto, genera allarme sociale, insicurezza e, soprattutto, una considerevole spesa sanitaria dello Stato.

Quindi, anche la domanda di droga non possiamo considerarla del tutto libera nel caso dei tossicodipendenti, che, lo dice la parola stessa, dipendono dalla droga e non sono così liberi di assumerla o meno, una volta varcata la soglia della dipendenza.

 

  1. Il contrabbando

Sembra allora che, a tutto concedere, solo nel caso del contrabbando si possa parlare di una attività illecita tra due soggetti consenzienti. Il contrabbandare merci pare essere un reato senza vittime in cui, appunto, non è facilmente identificabile la vittima e lo scambio avviene perché la domanda e l’offerta si incontrano nella convenienza. Cesare Beccaria ha scritto: “il contrabbando non produce infamia nella pubblica opinione […] questo delitto nasce dalla legge medesima poiché crescendo la gabella, cresce sempre il vantaggio e però la tentazione di fare il contrabbando […] le offese che gli uomini credono non poter esser loro fatte non l’interessano tanto che basti a produrre la pubblica indignazione contro chi le commette.” Tutto ciò è evidente nelle mafie e specie nella camorra. A Napoli, infatti, c’è stato nella storia un grosso scarto tra la percezione della popolazione del contrabbando come attività inoffensiva (e utile alla sopravvivenza) e la legge che lo vieta. Tutti quelli che vivevano, hanno vissuto e vivono di contrabbando non hanno mai avvertito di essere isolati, separati, di vivere cioè fuori dal consesso civile. Anzi, hanno goduto di una grande comprensione sociale, istituzionale e culturale. La tolleranza nasce dal fatto che i prodotti contrabbandati, come le sigarette, non sono prodotti effettivamente proibiti (fumare non era e non è un’attività proibita), perché generalmente venduti in negozi autorizzati dallo Stato. Non si tratta, dunque, di merce proibita, ma solo di merce su cui non si paga la tassazione allo Stato. Il contrabbando di sigarette, così come l’usura, il lotto clandestino, la vendita di merce contraffatta, la riproduzione di cd etc, sembrano essere contraltari proibiti di attività che lo Stato assicura e che il libero mercato richiede (produzione e vendita tabacchi, il prestito bancario, le lotteria, e ultimamente anche le scommesse sul gioco). Difficile associare riprovazione alla vendita di merci che lo Stato fa comunque vendere in negozi autorizzati e che costano di meno al consumatore.

Il contrabbando è, quindi, un’attività fuori dalla legge, ma non fuori dalla morale corrente che trova la sua massima espressione in una “città bazar” come Napoli in cui si intersecano economia informale, illegale e criminale.

D’altra parte, storicamente a Napoli il contrabbando è stato alimentato dalle stesse truppe alleate di occupazione, a partire dal loro ingresso in città nell’autunno del 1943. I soldati vendevano il surplus di dotazione di cibo e di sigarette a persone che a loro volta lo rivendevano al mercato nero. Il contrabbandiere di sigarette più famoso di Napoli, Michele Zaza, ha parlato di 700000 persone coinvolte in questa attività, con un giro di affari da lui gestito nel 1977 di 150 miliardi di lire. Eliminare il contrabbando avrebbe significato creare sacche di disoccupazione considerevoli e ribellioni. Che il contrabbando venisse considerato non come un’attività criminale, ma solo come un industriarsi per sopravvivere è testimoniato dal fatto che, di fronte alle prime attività repressive della Guardia di Finanza, si svolsero scioperi dei contrabbandieri, manifestazioni di piazza, assemblee pubbliche degli stessi; furono addirittura affissi manifesti di protesta. Una delegazione di contrabbandieri fu ricevuta in prefettura a Napoli da un sottosegretario del governo in carica. Si costituì nel 1974 perfino un “Collettivo Autonomo Contrabbandieri” che tenne un’assemblea in un’aula dell’Università Federico II, annunciata con volantini e manifesti murali nei quali era scritto: “Il contrabbando a Napoli permette a 50.000 famiglie di sopravvivere a stento. Da poco meno di un anno, oltre a chiudere i posti di lavoro, lo Stato e la Finanza hanno dichiarato guerra al contrabbando. Ci sparano addosso quando usciamo con i “motoscafi blu”. Il contrabbando non si tocca! Fino a quando non ci daranno un altro mezzo per vivere. Dobbiamo organizzarci ed essere uniti per difendere il nostro diritto alla vita. Riunione di tutti i “contrabbandieri” napoletani. Giovedì 15 alle ore 10 davanti all’Università di Scienze via Mezzocannone 16 – di fronte al Cinema Astra. Collettivo Autonomo Contrabbandieri”.

Anche gli inquirenti hanno commesso un errore di valutazione nel considerare il contrabbando di sigarette un’attività tutto sommato da avvicinare all’arte del sopravvivere piuttosto che a una vera e propria impresa criminale, probabilmente per evitare l’esplosione della questione sociale. Sarà, infatti, il contrabbando di sigarette a trasformare la camorra da criminalità locale a criminalità nazionale e internazionale. Ma non va dimenticato che assieme a questi criminali, secondo un rapporto del 2001 della Commissione parlamentare antimafia, operavano “gruppi di avventurieri internazionali per la maggior parte americani”, banche svizzere, finanzieri di vari Paesi europei, ditte di import-export di mezzo mondo. Insomma, il contrabbando visse e si alimentò grazie al ruolo che ebbero le banche svizzere che movimentarono ingenti capitali sospetti e che non vollero mai collaborare con le autorità amministrative e giudiziarie italiane. Un ultimo elemento da considerare nel successo del contrabbando di tabacchi è il comportamento delle grandi aziende internazionali di produzione di sigarette. Esse vendono contemporaneamente all’agenzia italiana del monopolio di Stato del tabacco e ai contrabbandieri tramite mediatori. Da questo punto di vista sono importanti le dichiarazioni di Ciro Mazzarella, uno dei capi (assieme allo zio Michele Zaza) del contrabbando di sigarette. Egli conferma nel libro Lo spallone, scritto da Fabrizio Capecelatro, che erano le aziende produttrici, appunto, ad alimentare un mercato illegale parallelo a quello legale. Non vendevano direttamente ai contrabbandieri, ma a società intermediarie. Un sistema che consentiva alle “major” – sostiene Mazzarella – di pilotare anche i consumi, piazzando le novità sul mercato illegale, per poi trasferirle su quello legale, una volta avuta conferma dai consumatori, e imponendole rispetto alle marche più note.

Anche nel caso del contrabbando, però, è possibile avanzare qualche dubbio sul concetto di “scelta consenziente” da parte del consumatore. E’ una scelta certo libera, non forzata dalla violenza, ma è innanzitutto una scelta economica motivata dal minor prezzo. Il consenso nasce dal minor costo di una merce che nei circuiti legali ha un prezzo maggiore. Al posto di disquisire sulla scelta consenziente o meno, non sarebbe più normale eliminare il contrabbando, di modo che si ripristini la vera scelta libera (fumare o non fumare) piuttosto che quella indotta (fumare di contrabbando o comprare dal tabaccaio)? Avere le sigarette di contrabbando disponibili per strada, quasi sempre e quasi ovunque, con un atteggiamento repressivo a fasi alterne, non pone all’acquirente il dubbio amletico se sia libero o meno nel farlo, ma piuttosto lo fa sentire uno che non persegue i suoi interessi economici se decide di non approfittare della notevole differenza nel prezzo. E, dunque, la libertà dell’acquirente è forzata dalla assoluta convenienza.

 

  1. Conclusioni

Nel passato i proventi che derivavano da attività illegali non erano tali da condizionare l’economia oltre il livello locale. È questa la differenza con l’oggi. Differenza che si è prodotta a partire dal secondo dopoguerra quando con il contrabbando di sigarette le mafie italiane hanno cominciato a far parte di un’economia non più locale, ma internazionale. È stata la possibilità concessa alle mafie di partecipare all’economia globalizzata, grazie ai proventi del traffico di droghe, ad averle rese più potenti che mai.

Una delle decisioni più emblematiche a tale riguardo è sicuramente l’introduzione delle attività illegali e criminali nel calcolo del Pil da parte dell’Unione europea, cioè nel calcolo della ricchezza nazionale degli Stati membri. Una decisione che, nei fatti, cambia radicalmente tutto ciò che è stato detto e scritto finora nel rapporto tra economia e criminalità.

Certo, non vengono prese in considerazione tutte le attività illegali ma solo il traffico di droghe, la prostituzione e il contrabbando, cioè proprio quelle attività monopolizzate dalle mafie e che forniscono loro ricchezza, potere e consenso come mai era avvenuto, in queste proporzioni, nel corso della loro storia.

In genere ai fini della valutazione economica le attività criminali vengono classificate in due categorie: beni e servizi la cui produzione, vendita e possesso sono vietate dalla legge; produzioni che di solito sono legali, ma che diventano illegali se effettuate da produttori non autorizzati. Entrambi i tipi di produzione sono considerate a pieno titolo attività economiche purché esista una domanda di mercato effettiva e consenso tra chi vende e chi acquista, cioè se la transazione sia frutto di un consenso reciproco. Non viene considerata l’economia prodotta da attività dove l’accordo manca (ad esempio estorsioni, furti, scippi). Insomma, secondo gli economisti di Bruxelles, se ci sono dei beni desiderati dagli acquirenti, e se questi beni si prestano ad essere scambiati, ciò determina una logica di mercato basata sulla legge della domanda e dell’offerta. Se c’è consenso, e l’acquisto non è imposto, ciò rientra pienamente nell’economia di mercato.

Dunque, «l’economia del vizio» monopolizzata dalle mafie, è considerata a pieno titolo parte dell’economia, al di là delle questioni giuridiche e morali. Una merce illegale, se risponde, però, alle regole dell’economia di mercato, assume un valore, nonostante le leggi contrarie dello Stato e le prescrizioni morali; non inficia tale valore se essa è prodotta e commercializzata dalla criminalità. Una cosa del genere, anche se sono in molti a pensarla, non era stata mai così esplicitamente affermata come in questa occasione. <span style="box-sizing