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Nietzsche e l'amor fati

di Luca Leonello Rimbotti - 04/11/2017

Nietzsche e l'amor fati

Fonte: Italicum

 

L’attitudine dell’uomo pagano – dell’uomo sano – consiste essenzialmente nel guardare la vita diritto negli occhi.
 
Per la tradizione, ciò che è costituisce verità. E l’uomo della tradizione non si inventa inganni e paraventi, ma chiama le cose con il loro nome, ed anche le sventure, e persino i dolori li chiama sventure e dolori, né sente il bisogno plebeo di addolcire ciò che è amaro o di abbellire ciò che è spaventevole. Nietzsche, come nuovo stoico del secolo XIX, come annunciatore di verità pagane, indicò nell’affetto per il destino, nell’amore per ciò che è dato, per ciò che è necessario, per l’ineluttabile, un segnale di dirittura dinanzi alla verità. L’uomo saldo in sé e ricolmo di valore, sta eretto davanti alla gioia come alla disgrazia, né flette se percosso dalla rovina o dall’atroce apparire dell’inspiegabile. In Ecce Homo, la sua autobiografia sardonica e irriverente, Nietzsche confessò di possedere un sistema per riconoscere l’uomo autentico dalla sua caricatura. E disse:

La mia formula per giudicare della grandezza dell’uomo, è amor fati: cioè, non volere che le cose siano diverse, che non evadano né avanti, né indietro, per tutta l’eternità. Non soltanto sopportare il Necessario, e ancor meno nasconderlo (ogni idealismo è menzogna di fronte al Necessario); bensì amarlo…

Con ciò, viene liquidata la nozione moderna di tempo, il concetto stesso di progressismo è annichilito dinanzi all’ergersi del tempo immutabile che ingloba l’esserci e il non esserci, indicando a tutti e ad ognuno la via del destino: così facendo, sentendosi egli stesso il proprio destino, l’uomo non lo subisce, al contrario lo pretende, lo vive con la naturalezza con cui la pianta respira l’aria del primo mattino. Con l’eterno ritorno Nietzsche ha ammonito l’uomo a non farsi vittima, ma carnefice del proprio tempo, a farlo scorrere tra le maglie dell’anima come un ricciolo di seta, a viverlo con la leggerezza del danzatore che volteggia sul crinale: attenzione, dice Nietzsche, attenzione a non lasciarci sfuggire la preziosità di ciò che, nel ciclo ritornante, propone forme e forme di vita sempre nuove e sempre nuove attitudini. Distruggendo e poi ricostruendo su altri salienti, l’eterno che ritorna suggerisce all’uomo in ascolto l’unica devozione plausibile: quella per la vita, in tutti i suoi aspetti. L’amore per il destino, l’Amor Fati, è la stoica certezza che nulla può piegare ciò che è diritto. La morale della rinuncia e dell’astensione, con cui è stato allevato l’uomo delle moltitudini moderne, ricacciato nei bassifondi della passività e della supina rassegnazione, è giunta alla fine del suo perverso traboccare nelle menti, e, in suo luogo, ha da affermarsi la volontà nuova di chi dice a se stesso: così ho voluto, così ho voluto che fosse, così sempre vorrò me stesso al centro del vortice dell’essere che fa diventare ciò che si è, e null’altro.
Nell’epoca in cui – all’opposto – si presuppone che tutto e tutti debbano essere non ciò che sono, ma ciò che si sogna che debbano essere, l’amore per il destino è un concetto inarrivabile. Le plebi intellettuali che insegnano alle masse inebetite la rinuncia al Noi e il disfarsi di sé pronunziano la parola d‘infamia contro ciò che Nietzsche chiamò la vita. La condizione umana più elevata è la «posizione dionisiaca verso l’esistenza», asserisce il Solitario nei Frammenti postumi del 1888, «la mia formula perciò è amor fati».

In questo modo, noi vediamo Nietzsche far sì che l’uomo – o, meglio, il superuomo - possa diventare padrone non soltanto del futuro ma, in quanto il futuro non è che una forma ritornante di ciò che è già stato, anche del passato. E difatti, la formula che esorcizza il dolore umano per non avere i mezzi per mutare il passato, è semplicemente quella che trasforma il “ciò che fu”, in “ciò che io volli che fosse”. Ecco pertanto che la volontà suprema del superuomo, cioè di colui che si immedesima nel destino, è una volontà che agisce anche a ritroso. Non solo il futuro è rivendicato come appartenente al proprio volere, ma anche il passato, ed anche il più lontano passato: poiché non c’è spaccatura nel tempo, e tutto inesorabilmente si ripresenta come un insieme di combinazioni di energia che ripetono se stesse all’infinito. E infatti ecco il capolavoro della nuova ontologia, cui è dedicata la fatica del superuomo: si tratta di far coincidere il divenire con l’essere, il mutevole con l’immutabile, l’attimo con l’eterno. Amare il fato, ci dice Nietzsche, significa prima di tutto amare il proprio fato. Quell’estrema forma di fedeltà e devozione al divenire che è l’Amor fati si compie allorquando all’individuo differenziato balena nella mente di poter disporre della volontà come di un grande magnete, che avvicina alla vita, che lascia aderire perfettamente pensiero e azione, passato e futuro, assicurando all’eterno ritorno di tutte le cose il significato di una presenza eterna, figlia di una volontà essa pure eterna.
La coincidenza di essere e di volere, attuata da Nietzsche, costituisce un secondo lato della concezione stoica, che è in grado di sopportare gli accadimenti del mondo annullando il dolore dell’impotenza nell’amore per la propria forza di volontà. Al di là della sopportazione stoica, infatti, c’è il senso rivoluzionario della dominazione dei fati: e i fati non si dominano pretendendo di dirigerli, ma – come accade per i fenomeni della natura – assecondandoli. Non si tratta di una trovata dialettica. Veramente un’intera concezione dell’essere può riposare sulla condivisione del destino, sentendosi esso stesso – l’essere -  il destino. Non per caso, gli antichi, per bocca di Seneca, coniarono una delle formule esistenziali più celebri e più vere, in cui si nasconde sia l’eterno ritorno di Nietzsche che la motivazione razionale dell’essere, il logos, il disegno interno e imperscrutabile che regola accadimenti ed esistenze: Ducunt volentem fata, nolentem trahunt: il destino conduce chi lo asseconda, trascina chi vi si oppone. È qui spiegato, in tutta la sua profonda realtà misterica, il rapporto tra uomo e fato, tra uomo e ignoto. Quindi, possiamo dire con Nietzsche che Amor fati non equivale a “fatalistico” assoggettamento alla sorte, ciò che contraddistingue il debole e ne fa un trascinato, ma, proprio all’opposto, significa l’apoteosi del forte, il suo identificarsi con la realtà di ciò che è. Si è parlato, in proposito, di una “intelligenza degli eventi”, per cui chiunque non si identifichi con il cieco nichilismo, oppure con il determinismo meccanico, legge la ventura della vita come manifestazione della necessità. Tutto ciò che accade è necessario. Questa forma di hegelismo eroico – che trasforma la formula “tutto ciò che è reale è razionale” in quella “tutto ciò che è accaduto era necessario” – sta alla base del superamento del nichilismo, di cui l’eterno ritorno è uno dei cardini. Quanto Nietzsche scrisse in Così parlò Zarathustra circa la volontà è illuminante: «Che il tempo non torni indietro, ecco ciò che la fa fremere d’ira; e il masso ch’essa non può rovesciare si chiama “ciò che fu”». E inoltre: «Ogni “fu” è un frammento, un enigma, un tetro accidente, finché la volontà creatrice non dica: “Ma io l’ho voluto così, finché la volontà creatrice non dica: “ma io lo voglio così! Lo vorrò così”».
Non sappiamo se si tratta solo di dire che “tutto è stato calcolato”. Ma certamente tutto è già stato.
In questo coincidere di essere e divenire, in questo combaciare di Eraclito e Parmenide, risiede la verità ontologica. Essa stimola all’osservanza della legge del logos che, sovrano, misteriosamente dispone.
Ergersi davanti al fato come fossimo fato noi stessi. Insomma, questo destino Nietzsche lo cantò in uno dei suoi giovanili Ditirambi di Dioniso:

il più sereno dei guerrieri,
il più duro dei vincitori, sopra il suo fato eretto come un fato,
duro, riflessivo, prudente:
tremante perché vinceva
giubilante perché morente vinceva…