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Ma sapete chi vi ha comprato lo smartphone, ragazzi?

di Maurizio Blondet - 09/10/2016

Ma sapete chi vi ha comprato lo smartphone, ragazzi?

Fonte: Maurizio Blondet

Ormai è raro aver bisogno di fiammiferi da cucina. Ieri ne ho comprato una scatola. Dietro, c’è la scritta: “Prodotto da Swedish Match Tidaholm, Svezia”.  Dunque non produciamo più nemmeno i fiammiferi. E importiamo – e nemmeno dal Terzo Mondo; dal primissimo mondo degli alti salari, la Svezia.

Non siamo più competitivi nemmeno in questo. Scusate, ma per uno della mia età,  dietro una scatola di fiammiferi c’è sempre stato scritto SAFFA, che stava per Società Anonima Fabbriche Fiammiferi e Affini. La storica SAFFA di Magenta, fra Milano e Novara, che esisteva dall’800,  che impiegava centinaia di operai.

Io me la ricordo  perché in anni lontani, quando il Papa  dichiarò venerabile Gianna Beretta Molla, la  mamma  pediatra  che morì pur di non abortire il suo terzo bambino, io ci andai per intervistare il marito: l’ingegner Pietro Molla,  da tempo immemorabile direttore generale della SAFFA.   Sapevo di trovare un sant’uomo, scoprii un uomo santo. Un ingegnere e imprenditore la cui santità consisteva nell’escogitare tutti i modi trovare da lavorare per i suoi lavoratori e non licenziare.

Era una lunga tradizione, alla SAFFA.  Già negli anni ’30 alla fabbrica dei fiammiferi aveva affiancato la produzione di compensati di pioppo – il pioppo padano che viene sù veloce e tenero  –  prima per imballaggi, poi per farne mobili.  Incredibile, dalla SAFFA uscì una linea di mobili firmati da Gio Ponti: il Made in Italy ante litteram.  Nel ’35  la ditta acquisì una impresa torinese  da cui apprese  il know how (ma allora non si diceva) per la fabbricazione di”acciarini a rotella”,  ossia quelli degli accendini. Giunse ad aggiudicarsi un contratto con la Cartier, quella degli accendini d’oro e argento.  Nel ’54 la SAFFA vinse il Compasso d’Oro,  il gran premio  italiano per il Design (allora non si chiamava così) per  la prima cucina componibile, prodotta dalla SAFFA dall’architetto Augusto Magnaghi Delfino,  allora non meno famoso di Gio Ponti (aveva inventato il primo divano-letto per la Busnelli, curato arredi per le navi da crociera Raffaello e Michelangelo).

Il direttore della SAFFA ci abitava

Negli anni’60, fu  l’ingegner Molla, credo –  ben consapevole del  ridursi del mercato per fiammiferi e dei cerini, ma anche degli accendini a rotella – che convertì  la SAFFA parzialmente per la produzione di accendini a gas e piezoelettici.  Oggi nei master   alla Bocconi si parlerebbe di “riconversione”, di  “riposizionamento dell’azienda nei settori alti del consumo”,  nel “settore del lusso”; di “Made in Italy” di “eccellenza del design”,   della capacità di una ditta vecchissima di “stare sul mercato”. L’ingegner Molla, quello che s’ingegnava per fare stare la SAFFA “sul mercato”,   non usava questi termini. Per lui si trattava di non licenziare  operai. Compensando   la fabbrica di fiammiferi, settore “maturo” a basso valore aggiunto, con quelle a valore aggiunto alto.  In modo che   il reparto che guadagnava di più mantenesse quello che  guadagnava meno, o cominciava a perdere.

L'ingegnere, felice con la moglieL’ingegnere, felice con la moglie Gianna

Del resto, la SAFFA era una famiglia.  La  sua famiglia: attorno alla ditta c’erano le case fatte dalla SAFFA per i dipendenti, e lui abitava lì, a Ponte Nuovo,  nelle case create per  i dirigenti. Lì  la moglie Gianna allevò i figli, lì tornava l’ingegnere, sempre tardi  la sera.  Sotto gli occhi degli operai che vedevano la cilindrata della sua auto, i vestiti dei bambini, il suo stile di vita, tutto. E come si ingegnasse per trovare loro sempre nuovi lavori, come il padre di famiglia, responsabile dei suoi.

I tempi non sono più quelli. Ora fa’ parte del management avanzato licenziare  gli operai,   per diventare più competitivi. Leggo su Wikipedia  che la SAFFA “si avviò verso il proprio termine naturale venendo ufficialmente dichiarata chiusa in ogni sua parte produttiva nel 2002”.

Contesto il “termine naturale”. Magari si è cessato di lottare,  di sentirsi responsabili come pater familias della comunità.

 

Non la fare così tragica, direte, per una scatola di fiammiferi Made in Sweden. Siamo nell’epoca della  globalizzazione, dell’interscambio mondiale,  si vanno a comprare nel mondo le cose che ci servono, laddove vengono fabbricate a prezzi minori da aziende più competitive – è la perfetta razionalità, l’oggettività dell’economia del mercato globale.

 

Io continuo a  stupirmi della leggerezza con cui si tratta di queste cose.  Il punto è che le maestre elementari  ci inchiodavano nella mente un concetto economico-base, che evidentemente aveva martellato in loro il Fascismo (erano ancora in servizio, quelle maestre): “L’Italia è un paese  privo  di materie prime; per comprarle dall’estero dobbiamo spendere una quantità di preziosa valuta estera; essa non deve essere  sprecata in acquisti superflui”. La valuta serviva per comprare petrolio, minerali di ferro e per cavarne alluminio; essa era sempre scarsa, perché l’industria italiana non esportava abbastanza, e doveva esportare di più – ingegnarsi, sforzarsi, produrre ciò che poteva   all’interno della nazione, dove  si spendeva in lire nostre, non in dollari o in marchi.   Ci parlavano  delle centrali idroelettriche sulle Alpi, che consentivano di risparmiare sull’import di carbone, e le maestre  ci rendevano orgogliosi del fatto che il genio italico (sic) era riuscito a ricavare “carbone bianco”, come lo chiamavano loro.  Ci dicevano che il turismo era un modo importantissimo per guadagnar valuta, dunque che si doveva esser   gentili con  i visitatori che venivano a vedere la nostra bella Italia. Bella ma povera di materie prime.

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Insomma ci è stato inchiodato nella mente per sempre che l’economia è,  anzitutto, un fatto morale. Di responsabilità . Ci veniva insegnato che eravamo nati in una famiglia povera, e lo Stato italiano era, esattamente come i nostri genitori, preoccupatissimo di non spendere i pochi  guadagni se non oculatamente,  tirchiamente addirittura.

Non so. Tutte le volte che vedo uno dei nostri bietoloni, ragazzi e ragazze, fissi a bocca aperta – non  troppo intelligenti – sul loro smartphone (Asus, Samsung, Huawei…)  da 600 euro,  vorrei gridargli: hai presente, bietolone, che questo smartphone non l’hai pagato tu? Che te l ‘ha comprato   qualcuno?

No, non intendo il tuo papà.  Te l’ha comprato, dalla Cina o dalla Corea o dal Giappone, un lavoratore italiano che tu nemmeno conosci, che sgobbando nella sua azienda competitiva sul piano mondiale, ha prodotto merci che il mondo desidera e richiede; e con queste ha guadagnato i dollari –  diciamo 700-800 – con cui si compra uno smartphone.

Questo lavoratore, questo  estraneo a te  sconosciuto,  si trova probabilmente nel Nord Italia, fra Piemonte  Lombardia e Veneto,  o nel centro; molto meno probabilmente è un meridionale. Non te  lo dico, bietolone, per suscitare in te un po’ di  gratitudine per quegli italiani sconosciuti  che magari tu disprezzi come “Polentoni”.

Ti voglio solo far notare quanti sono gli smartphone  che noi in Italia non fabbrichiamo, comprati all’estero: milioni. E milioni di tablet, computer, portatili. Nulla di ciò  che interessa voi giovani lo produciamo noi, qui.  E nemmeno le vostre Nike, i vostri Lewy-Strauss, i vostri Ray Ban, produciamo.  Tutto ciò che volete, che vi fate comprare, non lo sappiamo – non lo sapete – fabbricare. E lo comprate dall’estero.

Più precisamente, lo comprano quei lavoratori che, in ditte moderne e competitive, nel Nord, riescono ancora ad esportare Made in Italy.  Ci riescono eroicamente,  nonostante uno Stato ormai composto di parassiti incompetenti faccia di tutto per rendere difficile – invece che aiutare – la produzione, a forza di controlli, norme , adempimenti e tassazione –  perché il Fancazzista Collettivo  guarda a quelli che lavorano con sospetto che siano evasori fiscali, che gli nascondono il suo stipendio di fancazzista.

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Pensa solo questo: che sono decine di milioni i tablet cinesi o coreani, milioni gli smartphone  che vi hanno comprato  quei lavoratori e imprenditori esportatori . E vogliamo parlare della auto? BMW, VW, Toyota, Kia…è raro vederne una italiana, ed è pure giusto perché  la Fiat fa’ schifo. Ve le comprano sempre loro. E non dimentichiamo la coca e le altre sostanze da discoteca, che  l’italiano consuma con entusiasmo: tutta roba importata,  per miliardi annui – di dollari che quei lavoratori guadagnano-  Loro che già devono guadagnare i dollari che servono per comprare  le cose essenziali : il petrolio, il gas, i minerali ferrosi e non ferrosi che le nostre industrie trasformano per poi esportarle:  per centinaia di  milioni di dollari, miliardi.   E sono aziende che  quando cercano un fabbro, un elettricista, un calderaio  non lo trovano, perché voi bietoloni schifate questi mestieri e nemmeno li sapete fare.

Non  pretendo che siate grati a questa gente che vi compra tutto ciò che non sappiamo, non sapete, non volete più fare. Voglio solo farvi notare quanti milioni sono gli smartphone e i tablet, milioni – e quanto pochi sono i lavoratori che in Italia riescono ancora ad esportare per comprarvi tutto, dal telefonino  al riscaldamento,  alle Nike  che avete ai piedi. Sono pochissimi.  Hanno a carico i Fancazzisti Collettivi di cui devono pagare gli stipendioni.

Anzi, sono sempre meno,   perché l’euro è troppo “forte”  e sopravvalutato per l’industria italiana, ed è invece sottovalutato per l’industria tedesca, che esporta di più,  e ci ha rubato la clientela estera.   Ne stanno  morendo giorno per giorno. E i dollari che guadagnavano per voi, per i vostri lussi oltre che per le spese essenziali, sono sempre meno. Alla prossima e imminente nuova crisi  finanziaria, ne spariranno ancora.  Perché siamo nel mercato globale, e  un collasso a Wall Street provoca decenni di recessione mondiale.

Il prossimo smarthpone non potrete comprarvelo, bietoloni.