Medio Oriente: la guerra dei 70 anni senza fine
di Luigi Tedeschi - 24/10/2023
Fonte: Italicum
L’ “effetto sorpresa” dell’azione di Hamas suscita non poche perplessità. Si ripropone dunque in Medio Oriente lo scenario dell’11 settembre? La politica di Israele si è da sempre prefissa la progressiva espulsione della popolazione araba dai territori occupati e ciò rende la pace impossibile. L’era del mondo post – Guerra fredda è ormai giunta al termine ed il mito di una superpotenza americana che incarnasse la fine e/o il fine della storia è tramontato.
L’11 settembre del Medio Oriente e lo spettro iraniano
Il conflitto israelo – palestinese a Gaza è una ulteriore fase di quella che Limes ha definito la “Guerra Grande”. E’ in corso una ridefinizione dell’ordine geopolitico mondiale, a seguito del declino del primato globale americano, che tuttavia non darà luogo ad uno scontro diretto tra le maggiori potenze mondiali, né ad un confronto bipolare simile a quello della Guerra fredda, ma alla conflagrazione di conflitti in varie aree regionali, con il coinvolgimento più o meno indiretto dell’Occidente e delle nuove potenze emergenti.
Il verificarsi di una nuova crisi in Medio Oriente era peraltro prevedibile. E’ comunque errato ritenere Hamas l’unico responsabile dell’attacco a Israele denominato “Al-Aqsa Flood”. Si è infatti costituito da tempo nell’area mediorientale un asse unitario della resistenza, che comprende ben 12 gruppi diversi, tra cui si è istaurata una convergenza di comuni obiettivi strategici.
L’attacco di Hamas è stato attuato in una fase di debolezza interna di Israele, dilaniato dalla contrapposizione tra ebrei ortodossi, che sostengono il governo Netanyahu e l’opposizione laica israeliana: una conflittualità profonda, destinata ad incidere sugli stessi principi identitari dello stato ebraico.
L’azione di Hamas ha fatto inoltre tramontare la prospettiva dell’accordo mediato dagli USA che prevedeva il riconoscimento di Israele da parte dell’Arabia Saudita. Tale accordo prevedeva anche una soluzione della questione palestinese concordata con l’Arabia Saudita, che avrebbe assunto il ruolo di garante della governance dei territori occupati. Trattasi quindi di accordi stipulati tra le parti nel totale disconoscimento della volontà del popolo palestinese, privato del diritto di decidere del proprio destino. Afferma Alberto Negri nell’articolo “Basta retorica, trent’anni dopo Oslo”, pubblicato su “Il Manifesto” dell’08/10/2023: “E soprattutto emergeva una domanda: cosa ne pensano i sia pure assai divisi palestinesi? La loro opinione che fossero di Gaza o della Cisgiordania dei territori ancora occupati in violazione del diritto internazionale, non era contemplata. Perché? Perché in Medio Oriente è importante non chiedere la loro opinione, ma costruire la narrativa che deve portare una parte politica, un avversario o un nemico alla resa o al consenso, senza troppo discutere. Prendere o lasciare. Ed ecco che il coro europeo segue, privo di un copione, di conoscenze, persino di buonsenso. Poi chiedetevi perché fuori c’è, ancora, la guerra”. Questa guerra segna la fine di tali trattative e il riemergere della questione palestinese nel contesto della geopolitica mondiale.
La striscia di Gaza è una prigione a cielo aperto. E’ un territorio di 360 kmq., abitato da oltre 2 milioni di palestinesi. Israele dispone del Mossad, uno dei servizi di intelligence più efficienti del mondo. Gaza è circondata da una barriera di 64 km., alta 6 metri, dotata di sistemi di sorveglianza elettronica che non ha eguali al mondo. Risulta inoltre che Israele fosse stata preavvertita dall’intelligence egiziana dell’imminente attacco. Pertanto, l’ “effetto sorpresa” dell’azione di Hamas suscita non poche perplessità. Occorre inoltre rilevare che Hamas, quale movimento di ispirazione islamica ostile all’OLP, fu apertamente sostenuto da Israele, al fine di dividere il fronte palestinese. Allo stesso modo in cui gli USA sostennero Al Qaeda nella guerra in Afghanistan contro l’invasione sovietica. Si ripropone dunque in Medio Oriente lo scenario dell’11 settembre? Questa è la tesi sostenuta da Manlio Dinucci nell’articolo “L’11 settembre del Medio Oriente”: “Tutti questi fatti delineano uno scenario simile a quello dell’attacco terroristico a New York e Washington l’11 settembre 2001, quando l’intero sistema statunitense di intelligence e difesa sarebbe stato “colto di sorpresa” dall’attacco di al-Qaeda. Prove inconfutabili (ufficialmente ignorate o liquidate come “complottismo”) dimostrano che era stata una operazione attuata dalla Cia (probabilmente con la partecipazione anche del Mossad) per fare da innesco alla “guerra globale al terrorismo” con l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq e le successive guerre. Qualcosa di analogo sta avvenendo oggi in Israele, il cui intero sistema di intelligence e difesa sarebbe stato “colto di sorpresa” dall’attacco di Hamas.
Il fine strategico dell’operazione è, da un lato, quello di sterminare i Palestinesi (finora sono oltre 1500 i morti, compresi 500 bambini, e oltre 7000 i feriti) e impadronirsi dei loro territori (il comando israeliano ha ordinato l’evacuazione di oltre un milione di abitanti, oltre la metà dell’intera popolazione, dalla metà settentrionale di Gaza). Dall’altro il fine strategico dell’operazione è quello di innescare, mirando all’Iran, una reazione a catena di guerre in un Medioriente dove Stati Uniti, Israele e le potenze europee stanno perdendo terreno”.
Il fallimento geopolitico americano in Medio Oriente e Nord Africa è conclamato. L’Iraq è oggi nell’area di influenza iraniana, in Afghanistan sono tornati i Talebani, le primavere arabe sono tutte fallite, la Libia è occupata da Turchia e Russia, Assad in Siria non è stato rovesciato, la Russia e la Cina hanno esteso la loro influenza in Africa, l’Iran non è stato destabilizzato. Gli USA, estromessi dal Medio Oriente, hanno innescato il nuovo conflitto israelo – palestinese al fine di creare un casus belli che giustifichi una guerra contro l’Iran. Una guerra contro l’Iran, con l’allargamento del conflitto in Siria e in Libano è già in atto, con le stesse modalità della guerra per procura russo – ucraina, che peraltro non sembra volgere a favore della Nato.
A seguito della pace tra Iran e Arabia Saudita, realizzatasi con il patrocinio della Cina, gli USA sono stati estromessi dall’area del Golfo Persico. Attraverso la guerra all’Iran, gli USA e i suoi alleati vogliono contrastare l’influenza della Russia e della Cina nell’Asia centrale e, mediante gli accordi con i sauditi, hanno tentato di indebolire il fronte dei BRICS, di cui sia l’Iran che l’Arabia Saudita sono membri.
Una guerra contro l’Iran avrebbe effetti devastanti per l’Occidente, sia di natura economica che geopolitica. La reintroduzione delle sanzioni contro l’Iran potrebbe, con il calo delle esportazioni, determinare incontrollabili rialzi del prezzo del greggio con rilevanti nuove ondate inflazionistiche. Ma soprattutto un tale conflitto, potrebbe condurre alla chiusura dello stretto di Hormuz, attraverso il quale transita oltre ¼ del commercio mondiale di gas liquefatto. Le esportazioni di petrolio iraniane sono dirette in larga parte verso la Cina e una rilevante riduzione della produzione di greggio iraniano potrebbe coinvolgere direttamente nel conflitto la Cina stessa. Aggiungasi infine che mentre gli USA sono autosufficienti in campo energetico, l’Europa, che ha già subito un rilevante declassamento economico dovuto all’interruzione delle forniture di gas russo, a seguito delle sanzioni andrebbe incontro ad una crisi strutturale devastante, che ne determinerebbe l’implosione interna.
La pace impossibile e l’ipocrisia dell’Occidente
Il conflitto in atto non è che una fase di una guerra iniziata da 70 anni, cioè dalla nascita di Israele. Ne sono la conferma le parole di Ben Gurion, uno dei padri fondatori di Israele: “Ci sono stati l’anti- semitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma loro [gli arabi] in questo cosa c’entravano? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo rubato il loro paese. Perché dovrebbero accettarlo?”… “Tra di noi non possiamo ignorare la verità […] Politicamente noi siamo gli aggressori e loro si difendono […] Il paese è loro, perché essi lo abitavano, dato che noi siamo voluti venire e stabilirci qui, e dal loro punto di vista li vogliamo cacciare dal loro paese”.
Israele, dal 1947 ad oggi, ha sempre disatteso tutte le risoluzioni dell’ONU. Vogliamo citare in particolare la risoluzione 3236/74 che sanciva il diritto dei palestinesi all’indipendenza e la risoluzione 3379/75 che definiva il sionismo come una “forma di razzismo e discriminazione razziale”.
Nel 1993, a seguito degli accordi di Oslo, furono stipulate intese che stabilivano la costituzione dell’ANP, che avrebbe assunto l’autogoverno della Cisgiordania e di Gaza, in vista della costituzione di uno stato palestinese che a sua volta avrebbe dovuto riconoscere lo stato di Israele. Tali accordi furono disattesi da entrambe le parti. La Knesset ratificò l’intesa con una ristretta maggioranza e tali accordi costarono la vita al premier Yitzhak Rabin, che fu ucciso nel 1995 da un estremista ebraico. In campo palestinese gli accordi non furono riconosciuti da Hamas, dal Jihad islamico in Palestina e dal FLP. L’ANP presieduta da Abu Mazen è oggi disconosciuta dal popolo palestinese e del tutto ignorata da Israele. L’ANP non può infatti rappresentare legittimamente i palestinesi, in quanto è dal 2006 che, a seguito della vittoria di Hamas, non sono più state indette elezioni.
Con gli “Accordi di Abramo” fu raggiunta un’intesa che prevedeva la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati Arabi e Bahrain, cui si aggiunse poi il Marocco. L’accordo tra Israele e gli stati arabi del Golfo, fece seguito all’ “accordo del secolo” già proposto da Trump all’inizio del 2020. Il progetto trumpiano per la risoluzione del conflitto israelo – palestinese fu predisposto a seguito della decisione di Netanyahu di estendere la sovranità israeliana ai territori della Valle del Giordano. La piattaforma di accordo americana prevedeva che Gerusalemme venisse proclamata capitale “indivisibile” di Israele, mentre la capitale del futuro stato palestinese sarebbe stata collocata nelle zone di Gerusalemme est. Era peraltro prevista la creazione di uno stato palestinese costituito da varie enclavi in territorio israeliano, oltre che dalla striscia di Gaza. I collegamenti e le frontiere dello stato palestinese sarebbero rimasti sotto il controllo militare israeliano. Lo stato palestinese non avrebbe potuto disporre di armamenti propri né avrebbe avuto la possibilità di stipulare accordi internazionali senza il consenso di Israele, che invece avrebbe avuto il potere di smantellare impianti e strutture ritenute “ostili”, onde preservare la smilitarizzazione della Palestina. Un accordo quindi stipulato con l’esplicito obiettivo di porre fine a qualunque aspirazione all’indipendenza dei palestinesi. La pseudo-patria palestinese sarebbe stata frammentata in una serie di enclave simili alle riserve degli indiani d’America.
I recenti tentativi di intesa tra Arabia Saudita e Israele su iniziativa degli USA erano destinati al fallimento, a prescindere dallo scoppio dell’attuale conflitto. Per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, quest’ultima ha posto le seguenti condizioni: la possibilità dello sviluppo del nucleare civile, un patto di alleanza difensiva con gli USA (una sorta di Nato bilaterale), oltre a significative e concrete concessioni ai palestinesi da parte di Israele. Condizioni inaccettabili sia da parte israeliana che americana. Inoltre, con l’ingresso nei BRICS, l’Arabia Saudita vuole salvaguardare il suo rapporto con la Cina, riguardo all’export di greggio e alle trattative già in atto con i cinesi per la partecipazione nello sviluppo del suo programma nucleare civile.
Appare evidente che la pace nell’area nessuno l’ha mai voluta. Israele per 70 anni ha praticato una politica finalizzata allo sradicamento della popolazione palestinese dall’area, con ripetuti espropri di terre, villaggi bruciati, attacchi ai campi profughi, incarcerazioni illegali. Dal 2008 al 2020 sono stati uccisi 5.600 e feriti 115mila palestinesi. Israele inoltre, in aperta violazione del diritto internazionale, ha perseguito la politica degli insediamenti nei territori occupati. Nel giugno 2023 il governo Netanyahu ha annunciato la costruzione di 5.700 nuove case per i coloni in Cisgiordania. I nuovi insediamenti nel solo 2023 saranno oltre 13mila. L’attuale governo ha in programma di far raddoppiare la popolazione dei coloni in Cisgiordania da 500mila a 1 milione.
L’ipocrisia occidentale si manifesta nel riproporre la soluzione “Due popoli due Stati”, che nella realtà è impossibile. Uno stato palestinese costituito dalla Cisgiordania e Gaza sarebbe un territorio sovrappopolato, privo di risorse proprie e dipendente da Israele per le forniture idriche. Si rileva inoltre che, oltre ai massicci insediamenti dei coloni in Cisgiordania, Israele ha innalzato in questo territorio e a Gerusalemme una “barriera di separazione” di 730 km. che comprende larga parte delle colonie israeliane e la quasi totalità dei pozzi d’acqua. In realtà i palestinesi vivono in un regime di segregazione razziale. Gli insediamenti e il “muro di separazione razzista” sono atti che hanno reso lo stato di occupazione israeliana irreversibile e impossibile creazione di uno stato palestinese. La politica di Israele si prefigge la progressiva espulsione della popolazione araba e ciò rende la pace impossibile. Potranno riproporsi prospettive di pace solo nel contesto di radicali mutamenti dell’ordine geopolitico mondiale, oggi dominato dall’unilateralismo americano.
Il ritorno della “guerra santa”
Il regime di apartheid imposto dall’occupazione israeliana e una vita di stenti senza prospettive, hanno esasperato il popolo palestinese, che, sentendosi tradito dalla ipocrisia e dalla viltà dell’Occidente e dei paesi arabi, è stato indotto ad identificarsi nella fede islamica. In questo contesto si sono affermati i movimenti islamici, con le relative derive estremiste. Oggi, l’aspirazione ad uno stato palestinese indipendente è indissolubilmente legata alla identità culturale e spirituale islamica.
La stessa società israeliana è pervasa dalla deriva estremista degli ebrei ultraortodossi. La Knesset nel 2018 ha approvato la legge che definisce ufficialmente lo stato come “la casa nazionale del popolo ebraico“, relegando gli abitanti di Israele appartenenti ad altre etnie al rango di cittadini di serie “b”. La politica israeliana è sempre più improntata ad un estremismo religioso, che persegue, come finalità ultima, la graduale pulizia etnica nei confronti delle minoranze arabe.
La contrapposizione religiosa ha provocato quindi la radicalizzazione del conflitto. La guerra attuale assume pertanto i connotati di una “guerra santa”, di una guerra cioè estranea alle norme del diritto internazionale, in cui non si conferisce alcuna dignità umana al nemico e si concepisce il conflitto bellico come strumento di sterminio degli infedeli. Tale concezione è ben delineata da Danilo Zolo nel saggio “Una «guerra globale» monoteistica”: “La «guerra santa» non è una guerra come le altre, combattuta per interessi e obiettivi particolari: è una guerra «teologica» e «salvifica» e come tale non è sottoposta a limiti di carattere morale o giuridico. La sconfitta del nemico, la distruzione delle sue città, delle sue mandrie e dei suoi campi, lo sterminio della popolazione, nessuno escluso, la mutilazione dei cadaveri, sono gesti sacri che adempiono un disegno divino. Lo spargimento del sangue di nemici è il sigillo sacrificale che, attraverso la mediazione di Mosè e gli altri capi ebrei, lega Jehovah al suo popolo e viceversa”.
In tale ottica vanno anche interpretate le guerre americane volte ad annientare lo “stato canaglia” o il nemico assoluto di turno. Del resto, i principi fondativi degli Stati Uniti hanno radici teologiche veterotestamentarie al pari di Israele. Tra USA ed Israele esiste una perfetta simbiosi.
E’ una costatazione evidente che la supremazia globale americana ha comportato, con la riviviscenza della “guerra santa”, un regresso dell’umanità ai tempi bui delle guerre di religione, annientando secoli di quella cultura umanistica che era parte integrante dell’identità europea. Ma, alla luce degli sconvolgimenti geopolitici attuali, nessuno in Occidente riesce a prefigurare degli obiettivi strategici e politici da cui possa scaturire un nuovo ordine geopolitico mondiale. Gli USA sono dilaniati da una profonda conflittualità interna, che potrebbe condurre alla destrutturazione delle istituzioni e ad un sempre più marcato depotenziamento del ruolo di dominio politico ed economico dell’Occidente nel mondo. Dalla crisi esistenziale che pervade l’Occidente, emergono chiari i sintomi di una civiltà in progressiva decomposizione.
La fine della deterrenza armata e del mito della superpotenza americana
Il declino dell’Occidente deriva dalla perdita di credibilità del potere di deterrenza americano. L’unilateralismo americano si è rivelato privo di strategia geopolitica e basato unicamente sulla sua potenza militare incontrastata. La superpotenza americana si è imposta come dominio universale teso ad americanizzare tutto il mondo.
Le sconfitte americane in Medio Oriente e Nord Africa, sono la chiara dimostrazione dell’incapacità americana di instaurare nuovi equilibri politici nelle aree di conflitto. La deterrenza americana si è dimostrata efficace nel contrastare l’URSS nel mondo bipolare della Guerra fredda, ma si è rivelata del tutto inadeguata al contenimento delle nuove potenze emergenti, quali la Cina, la Russia, l’Iran. L’era del mondo post – Guerra fredda è ormai giunta al termine ed il mito di una superpotenza americana che incarnasse la fine e/o il fine della storia è tramontato.
Con l’azione di Hamas è venuto meno anche il mito dell’invincibilità di Israele. L’effetto sorpresa ha avuto conseguenze traumatiche per l’intero Occidente. Per troppo tempo in Occidente, l’arroganza americana, unitamente alla ignavia colpevole dell’Europa, hanno nutrito l’errata illusione che la politica aggressiva di Israele, con la progressiva espulsione dei palestinesi dai territori occupati, avrebbe condotto alla rimozione della causa palestinese dalla geopolitica mondiale.
La causa di tale “effetto traumatico” secondo Lucio Caracciolo: “Consiste nella visione puramente tecnologica ormai prevalente nell’intelligence, quasi che si trattasse di mettere in un contenitore la maggior parte possibile di segnali elettromagnetici provenienti dal campo interessato. La cosiddetta «intelligence dei segnali», trascurando completamente la parte umana. Due intelligence complementari, ma se tu ti preoccupi unicamente di raccogliere delle informazioni per via elettronica o con altri magheggi tecnologici, ma non hai la più pallida idea di che cosa vogliano fare i tuoi avversari, con gli strumenti che tu hai stabilito abbiano, sei solamente a metà del guado. Bisogna ricominciare a pensare dentro al nemico, bisogna ricominciare a pensare con l’anima del nemico, bisogna cercare di mettersi nel cuore e nella mente di chi potrebbe attaccarci e non semplicemente affidarci alla pura quantità delle informazioni. L’intelligenza non è artificiale”. Questa deriva tecnocratica è rivelatrice della incapacità dell’Occidente di concepire l’esistenza dell’ “altro da sé” e tanto meno comprendere le ragioni dell’avversario.
I principi fondamentali dell’agire politico sono ormai scomparsi dalla cultura occidentale. L’Occidente infatti si arroga l’antistorico diritto di rappresentare se stesso come l’unico ordine politico ed economico legittimo per l’intera umanità.
Solamente da un ridimensionamento drastico della potenza americana (e israeliana), potrà scaturire un nuovo ordine mondiale multilaterale, basato su un equilibrato confronto tra i principali attori della geopolitica mondiale, che possa garantire un ordine internazionale stabile e duraturo. Le velleità aggressive dell’Occidente americano hanno avuto l’effetto di rafforzare il gruppo dei BRICS, in particolare l’asse tra l’Iran e la Cina. Nessun paese esterno all’Occidente ha condannato l’azione di Hamas se non con la contemporanea condanna dei bombardamenti israeliani a Gaza. Sono ormai maturi i tempi per l’avvento di un nuovo mondo multilaterale, in cui i principali attori geopolitici saranno la Cina, la Russia, l’India, l’Iran. Quei paesi cioè, che non hanno sciolto la loro identità nell’acido globalista occidentale.