Made in Italy? No: eccellenza italiana. Un nuovo modello di liceo
di Massimo Meraviglia - 06/04/2023
Fonte: Vendemmie tardive
Partiamo innanzitutto dalla denominazione ed evochiamo subito l’obbligante adagio latino nomina sunt consequentia rerum. Se è vero che la scuola in questione, un supposto Liceo del made in Italy, deve riguardare le potenzialità della nostra patria, è assolutamente necessario che non sia designato con una locuzione inglese. Il principio di non contraddizione e il senso di ciò che è opportuno ci comandano di rivedere questa formula. Liceo dell’Eccellenza Italiana, con il bell’acronimo LEI sarebbe una valida alternativa (che useremo nel presente articolo)… però in questo campo si potrebbe dare libero sfogo alla fantasia e alla creatività, di cui peraltro vantiamo, e non a torto, un possesso a livello di carattere nazionale.
Entrando invece nel merito, ho dato un’occhiata al progetto depositato in senato agli inizi del 2023 nel DDL 497. Rispetto ai licei tradizionali, manca ogni riferimento alla classicità, si aggiunge Diritto ed economia politica (primo biennio), Economia e gestione delle imprese del made in Italy, Modelli di business, Made in Italy e mercati internazionali (secondo biennio e quinto anno) e Informatica (tutti i cinque anni). Nel primo biennio Storia e Geografia rimangono accorpate, nel secondo rimane una spruzzatina di Filosofia e scompaiono Geografia e Scienze naturali. Invariata è la presenza di Italiano e Matematica, forse potenziata risulta Storia dell’arte.
Bene, che cosa dunque caratterizza questo corso di studi? Quattro materie economiche e una tecnica (Informatica). Quindi la valorizzazione dell’identità italiana dovrebbe essere esclusivamente una questione economica. Cioè in poche parole: istruzioni per fare i soldi con il marchio “Italia”.
Può funzionare una simile impostazione? Direi di no, anzitutto sotto il profilo che vorrebbe potenziare, quella appunto economico. Perché la ricchezza italiana è un patrimonio storico, artistico, etico, morale e culturale. Da qui viene tutto il resto. Ma un simile serbatoio di risorse va coltivato, non può essere solo sfruttato. Non è un semplicemente un capitale ma è il frutto delle passioni e degli sforzi degli uomini, del loro lavoro, inteso nel senso più nobile, non del “business”. Quindi una scuola che vuole dare valore all’eccellenza, deve anzitutto suscitare passione per quello che l’Italia “è”. Coltivare un patrimonio significa preservarlo, ma anche farlo crescere e ciò non si dà senza un’autentica passione per l’Italia.
E come studiare che cosa è l’Italia senza l’articolazione storica degli insegnamenti? Nel progetto in questione manca la storia e la civiltà classica, manca una storia dell’industria, dell’artigianato, dello stile e della moda. Manca una storia dell’enogastronomia. Queste materie devono completare la Storia e Storia dell’arte e devono costituire insieme a Lingua e letteratura italiana, l’ossatura del liceo. Altrove già ho sottolineato che la storia svolge un compito critico fondamentale, che si aggiunge alla sua funzione monumentale ed esemplare (per dirla con Nietzsche). Distrugge i dogmi, appunto storicizzandoli, ma costruisce anche le identità portandone alla luce i pilastri fondamentali, sepolti dalle scorie del tempo. La storia è un’arte che restituisce la forma dell’uomo e della civiltà. Un liceo economico è un liceo informe, un liceo storico capace di dare forma, identità, struttura agli individui e alla comunità…e anche alle attività economiche che da quella storia vorrebbero trare un legittimo profitto a vantaggio e per il bene di tutti.
Diritto ed economia non vanno pertanto sottovalutati, ma devono trovare un giusto spazio, entro il quale far rientrare non i “modelli di business”, ma la “progettazione e pianificazione economica e aziendale” (forza, dai che ce la facciamo a parlare italiano!). In un liceo critico e storico anche la tecnica economica trova una collocazione e un senso, ma all’interno di un contesto equilibrato, in cui il sapere costruisce una visione complessiva della realtà, per lasciare ulteriori approfondimenti al ciclo di studi di livello universitario e specialistico (un liceale non deve sapere tutto!). Del resto, un siffatto contesto ricondurrebbe la disciplina ad una più autentica norma-della-casa, in cui si impara ad abitare eticamente la terra che ci ospita. Non più crematistica dello sfruttamento indiscriminato, ma economia della presa in carico, della cura responsabile, della gestione appassionata non di un astratto “creato”, non di un astratto “pianeta”, reso un inferno proprio dalle sue sentinelle globali, ma del posto in cui vivi, del tuo ambiente, del tuo mondo.
Per completare il sistema dei contenuti offerti dal nostro Liceo dell’eccellenza risulterebbe particolarmente indicato lo studio della retorica e delle tecniche del discorso pubblicitario. Si tratta di una materia di raccordo tra passato e futuro, tra ambito umanistico/teorico e ambito pratico/economico, dalle enormi potenzialità in una società della comunicazione e al tempo stesso in grado di veicolare stili antichi e modelli di civiltà fondamentali per la nostra crescita.
Il quadro così completato non necessita affatto dello studio dell’informatica come materia a sé, che non ha qui alcun senso, visto che le tecniche di informatizzazione della didattica e dell’apprendimento si spalmano ora su tutte le materie e ricevono un’enfasi anche eccessiva dai nuovi (e per certi versi disastrosi) indirizzi pedagogici. Inoltre il livello di automazione che l’intelligenza artificiale permette di conseguire renderà verosimilmente obsoleti e riservati a una piccolissima schiera di tecnici specializzati tutti i compiti puramente meccanici, come quello di scrivere programmi, mentre diventerà sempre più importante, come è stato autorevolmente sostenuto, l’intelligenza non artificiale, umanistica, finalistica, estetica, in grado di associare agli aspetti logico-deduttivi quelli storico-creativo-intuitivi, quella insomma che ci consentirà di rivedere felicemente il passaggio da Comte a Bergson, dal meccanico all’organico, dal sistema alla persona.
Altrettanto fuori tema appare Filosofia (lo dico da insegnante di questa materia), ai cui contenuti si può accedere per vie diverse negli altri insegnamenti senza appesantirne l’insieme. Bisogna infatti preservare lo studio della filosofia dall’eccessiva semplificazione che espone la materia al rischio di trasformarsi in prezzemolo per ogni indirizzo di studi e riserva di discorsi per tutte le stagioni, soprattutto per quelle dove fiorisce l’erba maligna dell’ideologia e dell’argumentum ex (o pro) potestate.
Viceversa, non appare accettabile nel primo biennio il confinamento della geografia in una materia-ircocervo come geo-storia e la sua eliminazione completa nel triennio successivo. Questa disattenzione alla dimensione territoriale della vita e del sapere è espressione non solo di ignoranza antropologica, ma di uno strisciante progetto culturale di sradicamento. Vi si veicola una visione dell’uomo per la quale egli non appartiene più ai suoi spazi e alla sua terra, ma a mostri artificiali quali l’umanità, il mercato e la società globale. Il Liceo dell’eccellenza italiana dovrebbe invece essere il liceo delle radici territoriali, che dà piena soddisfazione a quell’aspetto dell’esistenza umana per cui la terra, la casa, la natura non sono un fondo da gestire a proprio piacimento come se fosse il bancomat delle risorse date, ma l’essenza più profonda del proprio essere-al-mondo, circostanziato, localizzato, colorato, vivente e concreto. L’Italia per gli italiani è questo, non un marchio, e diventa un marchio di successo solo nella misura in cui dietro vi è una simile vissuto di appartenenza.
Infine, con un pizzico di coraggio nel nuovo Liceo sarebbe utile pensare in modo diverso anche l’ora di Religione Cattolica, pur non toccando i limiti concordatari, anzi soddisfacendoli in modo super erogatorio. Sarebbe da ripensare la religione, in modo fortemente anticonformista e inattuale, come qualcosa che connota profondamente l’identità del nostro popolo, le sue abitudini, le sue attitudini e il suo modo di concepire la vita. Se è così, essa non può essere concepita come facoltativa e presentata insieme a una qualsiasi materia alternativa, perché non è più una questione di fede, come peraltro non dovrebbe essere a scuola e nel contesto di un insegnamento, ma di cultura. È quel non poter non dirsi cristiani di crociana memoria che trasforma il paesaggio italiano, rendendolo unico e culturalmente irripetibile. È una forza spirituale che lo compenetra e che va resa vivente e palpitante mediante la riconduzione dei temi fondamentali della storia della salvezza ai luoghi, ai tempi e alle opere della devozione cristiana in Italia, così da ripercorrere il senso di quell’identità romana del Cristo sottolineata da Dante e ribadita dal magistero di papa san Giovanni Paolo II. Regis Debray aveva detto che non si può crescere nell’ignoranza religiosa. Per un italiano tale ignoranza è ancora più grave perché, a prescindere da qualsiasi esplicito atto di fede, essa diviene ignoranza di sé. L’ora di Religione Cattolica non può essere un’ora-cenerentola, ma deve essere considerata parte integrante e indispensabile del curriculum scolastico: né di catechismo, né proselitismo, ma cultura, civiltà e conoscenza.
Da questi brevi cenni si possono già evincere le potenzialità di un Liceo dell’eccellenza italiana, ossia la possibilità di rappresentare non una semplice aggiunta nella cosiddetta “offerta formativa”, ma nuovo modo di intendere la scuola. Le radici concrete contro gli universalismi astratti; la storia e la vita contro il dogma; la cultura dei contenuti, delle conoscenze e di una reale esperienza del mondo contro la tirannia del metodo, la povertà della cassetta per gli attrezzi, la pesante ridondanza delle tattiche di problem solving senza profondità e senza orizzonti: questi potrebbero diventare solo alcuni dei punti di svolta.
Ma forse già possediamo un modello simile, che dobbiamo solamente rivitalizzare e riproporre come la vera eccellenza scolastica italiana, il Liceo classico. È vero: la nostra comunità nasce, rinasce e risorge nei classici e grazie ai classici. La loro tradizione, il loro sangue che scorre nelle nostre vene è linfa vitale che il Liceo classico non smette di proporre come fondamento dell’istruzione del popolo e delle sue classi dirigenti dalla riforma Gentile in poi…
A che cosa serve allora un Liceo dell’eccellenza italiana? Beh, una marina che si rispetti ha una nave ammiraglia, ma anche tutto l’altro naviglio deve essere all’avanguardia per dominare i mari.
Il nostro Liceo è una classe di imbarcazioni che corrobora, fuor di metafora, tutta la scuola. Infatti, nel Classico si punta a una cultura che diremmo fondata sulle cosiddette scienze teoretiche, dove balugina la pienezza di senso universale di un bìos theoretikòs autosufficiente e felice; dove un orientamento, esclusivo ma non escludente, al sapere e alla vita dello spirito, si viene delineando e offrendo in una vasta e nobile tradizione culturale italiana.
Nel Liceo dell’eccellenza italiana il genius loci è collocato in primo piano e declinato nelle sue potenzialità poietiche, cioè produttive nel senso più vasto del termine: l’arte, l’artigianato, l’industria, orientate al bello e all’utile. La justissima tellus, racchiusa nei confini d’Italia, dei suoi monti, delle sue pianure, delle sue acque e dei suoi prati, delle sue città e delle sue cattedrali è posta in primo piano perché, fecondata dal lavoro dei suoi abitanti, restituisca il centuplo di ogni goccia di sudore e di ogni lacrima di fatica.
Ogni progetto deve sorgere da un bisogno. Nella presentazione ufficiale del Liceo del made in Italy si ritiene che esso contribuisca a determinare la “capacità dell'economia italiana di mantenere e conquistare un posizionamento significativo nello scenario globale del terzo millennio. Questo avviene soprattutto per le piccole e medie imprese, che costituiscono la maggioranza delle imprese del Made in Italy che, per intraprendere un percorso di internazionalizzazione, devono affrontare molti problemi; per questi motivi risulta indispensabile avere una classe dirigenziale capace di analizzare i nuovi mercati, le opportunità di business e i processi digitali a supporto dell'export in mercati strategici per il Made in Italy”.
Questo discorso, assai compiaciuto, è in realtà molto povero. Riecheggia stili confindustriali e modelli anglosassoni e adombra un bisogno di efficienza globalistica in perfetta contraddizione con il radicamento territoriale e culturale che invece sta alla base del successo nel mondo dei prodotti italiani. Il bisogno reale non è quello di una trasformazione tecnocratica dell’apparato produttivo italiano ma della conservazione della sua originalità e creatività. L’intuizione corretta è che l’aggettivo italiano nasconda potenzialità ancora da esplorare.
Allora cominciamo a lavorare su questo, senza provincialismi esterofili, senza linguaggi parodisticamente bocconiani e senza dilettantismi da ultimi arrivati nei salotti buoni, ma con la consapevolezza di essere nani sulle spalle di giganti (e quanti giganti abbiamo avuto fra noi!) umilmente intenti a guardare sempre un po’ più in là.