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Lezioni ucraine

di Enrico Tomaselli - 27/09/2023

Lezioni ucraine

Fonte: Giubbe rosse

photo 2023 09 22 14 42 53.jpgAd oltre un anno e mezzo dall’inizio dell’Operazione Speciale Militare, una panoramica a volo d’uccello sul conflitto consente se non di fare un bilancio, certamente di metterne in luce taluni aspetti significativi. Come spesso capita, il senso di determinati avvenimenti, pur del tutto noti, si coglie infatti solo a distanza. Il tentativo, quindi, è di abbozzare delle lezioni che si possono trarre dalla guerra in corso, esaminandone l’excursus dapprima dal punto di vista ucraino, poi da quello russo. In questa seconda parte si esaminerà la guerra dalla prospettiva russa.

* * * *

In questa seconda parte delle Lezioni Ucraine [1], si proverà ad analizzare i cambiamenti strategici e tattici intervenuti nel conflitto, da parte russa, a partire dall’avvio della OSM sino ad ora. La prima, e più interessante osservazione da fare è che il punto di vista russo, in questa guerra – e proprio a partire dalla scelta di definirla inizialmente come una Operazione Speciale – è mutato considerevolmente; forse non sempre tempestivamente, ma certo con grande flessibilità. Del resto, basta osservare il quadro generale internazionale, e più specificatamente quello del conflitto nei suoi aspetti bellici sul campo, per comprendere con grande evidenza come la Federazione Russa abbia gestito le mutevoli dinamiche della guerra molto meglio di quanto non abbia fatto la NATO; e ciò nonostante a Washington questo conflitto lo si è preparato da quasi vent’anni.

Come già detto precedentemente, si vuole qui analizzare la condotta strategica e tattica delle forze avverse, senza entrare più del necessario nelle motivazioni politiche che le hanno determinate. Ma, indiscutibilmente, tutta la prima fase della OSM è stata eminentemente politica.

Politica è stata, com’è ovvio, la scelta di intervenire in Ucraina per fermare l’espansione verso est della NATO; politica è stata la scelta di limitarne gli obiettivi iniziali; politica è stata la scelta di presentarla quasi come una operazione di peacekeeping. Questa prevalenza degli aspetti politici su quelli più schiettamente militari spiega a sua volta quelle che, appunto sotto questo punto di vista, appaiono come mosse inconsuete, e quasi inspiegabili.

Al tempo stesso, spiega a mio avviso anche una più generale mancanza (quantomeno apparente) di un quadro strategico chiaro, cosa che ha negativamente caratterizzato una buona parte delle operazioni sul campo.

Va anche detto che questa mancanza di obiettivi strategici precisi, probabilmente sino all’autunno 2022 (nomina di Surovikin a comandante in capo delle operazioni), si può riscontrare anche nel campo avverso, laddove lo sponsor ultimo dell’Ucraina, gli USA, con tutta evidenza non hanno tuttora né una wishlist degli obiettivi, né una chiara strategia per conseguirli.

Come è poi risultato evidente da una serie di informazioni venute a galla, il primo obiettivo che si poneva Mosca, intervenendo direttamente nel conflitto, era quello di forzare (la NATO) ad accettare un dialogo sulla sicurezza europea che tenesse conto delle legittime preoccupazioni russe. Il senso delle avanzate sulla capitale ucraina, fermate a pochi chilometri dalla città, era esattamente quello di esercitare una pressione in tal senso. L’idea di occupare l’intero paese non ha mai neanche lontanamente sfiorato la Russia.

Ciò è facilmente desumibile dal limitatissimo contingente impiegato, circa 200.000 uomini. Che non solo erano in fortissimo svantaggio numerico rispetto agli ucraini, ma soprattutto letteralmente impossibilitati ad una conquista così vasta, che avrebbe comportato un considerevolissimo allungamento delle linee logistiche, e quindi l’uso di una forza assai più massiccia (almeno 1.500.000 uomini) per controllare un territorio largamente ostile.

Una ulteriore riprova della convinzione russa che si sarebbe trattato di una operazione limitata nel tempo, si ricava agevolmente dalla constatazione che non esisteva un comando unico (se non quello esercitato, da Mosca, da Shoigu e Gerasimov), ma ben tre comandi di armata, che di fatto operavano in modo scarsamente coordinato tra di loro. E ciò proprio perché gli obiettivi assegnati non prevedevano una campagna di lunga durata, ed erano di natura diversa.

I due gruppi penetrati in territorio ucraino al nord, uno dalla Bielorussia ed un altro dalla regione russa di Belgorod, avevano infatti la missione precipua di esercitare la summenzionata pressione su Kiev, mentre quello che operava a sud attraverso il Donbass e la Crimea, aveva l’obiettivo di mettere in sicurezza le popolazioni e, soprattutto, la Crimea stessa. Nel primo caso, quindi, obiettivi prevalentemente politici, e presumibilmente limitati, nel secondo invece gli obiettivi erano militari e di lunga durata.

In ogni caso, nel giro di meno di due mesi, come abbiamo visto precedentemente, diviene chiaro che l’obiettivo di arrivare ad una trattativa in poco tempo è del tutto irrealistico, perché gli interessi della NATO andavano in tutt’altra direzione, e si è quindi reso necessario operare un primo reset dell’operazione, ritirando in due gruppi al nord, ormai inutili, e ridispiegandoli nel Donbass dopo un lungo giro all’interno dei confini russi [2].

Tra la primavera e l’autunno del 2022, quindi, le forze armate russe si ritrovano in una situazione non del tutto prevista, ed alla quale non erano comunque perfettamente preparate.

Va qui considerato un attimo anche il background di queste forze, le cui esperienze di combattimento (in epoca post-sovietica) sono relative alle due guerre cecene, a quella veloce con la Georgia, ed all’intervento in Siria – dove però operano sostanzialmente solo forze aeree e navali. Il conflitto con l’Ucraina è a sua volta – un po’ come per la NATO – la prima guerra simmetrica che affrontano [3].

In questa fase, quindi, le forze russe saranno sostanzialmente impegnate nel fronteggiare quelle ucraine, cercando al contempo di estendere il controllo sull’intera superficie amministrativa dei quattro oblast conquistati. E sarà anche – il motivo è intuitivamente chiaro – la fase che (insieme a quella iniziale dell’attacco) registrerà le maggiori perdite. Fondamentalmente, Mosca ripiega sugli obiettivi territoriali, in attesa di definire meglio il quadro strategico globale.

Ovviamente, poiché è la politica che guida l’azione militare designandone gli obiettivi strategici, come detto all’inizio bisogna considerarne l’incidenza. E poiché ovviamente non abbiamo accesso alle segrete stanze del Kremlino, queste sono chiavi di lettura arbitrarie, che però trovano – a mio avviso – un certo riscontro nei fatti noti, coerente con le premesse interpretative. Nello specifico, tale chiave di lettura porta a ritenere che, nel corso della fase in esame, a Mosca sia maturata la consapevolezza che la NATO sosterrà decisamente l’Ucraina in guerra, ma non ancora che si tratti a tutti gli effetti di una proxy war della NATO stessa.

Benché le forze disponibili lungo la linea di combattimento, e nelle immediate retrovie, siano ancora quelle assolutamente insufficienti con cui si era avviata la OSM, trascorreranno appunto circa sei mesi prima che in Russia si convincano della necessità di rinforzare adeguatamente il contingente. Operazione che viene inizialmente effettuata aumentando la presenza della PMC Wagner, e successivamente con la mobilitazione di 300.000 riservisti (inverno 2022).

Quello dell’utilizzo della Wagner, soprattutto alla luce degli eventi successivi, è un aspetto che merita di essere analizzato in modo specifico. La PMC, esattamente come avviene per le organizzazioni omologhe statunitensi o britanniche, svolge compiti che le forze armate ufficiali non possono ricoprire (Africa), ma anche ha fatto da battistrada in altre operazioni – ad esempio l’annessione della Crimea.

Nello specifico della guerra in Ucraina, la Wagner è stata presente sin dall’inizio, anche durante la guerra civile, con qualche migliaio di uomini. Ma, quando si è fatta più pressante la richiesta di manpower al fronte, si è rivelata la soluzione più veloce. Questa è stata l’occasione che Prigozhin aspettava da tempo, e l’ha sfruttata a suo modo. Innanzitutto, per rinfoltire le fila della PMC ha fatto largo ricorso alla legge che consentiva di reclutare detenuti condannati [4], portando gli effettivi a circa 50.000, di cui quasi l’80% reclutati nelle carceri russe. Oltre alla velocità di dispiegamento, il ricorso alla PMC presentava anche il vantaggio di alleggerire il bodycount, e poter utilizzare i reparti con maggiore spregiudicatezza.

Il momento clou dell’impiego dei contractors russi è stato a Soledar, e soprattutto a Bakhmut.

A questo punto è necessario fare due premesse. Innanzitutto, secondo la vecchia legge (ora modificata) che regolava in Russia i rapporti con le PMC, queste potevano agire con un grosso margine di autonomia, praticamente al di fuori dalla normale scala gerarchica delle forze armate, dalla quale dipendevano solo per i rifornimenti e l’equipaggiamento pesante. Inoltre, la tattica abituale con cui le forze russe hanno operato in Ucraina è stata fondamentalmente basata su alcune semplici mosse: identificato un punto debole nello schieramento nemico, lo investivano costringendo quest’ultimo a concentrarvi riserve per sostenere l’attacco; se il terreno ed i rapporti di forza lo consentivano, procedevano quindi ad aggirare le forze nemiche sui fianchi, cercando di chiuderle in una sacca, altrimenti continuavano a tenerle inchiodate nella posizione, sfruttando la superiorità aerea e di artiglieria per colpirle pesantemente.

Da questo punto di vista, la battaglia di Bakhmut rappresenta una significativa anomalia. Come già visto nella lezione 1, Zelensky decide farne una questione simbolica di grande rilevanza, nonostante la scarsa importanza strategica della posizione, e nonostante dal punto di vista militare sarebbe stato molto più sensato arretrare, ridispiegando le forze dietro la linea fortificata Sloviansk-Kramatorsk. Specularmente, per le forze russe avrebbe avuto senso cercare di insaccare, accerchiandoli, gli ucraini; o semplicemente di sfruttare la battaglia per consumarne le forze. Sostenere pesanti perdite, come effettivamente è stato, per conquistare una città praticamente rasa al suolo non aveva militarmente senso.

Il punto è che anche per Prigozhin quella battaglia ha un valore simbolico.

Lo scopo della conquista di Bakhmut è la creazione del mito della Wagner. Mito che viene costruito in parte utilizzando i media di cui dispone l’imprenditore Prigozhin, sia facendo leva sui blogger e sui corrispondenti di guerra (in maggioranza favorevoli ad un uso più deciso della forza militare), sia più in generale solleticando le aspettative delle componenti più radicali della società russa. Utilizzando uno schema classico nella costruzione di una narrazione, oltre all’eroismo della Wagner l’operazione puntava a mitizzare la figura stessa di Prigozhin, contrapposta a quella di Shoigu e Gerasimov, sostanzialmente dipinti come incapaci se non addirittura felloni. In questo naturalmente facilitati anche dall’incertezza della fase in cui si trovava il conflitto. E nonostante il capo della Wagner fosse un imprenditore che non ha mai combattuto, mentre i suoi antagonisti siano due militari di carriera [5].

Quale fosse il senso e lo scopo di questa operazione, diventerà chiaro qualche mese dopo.

Quale che fosse l’intento delle due parti, la battaglia per la città di Bakhmut è stata sanguinosa per entrambe, ma al di là del valore simbolico che vi si attribuiva, non aveva e non ha alcuna rilevanza strategica. Prova ne sia che, a distanza di mesi dalla sua caduta, la situazione in quel settore del fronte non è sostanzialmente mutata. A parte le perdite subite, e lo smacco per Zelensky [6].

Tornando un attimo indietro, abbiamo visto come la scarsità di truppe, e la loro distribuzione disomogenea lungo la linea del fronte, offrirà l’opportunità per la duplice offensiva estiva di Kiev, che porterà alla riconquista di un ampio pezzo di territorio a nord-est (dove le difese russe sono affidate a poche unità della Rosgvardija), mentre nel settore di Kherson, a sud-ovest, una maggiore concentrazione di forze riesce a respingerla con forti perdite. È questo il fattore decisivo, che convince Mosca della necessità di dare una svolta alla campagna ucraina.

Svolta che si concretizza sia nella decisione di riunificare il comando delle operazioni, e di affidarlo al generale Surovikin [7], sia in quella di procedere alla mobilitazione di 300.000 riservisti.

Mentre gli effetti della mobilitazione, che servirà sostanzialmente a riequilibrare le forze in campo, si vedranno solo verso la fine dell’inverno, il comando di Surovikin mostra da subito i suoi effetti. La prima, significativa mossa è quella di inaugurare – cosa incredibilmente non fatta sino a quel momento – una campagna di attacchi aerei e missilistici sull’intera Ucraina, e non soltanto sulle immediate retrovie del fronte, puntando a colpire il nemico in profondità, mettendo in crisi le sue infrastrutture. Va qui notato che, nonostante questa campagna non sia stata più interrotta, e continui ancora concentrandosi a volte sul sistema elettrico, altre su quello di produzione e riparazione militare, altre ancora su aeroporti, depositi di munizioni ed altre infrastrutture militari, a tutt’oggi continua a lasciare sostanzialmente intatti altri importantissimi obiettivi, in particolare strade, ponti, stazioni e linee ferroviarie, oltre alle infrastrutture di comunicazione.

La seconda mossa significativa operata da Surovikin, ed anche la più contestata, è il ripiegamento delle forze russe sulla riva sinistra del Dnepr a Kherson, lasciando in mano ucraina la parte occidentale della città. La giustificazione tattica è stata, ovviamente, che diversamente le unità russe si sarebbero trovate – in caso di attacco ucraino – costrette a difendersi avendo alle spalle il fiume. Resta però il fatto che in tal modo si è abbandonata una parte significativa del capoluogo dell’oblast, dopo averne proclamata l’annessione alla Federazione Russa. E che, un domani, sarà più complicato riprendersela.

La terza mossa importante, di cui si è vista la rilevanza più di recente, è stata la decisione di costruire linee difensive fortificate ed articolate in profondità, alle spalle della linea di contatto, ed in particolare a difesa di quel corridoio terrestre che collega il Donbass alla Crimea.

La questione della ritirata da Kherson è rilevante perché, oltre agli aspetti più strettamente militari, pone una domanda a tuttora irrisolta: al di là degli obiettivi strettamente politici, che sono abbastanza chiari, quali sono invece gli obiettivi territoriali di Mosca? Anche se ovviamente i due aspetti sono connessi, dalla condotta militare sul campo non si riesce a desumere con chiarezza quali possano essere; se ad esempio siano relativi alla liberazione completa dei quattro oblast annessi, sa la si voglia estendere ad una ulteriore fascia di sicurezza tra questi ed il territorio in mano ucraina, se si voglia o meno spingere la conquista sino ad Odessa, o se al contrario ci si accontenterà di ciò che si è già preso.

Ovviamente, non conoscendo gli obiettivi strategici diventa più difficile interpretare e valutare le scelte tattiche.

Se vogliamo provare a semplificare l’approccio russo al conflitto, potremmo dire che in una prima fase c’è l’idea di una operazione limitata, che porterà a trattative in un tempo relativamente breve; in una seconda fase, matura la consapevolezza che non c’è spazio per una trattativa, e che quindi si tratta di affrontare una guerra per l’Ucraina (chi ne controllerà il destino); ed infine, in una terza fase ancora in corso, si è presa pienamente coscienza del fatto che quella che si sta combattendo in Ucraina è una guerra esistenziale, che riguarda il destino della Russia.

Questa consapevolezza ha portato oggi i russi ad impegnarsi in un conflitto di prospettiva strategica, che potrebbe anche durare a lungo, e che in ogni caso non si potrà considerare concluso se non con la sconfitta propria o della NATO.

Se, sul piano tattico militare, Mosca sta procedendo alla distruzione dell’esercito ucraino – ed a minarne le prospettive di una sua ricostruzione a breve – quali che siano i suoi obiettivi territoriali, punta strategicamente ad aspettare che gli effetti della guerra spingano l’occidente ad allentare (volente o nolente) il sostegno a Kiev, per dare quindi la spallata definitiva ed ottenerne la capitolazione.

Sul piano meta-strategico la questione invece è stata posta molto chiaramente da Lavrov, nel suo recente intervento all’ONU. Non si tratta con l’Ucraina, ma sull’Ucraina. Non ci sarà alcun cessate il fuoco, cioè non sarà dato tempo a Kiev ed alla NATO per riprendere fiato. Se l’occidente pensa e vuole la vittoria sul campo di battaglia, sarà sul campo di battaglia che si vedrà chi è il vinto e chi il vincitore.

La spada di Brenno pende sul capo della NATO. Vae victis.


Note
1 – La prima parte, dedicata al punto di vista ucraino, è su Giubbe Rosse.
2 – Sotto il profilo tattico, ritirare completamente tutte le unità che erano penetrate da est, ridislocandole in Donbass, è stato un errore non da poco – se pure spiegabile con la scarsità di unità disponibili. Il risultato infatti, come era del resto prevedibile e previsto, è stato esporre un ampio tratto di territorio oltre il confine russo-ucraino alle incursioni delle forze di Kiev ed ai colpi della sua artiglieria.
3 – Un piccolo esempio di come abbia funzionato questo scarto è costituito da una certa moria iniziale di generali russi, che venivano localizzati tramite i GPS dei telefoni cellulari grazie al supporto della rete di intelligence e sorveglianza elettronica della NATO.
4 – Tale legge, poi abrogata, consentiva il reclutamento di condannati a pene detentive limitate, in cambio del servizio prestato in una compagnia militare privata.
5 – In particolare Valery Gerasimov è noto in occidente per aver presentato quella che venne definita dottrina Gerasimov, ma che in effetti era semplicemente una considerazione sull’evoluzione strategica della guerra contemporanea. Il testo della conferenza in cui venne presentata questa riflessione è disponibile qui.
6 – Il quale peraltro, per chissà quali motivi, sembra averne fatto quasi una questione personale, e di recente – in una delle sue innumerevoli e del tutto irrealistiche esternazioni – è tornato a parlare di riconquista della città. In un articolo del (“Zelensky’s Visit Reveals Strategy Divide Between Ukraine and U.S.”, NYT), si riporta l’affermazione di alcuni funzionari statunitensi, secondo i quali “Bakhmut è diventata una sorta di ossessione per Zelensky e i suoi leader militari”.
7 – Sergej Vladimirovič Surovikin era il Comandante, dal 2017, delle forze aerospaziali russe; dall’ottobre 2022 è stato posto al comando di tutte le truppe e le forze militari russe impegnate nel conflitto in Ucraina. Dal 2013 al 2017 ha diretto il distretto militare orientale ed è stato uno dei comandanti dell’esercito russo impegnati nella guerra civile siriana.