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Le verità scomode su migranti e lavoro.

di Enrico Pedemonte - 29/10/2016

Le verità scomode su migranti e lavoro.

Fonte: pagina99


Una ricerca del Cer sfata un tabù della sinistra europea. Nei Paesi del Sud gli stranieri fanno concorrenza ai locali. Al Nord pesano sul welfare

 


Chi ama il politicamente corretto è pregato di voltare pagina. Nell’era di Internet molti cittadini vivono in una personalissima bolla ideologica e non sono propensi a mettere in dubbio verità consolidate, specie su argomenti sensibili come l’immigrazione, dove ciascuno coltiva granitiche certezze. Partendo dal presupposto che i lettori di pagina99 siano in maggioranza progressisti, questo articolo non avrebbe dovuto essere scritto. Perché i risultati di una ricerca sull’immigrazione del Cer (Centro Europa Ricerche) contraddicono un assunto che la sinistra europea ha trasformato in un mantra: il fatto che gli immigrati non entrino in competizione con i lavoratori locali.

L’articolo del Cer – European Migration and the Job Market, a cura dei due economisti Stefano Collignon e Piero Esposito, che sarà presentato Lunedì 24 ottobre alle ore 17 presso l’Università Lumsa di Roma – ci propone una narrazione alternativa, nella quale i migranti che premono sul mercato del lavoro in alcuni casi vanno a occupare posti che potrebbero essere appannaggio della manodopera nazionale. Una verità scomoda, che però sembra spiegare in modo credibile le dinamiche che stanno portando alla rinascita di quelli che Collignon ed Esposito definiscono «i demoni del nazionalismo e della xenofobia». Demoni che esplodono alla fine del 2015, quando sulla scena europea irrompono un milione di rifugiati in arrivo dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan, insieme a masse di migranti provenienti da altri Paesi poveri del Centro Africa, dal Bangladesh, dal Pakistan.

Aumento dei migranti e populismo

In quel momento il numero dei richiedenti asilo passa da 30-40 mila a 140 mila al mese e il problema immigrazione diventa un’emergenza per tutto il continente. Improvvisamente esplode il risentimento collettivo che in Gran Bretagna porta al voto sulla Brexit e in altri Paesi europei alimenta la crescita di movimenti populisti. Ma questa reazione di rigetto non nasce dal nulla. Si nutre di una diffidenza maturata nei decenni precedenti. Di questo si occupa la ricerca del Cer che, nel suo percorso cronologico, contiene tutti gli ingredienti della sceneggiatura di un romanzo storico che ha inizio nel 1990 (allora la Lega aveva tre anni di vita) quando cioè il fenomeno dell’immigrazione cominciò ad assumere connotati rilevanti. Basta un dato per ricordare un fenomeno che ha cambiato la nostra storia: negli ultimi 25 anni – tra il 1990 e il 2014 – la popolazione europea è cresciuta di 34,3 milioni. Tre quarti di questi “nuovi cittadini” sono migranti che si stabiliscono soprattutto in Germania, Spagna, Italia e Gran Bretagna.

La crisi finanziaria

Naturalmente ogni Paese ha la sua storia. Tra il 2004 e il 2007, gli anni dell’allargamento dell’Unione europea ai Paesi dell’Est, la maggioranza dei migranti prende la strada che porta in Italia, Gran Bretagna, Belgio, Svezia e Austria. Il 2007, l’anno della crisi finanziaria che scuote il mondo, è un momento chiave: calano i flussi migratori verso la Germania, che aveva avuto un’immigrazione particolarmente intensa negli anni Novanta a causa del forte afflusso da Turchia, ex Jugoslavia e Romania. Anche in Paesi come Irlanda, Spagna, Grecia e Portogallo, particolarmente colpiti dalla crisi, il numero di emigrati supera addirittura quello degli immigrati.

La crisi fa crescere la disoccupazione e in molte nazioni europee – in particolare in Spagna – molti migranti tornano a casa. Ma nella maggioranza dei Paesi europei continuano a crescere e parallelamente al loro numero, aumenta l’ostilità da parte delle popolazioni. Quell’anno l’Italia registra uno strabiliante record a livello continentale: il tasso di occupazione tra gli immigrati adulti risulta di nove punti superiore a quello degli italiani. Qui va ricordato che l’Italia ha un tasso di attività tra i più bassi d’Europa: solo circa 56 adulti su cento lavorano, mentre nel 2007 sono 65 su cento gli immigrati (quelli con permesso di soggiorno) ad avere un’occupazione.

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Questo dato può essere spiegato banalmente affermando che i migranti sono venuti in Italia in cerca di un reddito, mentre la popolazione nativa in molti casi rinuncia al lavoro per questioni personali, o magari perché rifiuta le occupazioni di basso livello che trova sul mercato. Resta il fatto che in nessun Paese d’Europa, nel 2007, c’è una differenza simile tra il tasso di attività dei migranti e quello dei nativi. In Paesi come la Svezia, l’Olanda, la Finlandia, la Francia e la Danimarca, il tasso di occupazione dei locali è 10–17 punti più alto di quello degli immigrati.

Eppure il risentimento delle popolazioni locali, in diversa misura, è in crescita ovunque e assume diverse connotazioni nei diversi Paesi. Nel Nord Europa (dove, come abbiamo notato, il tasso di occupazione degli stranieri è più basso di quello dei nativi) il malumore collettivo si concentra sul peso che gli stranieri hanno sul welfare, sotto forma di assistenza sanitaria e assegni per la disoccupazione. Nei paesi come l’Italia cresce la percezione che i migranti “rubino” il posto di lavoro ai cittadini autoctoni. «Prima gli inglesi», ha promesso il primo ministro britannico Theresa May, alcune settimane fa. Quel grido ha risuonato in tutta Europa assumendo in ogni Paese specifici connotati. Ma davvero gli stranieri portano via il posto di lavoro ai nativi?

Mercato del lavoro al Nord e al Sud

Il passo successivo della ricerca del Cer entra direttamente nel merito della questione, mettendo il dito nella piaga. In che cosa sono diversi il mercato del lavoro del Nord Europa e quello del Sud? Il punto chiave è legato alla diversità dell’offerta e della domanda di lavoro. Per dirla in parole povere: nei Paesi del Sud (Spagna, Italia, Portogallo, Grecia) i diplomati e i laureati sono pochi, mentre al Nord è vero il contrario. Senza annoiare con troppe statistiche, in Portogallo solo il 40% della popolazione adulta ha un diploma, in Italia circa il 50. Nei Paesi del Nord Europa siamo al 70-80 per cento. Un discorso analogo vale per i laureati. E siccome l’offerta condiziona la domanda, i Paesi più “colti” hanno un mercato del lavoro che richiede alte competenze e attirano un numero maggiore di immigrati diplomati e laureati.

Viceversa, la strada verso l’Europa del Sud è composta soprattutto da immigrati con scarsa scolarità. Tutto ciò ha un effetto diretto sulla reazione dei cittadini. Perché mentre nei Paesi ad alta scolarità gli immigrati di basso livello culturale occupano posti di lavoro che i cittadini non vogliono più fare, nel Sud entrano direttamente in competizione con i locali. Non è un caso quindi se i cittadini del Sud Europa vedono negli immigrati degli avversari in competizione per gli stessi impieghi.

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Lo choc migratorio

I ricercatori del Cer hanno creato un modello matematico per verificare l’effetto sull’occupazione di uno “choc migratorio”. Il risultato è che «la migrazione ha un effetto negativo sull’occupazione dei nativi nei Paesi periferici» (quelli del Sud Europa) pur avendo «un impatto positivo sulla crescita del pil e sul tasso di occupazione in generale». La ricerca non lo dice in modo esplicito ma l’autore Piero Esposito sottolinea a pagina99 che questi effetti negativi sull’occupazione dei lavoratori locali sembrano essere più evidenti per Paesi come Portogallo e Grecia e meno sensibili per l’Italia. Ma il problema resta ed è destinato a crescere in proporzione ai flussi migratori in arrivo sulle nostre coste.

Le ricette dei ricercatori del Cer sono la conseguenza diretta del ragionamento fin qui svolto. Per diminuire lo “choc migratorio” dovremmo essere un po’ più simili ai Paesi del Nord Europa: dovremmo far crescere le competenze professionali dei cittadini, aumentare il numero dei laureati e far crescere l’economia sviluppando una domanda di lavoro spostata verso l’alto. Il fatto che l’Italia sia uno dei fanalini di coda in Europa nell’attrarre immigrati laureati con alte competenze non fa altro che aggravare il problema.

Il buonismo della sinistra

Ma esiste un altro problema, più direttamente politico, che la ricerca del Cer non tocca. Uno dei miti buonisti assai cari alla sinistra tradizionale è stato negare la dimensione sociale e il dramma economico vissuti da milioni di persone che entrano in diretto contatto con l’immigrazione. Non è del resto un caso che i voti della sinistra si concentrino nei quartieri borghesi e diventino sempre più occasionali nelle ex aree industriali e nelle periferie. Accettare il fatto che in alcuni casi (certamente in Portogallo e in Grecia, forse in Italia) gli immigrati entrino direttamente in competizione con i lavoratori locali, è un primo passo verso il riconoscimento della realtà.

Questo giornale lo ha già scritto nel numero del 24 settembre citando un importante intervento del filosofo marxista Slavoj Zizek. La sinistra ha un problema: quello dei migranti. In quel caso Zizek si riferiva alla distanza siderale tra la nostra cultura e quella di centinaia di migliaia di persone che arrivano dall’Africa. Il suo grido di allarme riguardava i tabù radicati all’interno della sinistra che portano a negare i problemi drammatici posti dalla convivenza di culture differenti.

Lo stesso problema si pone di fronte alla questione del lavoro. Larga parte della politica e della cultura progressista europea negano che esista un problema di competizione tra lavoratori nativi e immigrati e raccontano la favola non dimostrata dei lavoratori stranieri che svolgono ruoli che i locali non vogliono svolgere. Accogliere migranti in fuga dalle guerre e dai Paesi poveri è un problema umanitario a cui non ci possiamo sottrarre. Ma sul lavoro, come sulle differenze culturali, meglio raccontare la verità e cercare soluzioni concrete ai problemi che nascondersi dietro trucchi buonisti facile preda del populismo.