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Non commettere genocidio

di Chris Hedges - 22/08/2024

Non commettere genocidio

Fonte: Come Don Chisciotte

C’è un solo modo per porre fine al genocidio in corso a Gaza. Non attraverso negoziati bilaterali. Israele ha ampiamente dimostrato, anche con l’assassinio del principale negoziatore di Hamas, Ismail Haniyeh, di non essere interessato ad un cessate il fuoco permanente. L’unico modo per fermare il genocidio israeliano dei palestinesi è che gli Stati Uniti pongano fine a tutte le spedizioni di armi a Israele. E l’unico modo per farlo è che un numero sufficiente di americani chiarisca di non avere intenzione di sostenere alcun candidato alla presidenza o alcun partito politico che alimenti questo genocidio.

Le argomentazioni contro il boicottaggio dei due partiti al potere sono note: garantirebbe l’elezione di Donald Trump. Kamala Harris ha mostrato retoricamente più compassione di Joe Biden. Non siamo abbastanza numerosi per avere una qualche influenza. Possiamo lavorare all’interno del Partito Democratico. La lobby israeliana, in particolare l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che controlla la maggior parte dei membri del Congresso, è troppo potente. I negoziati finiranno per far cessare il massacro.

In breve, siamo impotenti e dobbiamo rinunciare alla nostra agentività per sostenere un progetto di uccisione di massa. Dobbiamo accettare come normale governance l’invio di centinaia di milioni di dollari in aiuti militari a uno Stato di apartheid, l’uso del veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per proteggere Israele e l’ostruzione attiva degli sforzi internazionali per porre fine ad una strage. Non abbiamo scelta.

Il genocidio, il crimine riconosciuto a livello internazionale, non è una questione politica. Non può essere equiparato agli accordi commerciali, ai progetti di legge sulle infrastrutture, alle scuole private o all’immigrazione. È una questione morale. Si tratta dello sradicamento di un popolo. Qualsiasi cedimento al genocidio ci condanna come nazione e come specie. Fa precipitare la società globale un passo più vicino alla barbarie. Sventra lo Stato di diritto e si fa beffe di ogni valore fondamentale che pretendiamo di onorare. È una categoria a sé stante. E non combattere, con ogni fibra del nostro essere, il genocidio significa essere complici di quello che Hannah Arendt definisce “il male radicale”, il male in cui gli esseri umani, in quanto esseri umani, sono resi superflui.

La pletora di studi sull’Olocausto avrebbe dovuto rendere indelebile questo concetto. Ma gli studi sull’Olocausto sono stati dirottati dai Sionisti. Essi insistono sul fatto che l’Olocausto è unico, che è in qualche modo distinto dalla natura umana e dalla storia umana. Gli Ebrei vengono divinizzati come vittime eterne dell’antisemitismo. I nazisti sono caratterizzati da un tipo speciale di disumanità. Israele, come ci ricorda il Museo Memoriale dell’Olocausto di Washington, è la soluzione. L’Olocausto è stato uno dei numerosi genocidi perpetrati nel XIX e XX secolo. Ma il contesto storico viene ignorato e con esso la nostra comprensione delle dinamiche dello sterminio di massa.

La lezione fondamentale dell’Olocausto, che scrittori come Primo Levi sottolineano, è che tutti noi possiamo diventare carnefici volontari. Basta davvero poco. Tutti noi possiamo diventare complici del male, anche solo per indifferenza e apatia.

I mostri esistono“, scrive Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, “ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi. Più pericolosi sono gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad agire senza porsi domande“.

Affrontare il male – anche se non ci sono possibilità di successo – mantiene viva la nostra umanità e la nostra dignità. Ci permette, come scrive Vaclav Havel in “Il potere dei senza potere“, di vivere nella verità, una verità che i potenti non vogliono che sia detta e che cercano di sopprimere. Fornisce una luce guida a coloro che verranno dopo di noi. Dice alle vittime che non sono sole. È “la rivolta dell’umanità contro una posizione imposta” e un “tentativo di riprendere il controllo sul proprio senso di responsabilità”.

Che cosa dice di noi se accettiamo un mondo in cui armiamo e finanziamo una nazione che uccide e ferisce centinaia di innocenti al giorno?

Cosa dice di noi se sosteniamo una carestia orchestrata e l’avvelenamento delle riserve idriche in cui è stato individuato il virus della polio, il che significa che decine di migliaia di persone si ammaleranno e molte moriranno?

Cosa dice di noi se permettiamo per 10 mesi vengano bombardati campi profughi, ospedali, villaggi e città per spazzare via le famiglie e costringere i sopravvissuti ad accamparsi all’aperto o a trovare riparo in tende precarie?

Cosa dice di noi quando accettiamo l’uccisione di 16.456 bambini, anche se si tratta sicuramente di un numero sbagliato per difetto?

Cosa dice di noi quando guardiamo Israele intensificare gli attacchi contro le strutture delle Nazioni Unite, le scuole – compresa la scuola Al-Tabaeen di Gaza City, dove oltre 100 palestinesi sono stati uccisi mentre erano impegnati nelle preghiere del Fajr, o dell’alba – e altri rifugi di emergenza?

Cosa dice di noi quando permettiamo a Israele di usare i palestinesi come scudi umani, costringendo civili ammanettati, compresi bambini e anziani, a entrare in tunnel ed edifici potenzialmente pieni di trappole esplosive davanti alle truppe israeliane, a volte vestiti con uniformi militari israeliane?

Che cosa dice di noi quando sosteniamo politici e soldati che difendono lo stupro e la tortura dei prigionieri? Sono questi i tipi di alleati che vogliamo sostenere? È questo il comportamento che vogliamo abbracciare? Che messaggio inviamo al resto del mondo?

Se non ci atteniamo agli imperativi morali, siamo condannati. Il male trionferà. Significa che non c’è giusto e sbagliato. Significa che tutto, compreso l’omicidio di massa, è lecito. I manifestanti all’esterno della Convention Nazionale Democratica allo United Center di Chicago chiedono la fine del genocidio e degli aiuti statunitensi a Israele, ma all’interno ci viene propinato un conformismo nauseante. La speranza è nelle strade.

Una posizione morale ha sempre un costo. Se non ha un costo, non è morale. È solo una credenza convenzionale.

Ma che ne è del prezzo della pace?“, si chiede il sacerdote cattolico radicale Daniel Berrigan, che era stato rinchiuso in una prigione federale per aver bruciato i registri di leva durante la guerra in Vietnam, nel suo libro “No Bars to Manhood“.

Penso alle migliaia di persone buone, rispettabili e amanti della pace che ho conosciuto e mi faccio delle domande. Quante di loro sono così afflitte dalla malattia del deperimento della normalità che, pur dichiarandosi a favore della pace, con un spasmo istintivo tendono le mani in direzione delle loro comodità, della loro casa, della loro sicurezza, del loro reddito, del loro futuro, dei loro progetti – quel piano quinquennale di studi, quel piano decennale di status professionale, quel piano ventennale di crescita e unità della famiglia, quel piano cinquantennale di vita dignitosa e di morte naturale onorevole. “Certo, lasciateci la pace”, gridiamo, “ma, allo stesso tempo, lasciateci la normalità, facciamo in modo di non perdere nulla, lasciamo che le nostre vite rimangano intatte, facciamo in modo di non conoscere né prigione, né cattiva reputazione, né interruzione dei legami”. E poiché dobbiamo abbracciare questo e proteggere quello, e poiché a tutti i costi – a tutti i costi – le nostre speranze devono procedere secondo la tabella di marcia, e poiché è inaudito che in nome della pace una spada cada, disarticolando la rete sottile e astuta che le nostre vite hanno intessuto, poiché è inaudito che gli uomini buoni subiscano ingiustizie o che le famiglie siano spezzate o che una buona reputazione sia persa – per questo gridiamo pace e gridiamo pace, e non c’è pace. Non c’è pace perché non ci sono costruttori di pace. Non ci sono costruttori di pace perché fare la pace è almeno altrettanto costoso che fare la guerra, almeno altrettanto impegnativo, almeno altrettanto dirompente, almeno altrettanto suscettibile di portare disonore, incarceramento e morte.

La questione non è se la resistenza sia pratica. È se la resistenza è giusta. Ci è stato chiesto di amare il nostro prossimo, non la nostra tribù. Dobbiamo avere fede nel fatto che il bene richiama il bene, anche se l’evidenza empirica intorno a noi è desolante. Il bene si incarna sempre nell’azione. Deve essere visto. Non importa se la società in generale è censoria. Siamo chiamati a sfidare – attraverso atti di disobbedienza civile e di non conformità – le leggi dello Stato, quando queste leggi, come spesso accade, sono in conflitto con la legge morale. Dobbiamo stare, a qualunque costo, dalla parte dei crocifissi della terra. Se non riusciamo a prendere questa posizione, contro gli abusi della polizia militarizzata, la disumanità del nostro vasto sistema carcerario o il genocidio a Gaza, allora diventiamo noi i crocifissori.

 

Fonte: chrishedges.substack.com
Link: https://chrishedges.substack.com/p/thou-shalt-not-commit-genocide
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

 

Chris Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per 15 anni per il New York Times, periodo in cui è stato capo ufficio per il Medio Oriente e capo ufficio per i Balcani. In precedenza aveva lavorato all’estero per il Dallas Morning News, il Christian Science Monitor e la NPR. È il conduttore del programma “The Chris Hedges Report.”