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Nella società ipercomplessa, la strategia è saltare le separazioni

di Piero Dominici - 23/11/2017

Nella società ipercomplessa, la strategia è saltare le separazioni

Fonte: Vita

Non possiamo più accontentarci di formare tecnici: abbiamo un disperato bisogno di figure con una preparazione ampia e articolata, che riescano a coniugare la formazione scientifica e quella umanistica. Sapendo mantenere la prospettiva sui sistemi e sull’insieme. Piero Dominici spiega come - ma soprattutto perché - ripensare dei nostri sistemi formativi per gestire le sfide della complessità. A cura di Sara De Carli 

Ci sono intellettuali che hanno la capacità di sintetizzare le loro riflessioni in definizioni icastiche. Piero Dominici è uno di quelli. È docente universitario e formatore professionista, insegna Comunicazione pubblica e Attività di Intelligence e interesse nazionale presso l’Università degli studi di Perugia, è Visiting Professor presso l’Universidad Complutense di Madrid e ha un blog su Nòva de Il Sole 24 Ore, dal titolo “Fuori dal Prisma”. Il professore nel numero del magazine di giugno si è confrontato con noi sui temi del lavoro e del mismatch, della preparazione dei giovani, di come scuola e università debbano cambiare non tanto per stare al passo di ciò che il mercato del lavoro chiede ma per stare al passo di una realtà nuova, segnata dall'ipercomplessità.

Una manciata di sue frasi sono già spunto per tanti pensieri: «Dobbiamo insegnare a vedere, osservare e interpretare gli "oggetti" come "sistemi" e non viceversa i sistemi come oggetti» oppure dobbiamo «ricomporre la frattura tra l'umano e il tecnologico». O ancora: «Tutti oggi parlano di competenze e di “saper fare”, ma il “saper fare” senza il “sapere” ci porta a “fare le cose” come sono sempre state fatte, perché farle in quel modo ha funzionato e continua a rassicurarci di fronte all’imprevedibilità ed all’indeterminatezza del reale». Ma anche «nella società ipercomplessa non sono più sufficienti il "sapere" o il "saper fare": dobbiamo "sapere", dobbiamo "saper fare", ma dobbiamo anche "saper comunicare il sapere" e "saper comunicare il saper fare"». Il futuro, per il professore, «è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l'umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali». E la sola citazione che si concede, in questa lunga intervista, è preziosa: «Max Weber diceva che il mercato, se lasciato alla sua autonormatività, conosce soltanto una dignità della cose e non una dignità della Persona. Questa è la sfida ulteriore. Ecco perché è necessario e urgente mettere mano all’educazione e alla formazione».

Il succo potrebbe anche essere qui, ma fermarsi qui sarebbe davvero un peccato. Perché per capire come devono cambiare istruzione e formazione per rispondere alle sfide di una società ipercomplessa bisogna partire dall’inizio, dal comprendere perché devono cambiare.

 

Professore, cominciamo dall’inizio: gli esperti dicono che siamo in un’epoca nuova, che non si è mai vista nella storia. Non si tratta solo di cambiamenti rapidi, ma del fatto ad esempio che siamo per la prima volta in un’epoca sviluppo esponenziale, non più lineare. Per questo ci dicono che per governare i processi di questa epoca nuova serve un cambio di paradigma. Ma che cos’è esattamente la novità della nostra epoca? Che cos’è l’ipercomplessità?

Piero Dominici

Possiamo partire dal presupposto che la complessità è una caratteristica strutturale/connaturata ai gruppi umani, alle relazioni, al sistema sociale, persino al mondo biologico e degli oggetti, pur se con alcune differenze. Per ciò che riguarda il mondo degli oggetti, potremmo parlare di sistemi complicati più che complessi, dal momento che siamo in grado di scomporne e analizzarne le parti per comprenderne il comportamento e il funzionamento. Si tratta di fenomeni e processi sostanzialmente lineari e, in qualche modo, prevedibili e replicabili. La complessità che riguarda, in modo particolare, la società, le organizzazioni e i gruppi umani (con qualche sfumatura, anche i sistemi biologici) è una complessità del tutto particolare, perché non riconducibile né interpretabile sulla base di modelli lineari (causa-effetto, stimolo-risposta). Si tratta, pertanto, di una complessità imprevedibile - la questione della prevedibilità, non soltanto dei comportamenti umani, sociali, culturali è cruciale e strategica (i modelli culturali servono anche a questo) – e non replicabile (la replicabilità, come noto, è requisito importante per la scienza e per poter anche soltanto parlare di “scientificità”) di cui dobbiamo osservare e comprendere soprattutto i molteplici livelli di connessione tra i processi e tra le parti/gli oggetti stessi e, per farlo, abbiamo bisogno di una visione sistemica dei processi, dei fenomeni e delle dinamiche: visione sistemica che comporta un modo completamente differente di osservare gli “oggetti”. Non solo osservare l’insieme e il tutto, consapevoli, in ogni caso, che il tutto non è mai la somma e/o la totalità delle parti.

Ma c’è un ulteriore elemento di complessità: il fatto cioè che siamo di fronte a sistemi complessi adattivi, capaci di modificarsi per soddisfare nuove condizioni e/o requisiti. Sono sistemi le cui parti costituenti non sono “inanimate”, passive, neutrali, reagenti soltanto a certi stimoli in maniera prevedibile; sono individui, entità, relazioni che costantemente contribuiscono a cambiare e a co-creare le condizioni dell’interazione, dell’ambiente di riferimento, dell’ecosistema di cui fanno parte. Se osserviamo una organizzazione sociale, ma anche semplicemente un insieme o un gruppo di persone, non solo la totalità delle persone non costituisce il tutto, non solo non potrò capire le dinamiche di quel gruppo isolando le persone o circoscrivendo il campo di osservazione; ma dovrò prendere atto che quelle stesse persone/individui/entità costantemente contribuiscono a modificare - o a co-creare, co-costruire – l’ambiente sociale in cui sono immerse. E la mia stessa presenza, la mia stessa osservazione modifica le condizioni e i livelli di interazione, scambio, condivisione. Se voglio davvero osservarne e comprenderne le relazioni e le dinamiche in continua evoluzione, devo osservare l’insieme, la globalità, le connessioni, le relazioni sistemiche. Necessario - oltre alla visione sistemica, cui si è accennato - un approccio interdisciplinare e multidisciplinare. Perché sono gli “oggetti”, le variabili, le tipologie di connessioni a richiederlo!

 

Nll’attuale fase di mutamento globale, il passaggio dalla complessità alla ipercomplessità è determinato da due “variabili” complesse: la prima, è l’innovazione tecnologica, in particolare la cosiddetta rivoluzione digitale che, a differenza di altre fasi di rivoluzione industriale, introduce una “nuova velocità”; la seconda riguarda il ruolo sempre più strategico che ha la comunicazione.

Il passaggio dalla semplicità alla complessità e dalla complessità alla ipercomplessità può essere spiegato in termini di variabili coinvolte, di concause e di parametri che noi possiamo utilizzare, dobbiamo considerare per osservare la realtà. Quindi, distinguiamo il “semplice” dal “complesso” proprio sulla base di variabili, concause e parametri coinvolti, per numerosità e qualità. Aggiungo che, nell’attuale fase di mutamento globale, il passaggio dalla complessità alla ipercomplessità è determinato, in particolare, da due “variabili” complesse: la prima, è l’innovazione tecnologica, in particolare la cosiddetta rivoluzione digitale che, a differenza di altre fasi di rivoluzione industriale, introduce una “nuova velocità” nei processi sociali, economici, culturali, che caratterizzano l’attuale mutamento; una “nuova velocità” che produce nuove criticità e problemi di controllo, come peraltro tutte le fasi di accelerazione; la seconda riguarda il ruolo sempre più strategico che ha la comunicazione, non soltanto con riferimento all’educazione ed al processo di socializzazione, ma anche nei processi di rappresentazione e percezione. Qui però serve una premessa: cosa intendiamo per comunicazione?

Che cosa è "comunicazione"?
L’ho definita, nel lontano 1996, come “processo sociale di condivisione della conoscenza”, là dove conoscenza è uguale a potere. La conoscenza è un processo sociale in cui ci sono persone in carne ed ossa con i loro profili psicologici, le conoscenze e le competenze, i loro modelli culturali; persone/attori sociali che partecipano a una dinamica estremamente complessa, una dinamica che non è assolutamente scontato vada a buon fine e porti alla condivisione di dati, informazioni, conoscenze. Non è scontato perché tante sono le variabili in gioco e le relazioni sono sistemiche. Dico sempre: comunicazione è complessità.

Sul tema fondamentale della comunicazione si continua a fare confusione: tra la comunicazione e i mezzi di comunicazione, tra la comunicazione e l’informazione, tra la comunicazione e la connessione, tra la comunicazione e il marketing. Confusione che si manifesta chiaramente anche nelle culture e nelle strategie di numerose organizzazioni complesse, sia pubbliche che private. Si tratta di una mancanza di chiarezza, che si traduce in scelte e strategie sbagliate, come, talvolta, mi confermano anche molti manager che incontro da formatore. A livello di discorso pubblico, poi, c’è molta retorica sui “grandi comunicatori”; l’impressione è che, nella maggior parte dei casi, i grandi comunicatori siano quelli che riescono a convincere, persuadere, perfino manipolare i destinatari dei loro messaggi, atteggiamenti, comportamenti. C’è una visione della comunicazione molto schiacciata sull’efficacia, il convincere, addirittura il cambiare l’altro, attraverso tecniche e strumenti sempre più sofisticati… Spesso – lo dico con rammarico e assumendomene la responsabilità - ho la netta impressione che stiamo preparando i futuri comunicatori ad essere soprattutto dei “tecnici della comunicazione” e/o – con tutto il rispetto per la figura del “venditore”- degli ottimi venditori, anche di idee e valori…

Fatta questa premessa, perché la comunicazione oggi è così determinante? 
Oltre alla sua centralità strategica all’interno dei processi educativi e formativi, nel nuovo ecosistema globale interconnesso e iperconnesso, la comunicazione o, per meglio dire, i nuovi flussi comunicativi e la “natura” dei nuovi ecosistemi comunicativi - insieme alla configurazione delle architetture dell’informazione e dei dati - costringe le comunità degli scienziati e degli studiosi, oltre che gli “esperti”, gli stessi intellettuali, ad uscire dalle loro vecchie “torri d’avorio” e a rivedere i linguaggi e le loro strategie comunicative, ripensando le priorità e anche certe urgenze… di spiegare, divulgare, perfino includere. L’interazione con la sfera pubblica è questione di vitale importanza, per troppo tempo trascurata e/o lasciata all’improvvisazione, con tutte le ricadute del caso: si tratta di uno dei “territori” complessi dove si manifesta chiaramente il nostro preoccupante ritardo in termini di “cultura della comunicazione e della condivisione” (concetti spesso usati come slogan).

 

La “natura” dei nuovi ecosistemi comunicativi costringe le comunità degli scienziati e degli studiosi, oltre che gli “esperti”, gli stessi intellettuali, ad uscire dalle loro vecchie “torri d’avorio” e a rivedere i linguaggi e le loro strategie comunicative. Allora il tema della comunicazione diventa strategico, anche, e soprattutto, a livello dei processi di rappresentazione e percezione sociale delle dinamiche intorno a noi, proprio perché la maggior parte delle esperienze che noi abbiamo, non sono esperienze dirette.

Le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche, con tutte le relative implicazioni da tempo ormai non sono più argomento e dominio esclusivo degli esperti; tali questioni, proprio per le implicazioni e l’impatto che hanno sulle vite di tutti noi, non possono più essere di loro dominio esclusivo (rischi e opportunità) e, di fatto, non vengono neanche più discusse solo dagli esperti, dai tecnologi, dagli scienziati… E allora accade che il tema della comunicazione diventi ancor più strategico: comunicazione della scienza, dell’innovazione tecnologica, comunicazione (e gestione) del rischio, dell’emergenza, della sicurezza… anche, e soprattutto, a livello dei processi di rappresentazione e percezione sociale delle dinamiche intorno a noi, proprio perché la maggior parte delle esperienze che noi abbiamo, non sono esperienze dirette.

Su questo punto, ci sarebbero da dire molte cose riguardo informazione e disinformazione, fakenews (come vengono chiamate oggi) e post-verità varie. Mi limito, in questo caso, ad evidenziare, con una certa preoccupazione, come, almeno per ora, abbiamo deciso di affidare la soluzione (?) di tutti i nostri problemi - non soltanto in materia di sicurezza e protezione - alla tecnologia ed ai dispositivi tecnologici prodotti, delegando loro anche ogni responsabilità. E, quel che è più grave, sottovalutando ancora una volta che la differenza e il valore aggiunto, nei meccanismi e nei processi sociali e organizzativi, vanno ricercati sempre nel “fattore umano” e nella qualità dello spazio relazionale e comunicativo. Nervi scoperti e autentici paradossi dell’attuale innovazione complessa e iper-accelerata. Le rappresentazioni, a cominciare da quelle mediatiche, hanno da sempre uno straordinario potere ed un ruolo decisivo nelle scelte che fanno le Persone, i cittadini, gli elettori, i consumatori. Ecco quindi i due fattori che definiscono questo passaggio a una società dell’ipercomplessità: l’innovazione tecnologica (la “nuova velocità” del digitale) e la comunicazione.

 

Noi non possiamo che registrare la complessità e la rapidità del mutamento in atto. Questa osservazione della realtà che cosa mette in evidenza? A mio avviso, prima di tutto, la sostanziale inadeguatezza della Scuola e dell’Università. E dove si annida questa inadeguatezza? Le sembrerà una risposta lontana dalla sua domanda, ma non lo è, anzi questo è il nervo scoperto: l’inadeguatezza si annida nelle logiche e nelle culture organizzative delle nostre scuole e università, che sono siao progettate e strutturate sulle “false dicotomie”

Se questo è il contesto, quali nuove competenze servono per abitarlo? Dobbiamo aggiungere competenze nuove? O come alcuni osservatori dicono, è necessario un cambio di paradigma? O più concretamente, il problema fra mondo dell’istruzione e mondo del lavoro è che i lavori cambiano rapidamente o che non sappiamo immaginare che lavori ci saranno fra cinque anni? Perché se il problema è il mismatch tutto sommato basta cambiare la velocità con cui scuola, formazione e università si adattano alla richiesta del mercato. Ma forse il problema è che non abbiamo idea della direzione a cui puntare per il cambiamento…
In una battuta, la seconda che ha detto. Noi non possiamo che osservare, registrare la complessità e la rapidità del mutamento in atto. Questa osservazione della realtà che cosa mette in evidenza? A mio avviso, prima di tutto, la sostanziale inadeguatezza della Scuola e dell’Università di fronte ad un cambio di paradigma, di paradigmi, che è sotto gli occhi di tutti. E dove si annida questa inadeguatezza? Le sembrerà una risposta lontana dalla sua domanda, ma non lo è, anzi questo è il nervo scoperto: l’inadeguatezza si annida nelle logiche e nelle culture organizzative delle nostre scuole e università. Oltre alle questioni riguardanti la governance di queste istituzioni fondamentali, non possiamo che rilevare come Scuola e Università siano progettate e strutturate su quelle che, anni fa, ho definito “false dicotomie”: natura vs cultura, l’idea che servano solo la pratica e la ricerca e la teoria non serva a nulla, mentre teoria e pratica si alimentano vicendevolmente, anzi non esiste nemmeno un’osservazione scientifica che non abbia dietro un modello teorico.

Allo stesso modo, non si può basare tutto sull’idea – diffusissima anche nel mondo della formazione - che contino solo le competenze. Tutti oggi parlano di competenze e di “saper fare”, ma il “saper fare” senza il “sapere” ci porta a “fare le cose” come sono sempre state fatte, perché farle in quel modo ha funzionato e continua a rassicurarci di fronte all’imprevedibilità ed all’indeterminatezza del reale. Le altre false dicotomie sono quelle che contrappongono specializzazione dei saperi alla complessità. Si dice che in tutti i campi, scientifici e non, andremo verso la specializzazione dei saperi, è fisiologico. Il problema è che questi saperi non li abbiamo fatti comunicare tra loro, altro che interdisciplinarità e multidisciplinarità. Invece la realtà - sulla cui base dovremmo anche cercare di definire i nuovi profili professionali - è complessa e non può essere spiegata da saperi che sono esclusivamente tecnici o esclusivamente umanistici. In passato, ho parlato, in tal senso, dell’urgenza di “ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico”. Quindi, un’altra falsa dicotomia è quella che contrappone specializzazione a interdisciplinarità, che è un’altra delle sfide fondamentali per la società interconnessa/iperconnessa, ma soprattutto per un futuro che, allo stato attuale delle cose, non siamo neanche in grado di immaginare.

 

Non si può basare tutto sull’idea, diffusissima anche nel mondo della formazione, che contino solo le competenze. Tutti parlano di competenze e di “saper fare”, ma il “saper fare” senza il “sapere” ci porta a “fare le cose” come sono sempre state fatte, perché farle in quel modo ha funzionato. Le altre false dicotomie sono quelle che contrappongono specializzazione dei saperi alla complessità. Si dice che in tutti i campi andremo verso la specializzazione dei saperi: il problema è che questi saperi non li abbiamo fatti comunicare tra loro, altro che interdisciplinarità e multidisciplinarità.

Noi oggi non possiamo più accontentarci soltanto di educare e formare tecnici, tecnologi e, per i momenti di crisi/transizione, umanisti: abbiamo un disperato bisogno di figure con una preparazione ampia e articolata, che riescano a coniugare le conoscenze e le competenze, la formazione scientifica e quella umanistica. Sapendo mantenere lo sguardo e la prospettiva sui sistemi, sull’insieme, sul globale, sul complesso che, come già detto, non corrisponde alla somma delle parti. Si può fare, ma si tratta di obiettivi di “lungo periodo” e i cosiddetti “decisori” sono, da sempre, poco interessati al lungo periodo.

Noi stiamo attraversando questa fase molto delicata in cui, pur comprendendone le logiche, l’esigenza di ripensare la formazione e l’educazione esclusivamente sulla base di dove sta andando il mercato lavoro e delle esigenze delle imprese – in ogni caso, le considero logiche di breve periodo - proprio per la velocità e l’imprevedibilità del mutamento in atto, rischia di rivelarsi assolutamente controproducente e sbagliata: assistiamo infatti ad una sempre più rapida obsolescenza delle conoscenze e delle competenze necessarie per lavorare. Numerosi sono i rapporti e le ricerche che ci dicono che non siamo in grado nemmeno di immaginare i profili futuri, richiamando l’urgenza di ripensare profondamente le nostre scuole, università, percorsi didattico-formativi.

A livello di università, queste false dicotomie vanno contrastate anche per quanto riguarda la ricerca scientifica: nel discorso pubblico, tutti parlano di interdisciplinarità, multidisciplinarità, trans-disciplinarità…ma le garantisco che l’interdisciplinarietà è assolutamente scoraggiata nell’università italiana. Le faccio un esempio: se pubblico un articolo scientifico su una rivista ad alto impact factor che però non appartiene ai miei settori disciplinari, magari con un collega di ingegneria, se la rivista scientifica è appunto di ingegneria, per il collega ai fini della carriera accademica quell’articolo varrà moltissimo, per me non varrà assolutamente nulla, al di là della soddisfazione personale. Chi insegna e fa ricerca all’università sperimenta quotidianamente la ben nota “reclusione dei saperi” e la gabbia, anche metodologica, costruita attraverso anche una certa visione dei settori disciplinari. Di fatto, questi sono vasi non comunicanti e - mi ripeto - i saperi sono stati reclusi dentro discipline sempre più chiuse, che fra loro non comunicano. Saperi autoreferenziali, non permeabili al cambiamento ed alla ipercomplessità. Mi soffermo spesso su questo aspetto così decisivo, perché veramente è il nervo scoperto che, ostacola non soltanto a livello culturale, il formarsi di una cultura dell’innovazione e di un pensiero realmente innovativo.

 

Pur comprendendone le logiche, l’esigenza di ripensare la formazione e l’educazione esclusivamente sulla base di dove sta andando il mercato lavoro e delle esigenze delle imprese, proprio per la velocità e l’imprevedibilità del mutamento in atto, rischia di rivelarsi controproducente e sbagliata: assistiamo infatti ad una sempre più rapida obsolescenza delle conoscenze e delle competenze necessarie per lavorare.

Qual è il rischio che noi corriamo se non ci decidiamo a ripensare i percorsi?
Di continuare a trovarci, fra vent’anni, ancora in una condizione di ritardo culturale, per cui continueremo a dire che l’innovazione tecnologica e digitale vanno a una velocità e la cultura non riesce a stargli dietro. Mentre quello di cui siamo poco consapevoli è che tecniche e tecnologie non sono esterne alla cultura, ma sono dentro i sistemi culturali, sono prodotti dei sistemi culturali: quello che noi dobbiamo ripensare, anche in termini di “sistema di pensiero”, è come educare e come abitare questi nuovi ambienti/ecosistemi tecnologici e comunicativi, educando e formando ad un’interazione differente anche con il mondo degli oggetti e delle cose. Nella società della conoscenza, che si baserà sempre più su professioni ad elevato contenuto conoscitivo, non è più sufficiente il sapere e il sapere fare, ma oggi noi dobbiamo sapere e saper fare, ma anche sapere comunicare il sapere e sapere comunicare il saper fare. Non si tratta di giochi di parole. Sono le traiettorie, indefinite e discontinue, del nostro futuro. Così come le dicotomie sono non soltanto false, ma falsano completamente la realtà, il nostro modo di osservarla, i nostri tentativi di comprenderla. È questo l’elemento centrale. Servono “teste ben fatte”, come diceva Montaigne, con una formazione differente e un pensiero multidimensionale, perché solo queste teste ben fatte saranno in grado di sfruttare i venti del cambiamento, e non soltanto contenerli e/o subirli.

Noi invece con questa assenza di politiche di istruzione, formazione e orientamento, ci stiamo auto-condannando a gestire i processi solo su logiche di breve periodo, quelle dell’emergenza e della risposta immediata. Noi dobbiamo invece ragionare sul lungo periodo, non orientare le politiche dell’educazione a un mercato del lavoro che è in costante evoluzione, per cui - uso un termine forte - è quasi inutile cercare di costruire dei profili che ne incontrino, fino in fondo, le esigenze. A ciò si aggiunga , un altro degli elementi di maggiore criticità per l’alta formazione, per l’Università: stiamo strutturando la ricerca sull’idea fuorviante che la conoscenza debba essere, comunque e sempre, utile.

 

Nella società della conoscenza, che si baserà sempre più su professioni ad elevato contenuto conoscitivo, non è più sufficiente il sapere e il sapere fare, ma oggi noi dobbiamo sapere e saper fare, ma anche sapere comunicare il sapere e sapere comunicare il saper fare. Servono “teste ben fatte”, come diceva Montaigne, con una formazione differente e un pensiero multidimensionale, perché solo queste teste ben fatte saranno in grado di sfruttare i venti del cambiamento, e non soltanto contenerli e/o subirli.

Cosa significa allora concretamente, in positivo, ripensare le strutture organizzative della formazione?
Saltare le separazioni. Ripensare lo spazio relazionale e comunicativo dentro le scuole. C’è un ritardo culturale sull’innovazione tecnologica, che per ora è opportunità per pochi, è per ristrette élite: il digitale non garantisce cittadinanza e inclusione per tutti, anzi senza mettere mano a educazione e istruzione, è destinato a render ancora più profonde certe asimmetrie e disuguaglianze. Questa società è sempre più “asimmetrica”, sempre più segnata da profonde disuguaglianze e asimmetrie: oltre a quelle tradizionali, ci sono le asimmetrie nuove, che marcano ancora di più le distanze sociali. La scuola e l’università non svolgono più, da tempo, la loro funzione di ascensori sociali e di agenti di un possibile riscatto sociale. Il discorso riguarda il lungo periodo e le politiche di lungo periodo e, in questa prospettiva, ad esempio dobbiamo ricordare che l’Italia non ha vere politiche di orientamento. L’orientamento oggi è relegato a pratiche di marketing: nei periodi degli esami di maturità, gli atenei vanno nelle scuole con le loro brochure e il materiale pubblicitario, sperando di convincere i giovani, e le loro famiglie, a operare una scelta di per sé fondamentale, una scelta che andrebbe spiegata e accompagnata nel tempo: ma quello non è orientamento, è marketing. L’orientamento è, anche e soprattutto, andare, incontrarsi, dialogare, fin dai primi anni, nelle Scuole per parlare di temi importanti (dalle cellule al Dna, dagli atomi alle molecole, dalle migrazioni alla varietà delle culture, dalla cittadinanza ai diritti, dalla scienza all’arte, dai nuovi linguaggi alla comunicazione, dalla globalizzazione alla sostenibilità, al valore della responsabilità etc.), sapendoli raccontare e spiegare, stimolando i ragazzi sulle questioni. Questo sul lungo periodo.

 

Ci sarebbe da fare un lungo discorso sull’urgenza di ripensare e rilanciare gli istituti tecnico-professionali, non vedendoli semplicemente come il “luogo” ove accogliere gli studenti meno dotati e/o meno “portati per lo studio”. Dovremmo ripartire dall'educare e dal formare le persone prima, e i cittadini poi, a vedere, osservare e interpretare gli "oggetti" come "sistemi" e non viceversa i sistemi come oggetti. Le società ipercomplesse saranno sempre più anche società interculturali, segnate da conflitti che noi dobbiamo provare a mediare: qui torna, ancora una volta, il ruolo strategico della comunicazione così come l’abbiamo intesa.

È evidente che anche con il breve periodo si debbano fare i conti. E ci sarebbe da fare un lungo discorso sull’urgenza di ripensare e rilanciare gli istituti tecnico-professionali, non vedendoli semplicemente come il “luogo” ove accogliere gli studenti meno dotati e/o meno “portati per lo studio” e la ricerca. Torno a dire: il futuro sarà di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare conoscenze e competenze; di chi saprà fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali. Per questo noi dovremmo ripartire dall'educare e dal formare le persone, prima, e i cittadini, poi, a vedere, osservare e interpretare gli "oggetti" come "sistemi" e non viceversa i sistemi come oggetti. Le società ipercomplesse saranno sempre più anche società interculturali, segnate da conflitti che noi dobbiamo provare a mediare: qui torna, ancora una volta, il ruolo strategico della comunicazione così come l’abbiamo intesa. Sono sfide che non possiamo ulteriormente rinviare.

Lei ha detto che «una cultura della complessità non può che basarsi su un cultura della responsabilità» e parla molto di inclusione. Invece pare delinearsi quasi un mondo in cui ci sarà spazio solo per gli high performers, mentre tutti gli altri nemmeno avranno più un lavoro, sostituiti dai robot…
Nel 2009 condussi una ricerca a seguito del terremoto dell’Aquila – città dove ho insegnato per lungo tempo - partendo da una studio empirico condotto su come la stampa e i media avevano raccontato il terremoto: ho scelto come titolo “La società dell’irresponsabilità”. Proprio a voler sottolineare come siamo in un contesto in cui atti e fatti molto gravi possono avvenire nel pieno rispetto delle leggi e delle normative, dell’osservanza formale delle regole e delle procedure. Una dimensione, quella della responsabilità, che riguarda da vicino la libertà, gli stessi concetti di libertà e responsabilità andrebbero ripensati in chiave relazionale, perché presuppongono il Noi, non l’Io.

Ma una cultura della responsabilità non può mai essere imposta dall’alto (come l’etica), o veicolata attraverso sofisticate campagne di comunicazione/marketing; deve essere socialmente e culturalmente costruita fin dai primi anni di vita e, poi, di studio. Sono la Scuola e le altre agenzie di socializzazione le vere responsabili di questo processo così importante che riguarda direttamente anche le tematiche inerenti la legalità, la corruzione, la prevenzione, il rispetto dell’Altro da noi, il nostro vivere insieme etc. Il tema della responsabilità è centrale e si riaggancia alle questioni precedentemente trattate. Complessità e pensiero sistemico presuppongono un’attenta valutazione delle variabili coinvolte e delle conseguenze. Essere educati alla complessità, al metodo scientifico, al pensiero critico e sistemico, porta con sé un’epistemologia dell’incertezza (Morin) e un’attenzione anche per il (noto) principio di precauzione.

 

Mai come in questo momento l’evoluzione culturale è in grado di condizionare l’evoluzione biologica, per questo la tematica del cambio di paradigma è urgente. L’esigenza di ripensare i saperi, i percorsi, le logiche che animano la ricerca scientifica non è perché c’è l’intuizione di qualcuno ma perché la realtà ce lo richiede. È la realtà che è sempre più interconnessa e interdipendente, è la realtà che ci chiede di superare queste logiche di separazione.

Superare la dicotomia tra formazione umanistica e formazione scientifica è troppo importante, dal momento che non possiamo più permetterci il lusso neanche di formare soltanto tecnici e questo proprio perché siamo in una civiltà ipertecnologica e perché le implicazioni della civiltà ipertecnologica sono sociali, politiche, culturali, riguardano tutti…le identità, le soggettività, la vita nel suo complesso. Il tema del cambio di paradigma non è uno slogan, in una frase potremmo dire che le straordinarie scoperte scientifiche di questi anni - la manipolazione genetica, l’intelligenza artificiale, la robotica, la possibilità di sostituire parti del corpo, le cellule staminali - ci obbligano a rivedere tutte le categorie, e le relative definizioni operative, a cominciare da quelle di coscienza e vita. Questo cosa mette in evidenza? Che mai come in questo momento l’evoluzione culturale è in grado di condizionare l’evoluzione biologica, per questo la tematica del cambio di paradigma è urgente. L’esigenza di ripensare i saperi, i percorsi, le logiche che animano la ricerca scientifica non è perché c’è l’intuizione di qualcuno ma perché la realtà ce lo richiede. È la realtà che è sempre più interconnessa e interdipendente, è la realtà che ci chiede di superare queste logiche di separazione.

Come si collega a tutto questo il tema dell’inclusione?
Ci torno spesso: non soltanto è collegato, ma è intimamente collegato. Come ricordo spesso, le “regole d’ingaggio” della cittadinanza (globale) non vengono più definite dal legislatore, vengono definite e socialmente riconosciute nei luoghi in cui si producono i saperi e la conoscenza; si parla tanto di cittadinanza digitale, ma non esiste alcuna cittadinanza digitale se non sono garantite le condizioni della cittadinanza. E ci sarebbe da fare un lungo discorso anche sul tema della “meritocrazia” che, se non incrociata con altre variabili e inquadrata in un discorso più ampio sull’eguaglianza delle condizioni di partenza, rischia di rimanere la meritocrazia di chi ha più opportunità in partenza. Detto questo, non saranno certamente la tecnologia e il digitale a garantire l’inclusione e la cittadinanza, perché le regole di ingaggio della cittadinanza non sono più scritte dal legislatore.

 

Non saranno la tecnologia e il digitale a garantire l’inclusione e la cittadinanza, perché le regole di ingaggio della cittadinanza non sono più scritte dal legislatore. I diritti e i valori della cittadinanza vengono sempre più scritti nei luoghi in cui si produce e di distribuiscono informazioni e conoscenza, la scuola e l’università. Ecco perché una scuola e un’istruzione non di qualità sono i prerequisiti per una società che non potrà che essere sempre più profondamente diseguale.

Fino ad ora la “cittadinanza” è stata definita soprattutto come una questione di tipo giuridico, è la legge che definisce e configura i diritti e i principi della cittadinanza che, in molti casi, sono garantiti solo su carta. Ma – ribadisco con forza - i diritti e i valori della cittadinanza, nella società della conoscenza, vengono sempre più scritti e definiti nei luoghi in cui si produce e di distribuiscono informazioni e conoscenza, la scuola e l’università: è lì che si definiscono le regole di ingaggio. Ecco perché una scuola e un’istruzione non di qualità sono i prerequisiti fondamentali per una società che non potrà che essere sempre più profondamente diseguale. Nell’analisi e gestione di questa crisi che stiamo attraversando – perché questo è l’altro elemento di contesto di cui dobbiamo tenere conto - abbiamo sottovalutato variabili e dimensioni culturali: è una crisi solo in parte economica. Non ho fatto citazioni accademiche per tutta la nostra conversazione, ma qui è necessario: Max Weber diceva che il mercato, se lasciato alla sua autonormatività, conosce soltanto una dignità della cose e non una dignità della Persona. Questa è la sfida ulteriore. Ecco perché è necessario e urgente mettere mano all’educazione e alla formazione. Con la Cultura, sono da sempre gli unici veri agenti di una cittadinanza (ormai globale) e di una democratizzazione dei processi sociali che, per ora, sono soltanto raccontate, immaginate e riconosciute “su carta”.