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Massimo Fini, l’antimoderno

di Luigi Iannone - 06/12/2016

Massimo Fini, l’antimoderno

Fonte: Luigi Iannone

Un tempo si sarebbe detta ‘opera omnia’ ma trattandosi di Massimo Fini, uno allergico a tutte le convenzioni, abbiamo l’obbligo di non confinare quest’ultimo volume (La modernità di un antimoderno. Tutto il pensiero di un ribelle) nel magma indistinto della nostra editoria. Anche perché, utilizzando canoni e modelli a lui inadatti, rischieremmo di avvertire quel fetore di muffa che ricopre tanta parte della saggistica contemporanea ed insieme avremmo la sensazione di sfogliare uno di quei libracci che, di tanto in tanto, le case editrici tirano fuori per rispolverare cataloghi inflazionati, per regalare una parvenza di grandiosità o per ricavarne utilità commerciale.

Massimo Fini si muove invece su corde inconsuete per molti, anche se possiede due caratteristiche manifeste anche agli occhi più disattenti e che sono nel contempo pregi e difetti. Egli non è una sorta di ‘anarca jüngeriano’ che percorre il sentiero che conduce al bosco, pur essendo uno che legge la realtà da visioni prospettiche diverse da quelle della maggioranza della persone. Non è un ‘anarca’ perché nella sua vita giornalistica e di scrittore ha affrontato tutti i temi, da quelli più articolati e complessi a quelli legati di costume o ai fatti della politica ed è entrato in essi scegliendo da che parte stare. Ma è un visionario perché quasi sempre ha assunto posizioni che definirle meramente anticonformistiche sarebbe irrispettoso. E poi l’anticonformismo è oramai diventata moda di massa, una sorta di atteggiamento estetico. Molti infatti si prestano a ossessive comparsate televisive, oramai solluchero per giovani giornalisti à la page e in carriera, e vecchi rintronati tromboni che, in fondo, poco sanno e contro nulla e nessuno hanno voglia di battersi.

Quando Fini assume invece posizioni del tutto contrarie a quelle del mainstreamsull’Islam, sul nostro rapporto con quel mondo, quando elogia il Mullah Omar, quando critica ferocemente il progresso, in specie quello tecnologico, lo fa scrivendo libri e articoli. Mettendo cioè nero su bianco impressioni ed idee in modo che restino marchiate a fuoco nella temperie degli anni e non possano sbiadirsi o cadere nell’oblio come, appunto, accade per i tanti che rincorrendo notorietà mediatica e qualche gettone di presenza sono pronti a sostenere tutto e il contrario di tutto appena cambia il vento.

Ecco, se dovessimo definire Massimo Fini, potremmo spiegarlo proprio attraverso questa metafora: una barca che naviga contro vento ma che, come dicevamo, non è mai in alto mare. Perché Fini non si è mai allontanato dal dibattito pubblico isolandosi in un eremo. E questo atteggiamento lo ha portato ad afferrare tutte le questioni più delicate ma soprattutto a ‘sporcarsi le mani’ nella carne viva del dibattito culturale. Possono esserci di monito molte sue ‘profezie’ ma il rischio, da parte sua, è stato ed è anche quello di veder smentite dai fatti talune sue asserzioni. Cosa che è accaduta rarissimamente, ma che è fatto tutto umano per chi si espone con tesi minoritarie e sovvertitrici del pensiero dominante.

Nella prefazione a questo libro, Salvatore Veca lo definisce ‘osservatore esterno’ che indaga la realtà da una sorta di esilio. La mia posizione e quella di Veca sembrerebbero dunque in contraddizione. Se per esilio consideriamo il non bighellonare in misere battaglia partitiche, scendere in piazza a manifestare contro Tizio o Caio, firmare quotidianamente ‘manifesti intellettuali’ e cose del genere, allora sì, è vero: Massimo Fini vive in una condizione di isolamento. Ma isolamento che è ‘lontananza’ e non assenza; distanza dai gangli del conformismo mediatico e dalle quotidiane battaglie politico-parlamentari che non gli vieta, però, di offrire uno sguardo neutrale su tutto quanto.

Questo tomo enorme di oltre mille pagine, pubblicato da Marsilio, raccoglie gran parte della sua produzione ed è testimonianza di un percorso articolato eppure lineare. Partendo da La ragione aveva torto del 1985, si stende un filo rosso che unisce tutti i suoi scritti e pone come base di partenza la resistenza nel conteggiare l’Illuminismo, e tutti i capisaldi culturali ed etici che da esso discendono, come fondamento positivo del nostro tempo. In ciò rientrano le sue posizioni ‘alternative’ sulla economia, sulla pretesa totalitaria dell’Occidente di ergersi a cultura dominante e superiore rispetto a tutte le altre, su un modello di civiltà che offre felicità a buon mercato ma è percorsa da nevrosi ed è sempre più imbottita di psicofarmaci.

Ecco perché Fini, pur non essendo un reazionario, prende di petto tutte quelle che agli occhi dei conformisti del pensiero unico sono ossessioni da retrogrado ‘codino’. Il fatto che egli consideri marxismo, liberalismo e positivismo marchi distintivi di un forzato e monodirezionale sviluppo della civiltà che si è arresa senza condizione alla scienza e alla tecnologia e al Dio Mercato, lo pone senza appello dalla parte dei cosiddetti antimoderni. Ma non è il classico reazionario perché non volge lo sguardo al passato ma piuttosto si scaglia contro una Modernità che non ha mantenuto le promesse; contro un progresso civile che ci ha fatto avanzare in molti campi ed arretrare in altri.

Se pensiamo solo alla lunga ed ininterrotta sequela di innovazioni tecnologiche che mentre risolvono taluni problemi, ne generano altri con effetti perversi e devastanti, possiamo tracciare una lunga serie di esempi da cui i suoi scritti si sono alimentati. Eppure, se non è possibile considerarlo un reazionario in senso tecnico, possiamo farlo ampliando l’analisi su tutta la sua opera che non raramente mette in confronto il nostro tempo con l’ancien régime o altre epoche passate, senza però restarne mai imprigionato. Quando parla di qualità della vita, per esempio, non cade nel tranello. Non indugia su evidenti fattori positivi come la velocità delle comunicazioni, la comodità delle nostre case, lavori sempre meno faticosi (ed allo stesso tempo immateriali) ma fa riferimento alla perdita di senso, alla assoluta mancanza di sensibilità comunitaria dispersasi oramai in un individualismo esasperato ed esasperante. Insomma, non demolisce riprendendo antichi moniti del tipo: ‘si stava meglio quando si stava peggio’. La sua è battaglia spirituale e culturale.

Fini ci racconta in maniera asettica dei guasti che si accumulano e che modellano una civiltà fatta di automi. Il suo è uno sguardo ‘diverso’ perché <<se si guardano le cose non a mesi o ad anni ma con un minimo di prospettiva non c’è dubbio che al fondo di questa folle corsa, iniziata tre secoli fa, c’è la catastrofe e, quel che è peggio, che la catastrofe non può essere evitata perché la corsa non può più essere fermata. Io vedo l’uomo tecnologico scendere una rapidissima strada in sella ad una splendente bicicletta senza freni. (…). Ad un certo punto la natura di libererà con uno scrollone di questo tumore del creato che è diventato l’uomo>>.

Questo è il punto angosciante. Indietro non si torna, come vorrebbero i reazionari, ma sappiamo quasi per certo che andando avanti andremo a sbattere