Madre, essere e cibo
di Livio Cadè - 08/05/2022
Fonte: EreticaMente
“Chi è disceso fino alle Madri non ha più nulla da temere.”
I – Madre e Dea
La nostra mente ricama a volte strane associazioni. Così, una pentola in cui cuoceva del cibo ha evocato in me l’immagine di un grembo femminile, come di un vaso in cui la vita rimescola gli elementi e, per così dire, li cuoce, li rende commestibili alla coscienza. Ma la madre non è solo è il crogiuolo alchemico dentro cui l’essere prende forma materiale, assumendo la sua umanità. È lei stessa cibo di cui la vita nascente si nutre, figura di una forza nutritiva che sta a fondamento del cosmo.
Attraverso la sua funzione alimentare la madre non solo ci sfama, ma appaga un nostro desiderio profondo. Secondo Laozi, ciò che contraddistingue l’uomo della Via è il suo “aver caro il nutrirsi dalla Madre”. Nel Vangelo di Tomaso, Cristo indica i bambini che succhiano al seno come immagine di “coloro che entrano nel Regno”. Per questo, per la sua potenza di Nutrice e dispensatrice di beatitudine, è più naturale adorare e amare Dio come Madre.
Prendendo forma umana, la mater diventa il fulcro di un materialismo mistico. Ci ricorda l’eterna verità che l’essere è cibo, e che non vi potrebbe essere alcuna ontologia senza digestione. È solo mangiando che lo spirito concepisce sé stesso nella materia, veste la sua nudità con tessuti di atomi e cellule, si fa un abito di carne con cui entrare sulla scena del mondo.
Perciò alla madre spetta un culto quasi religioso, perché simbolo e tramite di una trascendenza cui dobbiamo il nostro nutrimento vitale, fisico e mentale. In lei si fondono il chimico, il biologico e lo psichico, forme operative dello spirito apparentemente diverse tra loro ma che di fatto confluiscono nel cibo e vi si mescolano indistintamente, come una cosa sola.
Non bisogna però pensare che l’offrire il seno al figlio perché se ne sfami sia atto oblativo, di pura donazione, o che in questo svuotarsi di sé la madre abbia a soffrire una perdita. Ché, anzi, nel dare riceve. Come diceva Rabbi Kabia, “più che il vitello a voler poppare è la vacca che brama allattare”. In questo rapporto di reciproco piacere fermenta e si consolida quella fusione simbiotica che parrebbe annunciare una perpetua felicità per entrambi.
Ma la Madre ha carattere lunare, di astro che dalla piena luminosità declina verso l’oscurità, fino a diventare una sinistra luna nera. La Dea si trasforma allora in Strega, forza infera. Il ricordo del cibo evoca lo spettro della fame, o il terrore d’esser divorato, di diventar noi stessi cibo, assimilati nei processi digestivi della Madre. E per tutta la vita il nostro Io soffrirà di febbri e deliri, lottando tra la tentazione e il terrore di fondersi nel magma materno, di cadere nel suo grande Vuoto, nel Femminino che lo attrae e lo inghiotte, che lo imbozzola come un Ragno divino.
“Nutrirsi dalla Madre”, “succhiare al seno”, ci rende perciò cittadini di un Regno conturbante e ambiguo, retto da presenze che sono assenze, unioni che sono separazioni, dove il piacere è sempre accompagnato dal tormento. Legandoci alla mater stipuliamo un contratto con il mondo degli opposti e della mutevolezza, con la dimensione notturna del segreto, delle ombre, ne accettiamo il carattere illusorio. Bevendo il suo latte assorbiamo insieme l’amore e la morte, l’estasi della vita e i germi della dissoluzione che ogni parto del tempo porta con sé.
Tuttavia, sembra esistere un tacito accordo per cui sulla madre non deve restar traccia di questa ambivalenza, della contaminazione tra luce e tenebre, creazione e distruzione. Paradigma di tale icona materna, in fondo irreale, purgata d’ogni lato oscuro, è una Santa Vergine immutabilmente pacifica, consolatrice degli afflitti ed elargitrice di grazie.
Non si deve credere che questa immagine sia appannaggio esclusivo del culto mariano. V’è in ogni religione una ‘Madre benevola’, capace di comprensione e perdono incondizionato. Se la Madonna è refugium peccatorum, lo stesso Tao-Madre è secondo Laozi “il rifugio dei malvagi”. Tipicamente materna è anche la compassione del Buddha Amithaba, al punto che “se i giusti rinascono nella Terra Purra (in Paradiso, diremmo noi), a maggior ragione i peccatori!”. Gli stessi epiteti di Allah – il Clemente, il Misericordioso – sembrano alludere a qualità materne.
Questa attitudine al perdono può apparirci irrazionale e urtare il nostro comune senso di giustizia, ma non deve stupirci. Infatti una madre perdona ogni colpa al figlio, la scusa, la giustifica. Anche contro ogni evidenza, non dispera mai di redimerlo. Per quanto severa, non può concepire per la sua creatura una punizione eterna, un inferno. E probabilmente è l’idea di un Dio materno che suggerì a Origene una apocatastasi in cui lo stesso Satana viene infine perdonato e riammesso tra gli angeli.
La potenza collerica e vendicativa della Mater, i suoi attributi demoniaci, sono affidati a Dee terrifiche come Kali o Durga, partorite da una metafisica meno timida della nostra. O a certi miti in cui l’uomo impazzisce e si mutila da sé per compiacere una Madre implacabile. Ma anche in quei casi si può cogliere l’azione di una grazia, di un Amore che, per farsi assoluto, deve mozzare teste ed esigere castrazioni.
L’amore materno è in realtà un triplice mistero. È l’abisso oceanico dell’inconscio, della Shakti, potenza divina che ci crea e ci nutre, sul cui fondo si agitano creature sublimi e mostruose. Ma è anche il mite e accogliente seno materno su cui posiamo il capo, fiduciosi. Lì il mistero della Madre si incarna in una mamma umana e noi, tratti da acque senza fondo, siamo deposti nel rassicurante asilo delle tradizioni familiari, di una madre idealizzata. E infine c’è il mistero della donna, della carne femminile, della tela ruvida e scabrosa su cui dipingiamo i nostri sogni.
II – Madre e focolare
La mamma, prendendo tangibile fisicità, non può più essere Dea, voragine vertiginosa. L’immensità della Madre prende la forma più modesta di angelo. Sotto le sue ali non solo potremo rifugiarci; lei stessa potrà usarle per nascondere ai nostri occhi le sue imperfezioni. In quanto angelos, messaggero, ci consegnerà le necessarie istruzioni per vivere, ci insegnerà ad amare, ci nutrirà e ci curerà. Siederà a un doppio focolare, spirituale e naturale, il cui fuoco è suo compito custodire e tener vivo.
Difficile dire quanto, su questa cura della casa, del nido domestico, pesi una vocazione o un’educazione. È questione che richiede, più che argomenti metafisici, i pareri della sociologia e della psicologia. Di fatto, lo stereotipo dell’angelo familiare rappresenta la piega che han dato al ruolo materno una certa storia e una certa società. E se anche in esso si esprimono alcuni caratteri universali, sarebbe assurdo non vedervi i modelli di una cultura in gran parte maschile, di una teoria del ‘femminile’ che raramente tien conto di ciò che pensano e sentono le donne.
L’Eterno Femminino che ci trae verso l’alto, le Beatrici, le Laure, le Madonne, sono in gran parte creature del maschio, dei suoi sogni e desideri. Ma oggi, per effetto di nuove pressioni e nuovi condizionamenti, la donna viene delegata ad altri ruoli, anche quelli più tradizionalmente maschili, ponendo in subordine la sua funzione di madre e di casalinga. Può tuttavia restare il dubbio se ciò corrisponda meglio alla sua indole, alle sue aspirazioni, o se vi sia per varie ragioni obbligata.
Aver tagliato il nodo che la legava al focolare rappresenta per alcuni un indebolimento alle fondamenta dell’edificio sociale e un grave pericolo per la sua stabilità. Per altri è invece segno di emancipazione, una conquista di cui la nostra civiltà egualitaria e progressista deve andar fiera. In questo autocompiacimento serpeggia anche un certo astio nei confronti della storica organizzazione familiare. Come dice, o come urla Gide: «famiglie, io vi odio! focolari chiusi; porte sprangate; possessi gelosi della felicità». In effetti, è arduo giudicare di tale materia prescindendo dalle risonanze emotive e morali che produce in noi.
È normale, ad esempio, restar legati ai canoni di purezza che avvolgono il mito materno. Ma, sotto il loro idealismo, sedimenta un culto della Madre che palesemente comporta implicazioni sessuali. Non mi spingo fino a considerarlo la sublimazione di desideri incestuosi, perché sarebbe solo un rozzo e superficiale travisamento. Basta però una rapida scorsa all’agiografia cristiana per notare come la devozione maschile si rivolga più spontaneamente alla Madonna, mentre quella femminile preferisce dedicarsi a Gesù, con cui immagina amplessi e sposalizi mistici.
Per il figlio maschio è di fatto più facile, anche in età adulta, idealizzare la madre, conservare con lei un rapporto meno soggetto a quelle crisi e a quei conflitti che, in una fase della crescita, incrinano il legame amoroso tra madre e figlia, e talvolta lo spezzano. Probabilmente è questo che statisticamente rende più frequenti le apparizioni della Madonna tra bambini e uomini, mentre le visioni di Cristo son più comuni tra veggenti adulte di genere femminile.
Non voglio dubitare del valore di tali esperienze religiose. Solo, credo dimostrino come lo spirito non possa manifestarsi se non nei limiti di una forma corporea, assumendone i caratteri, compresi quelli sessuali. Il nostro Sé non butta via nulla. Tutto può servire all’evoluzione della coscienza, anche ‘l’Edipo’ di un uomo, un Eros femminile represso, un conflitto non risolto con l’imago materna.
III – Madre e società
La relazione con la mater sembra dunque offrire spunti problematici soprattutto alla donna. E io credo che oggi questo sia doppiamente vero. Se, uscendo dal discorso metafisico, caliamo la questione in un piano più storico e psicologico, notiamo infatti come la società costringa oggi la donna a dover affrontare, oltre l’atavico dissidio con la madre, il problema della maternità in senso lato, come crisi dell’identità femminile.
È indubbio che le moderne condizioni culturali, economiche e sociali, gravano le donne di nuovi fardelli e di nuove aspirazioni. Far figli e nutrirli non appare più per molte di loro l’esigenza fondamentale. E quando hanno dei bimbi, demandano spesso la loro educazione a estranei, o a balie elettroniche che li distraggano e li tengano occupati. Il rapporto col focolare si aliena. Anche il tempo che una mamma passa in cucina si fa impaziente e distratto, a volte appena sufficiente a scongelare cibi preparati non si sa da chi, non si sa come e dove, già cotti e pronti all’uso.
Case, dove un tempo era acceso un fuoco – fisico o metaforico – ora rimangono fredde e vuote. Chi per studiare, chi per lavorare, chi per svagarsi, sono tutti fuori – fuori di sé, si è tentati di dire – e chi torna a casa spesso non vi trova nessuno. Solo un muto frigorifero da cui trarre un pasto frettoloso e solitario. Non ci si riunisce più intorno a una tavola imbandita, a orari canonici, secondo un rito antico quanto l’uomo. Ognuno si arrangia come può, genitori da una parte, figli dall’altra, sempre più divisi. E per nascondere la lontananza si stringono connessioni elettroniche, che vagano alla deriva nell’etere come messaggi di naufraghi.
Sotto una maschera di vitalità e di allegria la nostra società nasconde una malata tristezza. Tra le cause di questa sofferenza credo si debba considerare il numero delle donne che il lavoro distoglie dal loro ruolo tutelare, alle quali non resta più tempo per cucire la vita familiare, tirarne i fili sparsi e intrecciarli in una trama di legami tenaci. Nel focolare, più che un destino naturale si vede oggi una gabbia culturale, che impedisce la ‘realizzazione’ della donna. La società stessa giudicherebbe sfavorevolmente mogli e madri che si sentissero ‘realizzate’ nell’accudire la casa, il marito, i figli.
La famiglia tradizionale vien vista come coltura di germi psichici, terreno di malattie morali o di oscurantismi intellettuali. La nostra epoca ha quindi organizzato una vasta campagna di profilassi contro i vecchi modelli familiari, ritenendoli ostacoli alla moderna idea di ‘evoluzione sociale’. Ogni resistenza alla nuova mentalità, ogni tendenza a ripristinare ruoli tradizionali è automaticamente bollata come reazionaria, bigotta, repressiva.
In particolar modo, si vuol negare il fatto che essenza delle relazioni familiari sia un retaggio di sangue, una condivisione non aleatoria di caratteri genetici. La familiarità come vincolo carnale è iscritta nel nostro istinto. Ogni uomo vuol sapere di quale albero è ramo, sentire le proprie radici. Oggi invece si vorrebbe equiparare la famiglia a un mero aggregato di contratti affettivi e giuridici.
Questo sembra rientrare nel disegno più ampio di una umanità indifferenziata, senza razze, senza patrie, senza storia. In tempi di ‘inclusione’, il gruppo familiare viene presentato come fondamento di esclusioni egoistiche e asociali. Lo stesso concetto di maternità naturale, espressione di una radice non eludibile, appare in contraddizione con la nuova dottrina dello sradicamento, della massificazione. Va quindi diluito, distorto, manipolato.
La madre era in fondo il perno sul quale un microcosmo domestico ruotava, il suo centro di gravità. E questo piccolo mondo era a sua volta il perno di un mediocosmo comune, e su questo girava un macrocosmo. Questo impianto, che ormai appare anacronistico, sembra dover essere gradualmente smantellato, e per farlo è necessario privarlo della sua base. Alla donna d’un tempo, figura e rifugio dell’anima, subentra così la donna in carriera, preoccupata più per il suo futuro che per quello di ipotetici figli.
Per contrappeso, quasi per una perversa compensazione, è la società che oggi si maternizza, si fa ferocemente assistenziale, previdenziale, tutelare. Diventa società dell’apprensione e dell’ansia, della sicurezza prima di tutto, della prevenzione, della diagnosi interminabile, del premunirsi contro le malattie, contro gli infortuni e gli incidenti, dove ogni ombra nasconde un pericolo, dove il cittadino va curato, protetto e salvato anche contro la sua volontà. Società della tolleranza, della non discriminazione, dell’accoglienza incondizionata, del dare asilo. Società soffocante e castrante, che vuol difendere il cittadino da sé stesso, privarlo della libertà per il suo bene.
IV – Madre e cibo
Poiché la madre è per sua natura consustanziale al cibo, era inevitabile che lo sgretolarsi di sensi materni si riflettesse nella nostra relazione col mangiare. Il nutrirsi è diventato così problema e crisi esistenziale. Il conflitto con la mater si manifesta sotto forma di anoressia o bulimia, rifiuto o dipendenza, una serie di disturbi ammorba la nostra alimentazione concreta e simbolica. Il cibo viene medicalizzato, mercificato, scientificamente vagliato, sanificato, privato d’ogni connotato di sacralità.
Più la donna diserta il focolare più il pasto si riduce a consumazione. Non è più comunione, rito religioso, atto rilegante. Resta solo il ricordo di quel desco dove con assidua regolarità ci si sedeva insieme, si ringraziava per il pane – che è sempre un dono, anche quando è sudato – in una tacita conferma di unità, solidale presenza di fronte a Dio e alla vita. La madre era infatti colei che alimentava la fiamma di quella liturgia domestica, che illuminava una piccola comunità tenuta insieme da lacci di affetto e di sangue. Oggi quei focolari spenti son dimora di spettri malinconici, angeli caduti, neri e tormentati.
Il cibo diventa mania, delirio di diete e ricette, vano tentativo di colmare il vuoto di una Madre assente o lontana. L’atto del mangiare, dissezionato con cura morbosa nei suoi aspetti igienici, digestivi, etici, estetici, esibisce una collettiva regressione orale e le sue intime contraddizioni, si fa surrogato di un ambivalente seno materno: soddisfazione e angoscia, veleno e medicina.
La cucina, svuotata della presenza materna e delle sue voci domestiche, diventa un’accademia del cibo, si addobba di ragioni scientifiche che ne coprono il senso profondo. Ostenta godimenti per negare una fondamentale frustrazione. Esita disorientata tra lussuria e ascetismo, tra il cilicio e la libido. Si fa esibizione narcisistica di un’arte e dei suoi virtuosismi. Diventa torneo gastronomico in cui gli sfidanti sembrano competere tra loro mentre in realtà s’affannano a esorcizzare i fantasmi della Nutrice.
Sacerdote di questi pasti totemici è lo chef, vicario di una Grande Madre, reliquia di tutte le mamme del passato, riflesso, e di fatto profanazione, di una divinità dalle mammelle turgide e insieme paurosamente fallica. Ministro di cerimonie iniziatiche cui gli orfani smarriti accorrono, umiliandosi, sottoponendosi a rituali castrazioni, a interiori mutilazioni, pur di riappropriarsi di quel sapere che mamme e nonne di un tempo concedevano assai più benignamente.
Come afflitti da una cronica dispepsia, questi rigurgiti di un’umanità derelitta stanno lì, in attesa dell’illuminazione, nell’attesa che un guru stellato trasmetta loro un magico potere, non importa se con materni consigli o tirandoli come asini, a colpi di randello. Perennemente affamati, perché la loro è fame d’altro, e non potrebbe saziarla il mitico Bengodi, con montagne di parmigiano, vigne legate con salsicce, maccheroni e ravioli in brodo di capponi. Nessuna traboccante cornucopia li potrebbe guarire dalla nostalgia di un vero focolare. Nessuna orgia del palato potrebbe ridar loro quell’ingrediente essenziale, ossia il lievito di un’antica madre, col suo caratteristico odore.
V – Madre e tecnica
Questo non significa che una mamma debba essere una cuoca eccezionale. Ma è l’unico essere al mondo, oltre il nostro cane, che può amarci veramente, con la stessa mescolanza irrazionale di fedeltà e devozione, ammirazione e spirito di sacrificio. Anche se, bisogna ammetterlo, l’amore di una mamma per il figlio, a differenza di quello di un cane, non è mai del tutto incondizionato. Una madre si aspetta sempre qualcosa in cambio, sul piano morale e sentimentale. Il suo amore è in realtà uno strano, ambiguo groviglio di emozioni.
A volte penso che ogni mamma provi inconsciamente un rimorso nei confronti del figlio, si senta colpevole per averlo trascinato in questo mondo di dolore, esposto a mille pericoli, a difficoltà d’ogni genere. Certo, non è colpa sua, è la vita. Ma lei ha fornito il canale lungo il quale, venendo da un etere beato, un’anima è caduta in questa valle di lacrime. Perciò, per sgravarsi la coscienza, lega il figlio a sé con un debito inestinguibile, soffrendo per lui, dedicandogli costanti premure e un’assillante protezione.
Purtroppo, il destino di una mamma è sbagliare. Lei che voleva evitare i tragici errori di sua madre, alla fine ne commette altrettanti, alcuni perfettamente identici, altri squisitamente originali. I manuali, i corsi, i programmi educativi, con la fragilità delle loro teorie, non fanno che indurla a commettere errori ancora più gravi. Le fanno perdere anche quella innata dotazione di saggezza a priori che la natura le concede. Perché non esiste una tecnica per esser buone mamme, mentre ne esistono molte per diventare cattive madri.
D’altro canto, una mamma non possiede l’istinto infallibile di un cane, solo un vacillante intuito umano e, per quanto annusi e fiuti, si smarrisce tra i sentieri dell’impossibile arte di tirar su un figlio. È lì, col figlio, davanti al mare della vita, e non sa che fare. Se usa il bastone sbaglia, e sbaglia se usa la carota. Se è troppo severa o protettiva ci rende timidi e inibiti. Se lo è troppo poco finirà col fare di noi dei lavativi o degli scavezzacollo. L’aurea via di mezzo non la troverà mai, neppure dopo tanti anni. Infine si rassegna, e capisce che non è merito suo se il figlio è un genio, né colpa sua se è un idiota o un criminale. Che non è lei a deciderne il destino.
Soprattutto, sa bene che il suo cuore è una locanda di passaggio, da cui il figlio prima o poi uscirà, andandosene per la sua strada, mostrandole la stessa riconoscenza che mostra per l’aria che respira. Ma di questa ingratitudine la ripagavano un tempo la poesia, la retorica dell’esser madre. Ora anche la tradizionale nobiltà del suo ruolo le è negata. Anzi, è accusata di crimini contro l’umanità, processata per intere generazioni di figli mal cresciuti.
Scalzata dal suo altare, sottratta a ogni venerazione, a ogni ingenua idealizzazione, diventa semplice rotella di un ingranaggio economico, preda succosa del mercato, icona della pubblicità. Ieri luogo benedetto di concepimenti naturali, oggi grembo profanato, crocevia di paradossali fecondazioni. Privata anche della sua irriducibile unicità. A quanto pare, infatti, nulla potrà impedire che un bambino abbia in futuro un numero variabili di mamme, donne che a vario titolo han contribuito a farlo nascere o l’hanno adottato.
“Mater semper certa” o “di mamma ce n’è una sola” diverranno dunque locuzioni anacronistiche. Non potremo più dire in che consista esattamente la maternità. Il latte materno verrà sostituito da liquidi sintetici. Le madri saranno sintetiche anch’esse, figure senza nessi naturali col cosiddetto figlio. Potranno dirsi ‘mamma’ donne sposate con altre donne o un uomo sposato con un uomo, secondo combinazioni cui solo la fantasia può porre un limite. Infine, ‘mamma’ sarà forse il nome di una fredda matrice meccanica, cui sarà delegata la gestazione della vita.
L’antitesi della Natura non è infatti lo Spirito ma la Macchina. E solo la nostra follia, dopo aver stuprato la madre terra e averne fatto saccheggio, dopo aver sottomesso la natura con la violenza della tecnica, poteva concepire il paradosso di ripararne la verginità con l’uso di altre macchine. L’umanità sembra quindi condannarsi da sé, perché ancora non sa fermarsi e chiedere perdono per quello che ha fatto. Soprattutto non sa che la Madre è pronta a perdonarla.
L’uomo contemporaneo preferisce inseguire il sogno di realtà virtuali, di intelligenze artificiali, perdersi nelle cavità di grembi informatici e tra viluppi di algoritmi. La Mater diventa così un ostacolo molesto, che intralcia un delirio di astrazione e risveglia nell’uomo il reale, il corporeo, il concreto. La madre è il luogo dove il Verbo e la Carne si uniscono. La società moderna, nella sua vasta congiura contro il naturale, deve dunque sostituirla con surrogati e artefatti tecnologici. Se tale disegno avrà successo, verremo infine concepiti in laboratori, alloggiati in uteri artificiali, nutriti, allevati, educati, amati artificialmente.
Presumo quindi che la stessa parola ‘mamma’ verrà archiviata e sostituita con vocaboli più asettici, che non grondino perniciosi condizionamenti culturali. Diremo ‘genitore 2’, o meglio ancora g2, per evitare allusioni di genere. Ma perché non g1? Ogni definizione determina una discriminazione. Quindi, per esser politicamente corretti ed evitare termini compromettenti, osserveremo un rispettoso silenzio. Abolita ogni retorica celebrazione della madre e del fanciullo, ogni festa della mamma, le sostituiremo con la Giornata del Nulla.
Si dice che in punto di morte venga spontaneo invocare la mamma. Mi chiedo quale parola, in futuro, salirà sulle labbra dei morenti.