Non è più il lavoro ma la sua assenza a generare mostri
di Massimo Recalcati - 20/11/2016
Fonte: La Repubblica
In Marx la critica allo sfruttamento del lavoro proprio del regime capitalista si è sempre accompagnata ad una valorizzazione del lavoro in quanto tale. Anzi, nei Manoscritti economico- filosofici del 1844 l’umanizzazione della vita non può che compiersi attraverso il lavoro che è innanzitutto il modo col quale si manifesta l’ ”essenza” dell’uomo in quanto tale. Se, infatti, il capitalismo deruba l’uomo della sua umanità, rendendolo simile ad una bestia da soma, è perché si è indebitamente appropriato del prodotto del suo lavoro. In questo modo ha reso impossibile quel riconoscimento del valore della vita umana che dovrebbe realizzarsi quando il lavoratore può specchiarsi nel prodotto del suo lavoro. È questo, in estrema sintesi, il carattere alienante dell’espropriazione capitalista del lavoro operaio: il lavoratore perde contatto con l’oggetto del proprio lavoro e con il senso stesso della sua prassi.
Esiste però una tendenza interna al marxismo dove questa valorizzazione del lavoro viene negata identificando l’attività stessa del lavoro – e non la sua forma alienata prodotta dal capitalismo – come una attività di mortificazione e di sfruttamento dell’uomo. Questa tendenza ha avuto diversi interpreti (da Andrè Gorz ad Herbert Marcuse, per lo più travisato, sino ai più recenti contributi di Robert Kurz, filosofo marxista tra gli autori di un eloquente Manifesto contro il lavoro redatto nel 2003) ed è quella risultata culturalmente dominante nelle contestazioni del ’68 e del ’77. Lavorare non alimenta la vita ma la mortifica, non genera soddisfazione ma abbruttimento. Il rigore umanistico del giovane Marx viene curvato verso un inedito edonismo libertario che rigetta il lavoro in quanto tale considerandolo un principio socialmente costrittivo. Il lavoro diventa un tabù di cui liberarsi il più in fretta possibile. È la cultura del parco Lambro del ’76 dove la celebrazione freak dello spinello e il culto anarchico della libertà conducevano a riconoscere nel lavoro in quanto tale un puro dispositivo di sfruttamento piuttosto che un luogo essenziale per l’umanizzazione della vita. Non si trattava solo di criticare il lavoro alienato del regime capitalista, ma la tirannide in sé del lavoro, la trasformazione moralistica del mondo in un grande fabbrica di produzione.
Nell’attuale tempo della crisi economica e della disoccupazione crescente, soprattutto tra i giovani, questi discorsi impallidiscono di fronte alla dura prova della realtà. La vita umana senza la possibilità del lavoro è vita morta, vita che perde ogni dignità. I suicidi che nel tempo più acuto della recente crisi hanno colpito imprenditori e lavoratori segnalano spietatamente – come il giovane Marx aveva lucidamente affermato – che senza l’occasione del lavoro, senza impresa, la vita non accede ad alcuna libertà, ma tende a disumanizzarsi e a percepirsi come superflua e insignificante. È, infatti, solo attraverso il lavoro che facciamo esperienza della soddisfazione simbolica del riconoscimento. La nostra vita acquista valore umano perché, diversamente da quella animale, non si limita a reagire agli stimoli del mondo, ma sa trasformare il mondo, sa imprimere al mondo una forma umana. Perdere o non trovare lavoro significa essere tagliati fuori da qualunque esperienza fondamentale di riconoscimento. Il vero problema oggi non è la critica alla natura alienata del lavoro, ma l’esistenza di una economia sempre più afflitta dal primato della finanza che ha fatto evaporare la centralità umana del lavoro. La via “lunga” del lavoro è stata sostituita da quella “breve” dell’allucinazione finanziaria, del profitto facile. Quando infatti il profitto si separa dalla forza-lavoro per generarsi solo dal denaro, diviene l’indice drammatico di un rovesciamento nichilistico dei valori: non è il lavoro ad essere un valore, ma è il valore che riproduce se stesso a prescindere dal lavoro. In un libro di qualche anno fa titolato Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo (Bruno Mondadori, 2012), il sociologo Federico Chicchi mostrava con efficacia la trasfigurazione che l’economia post-fordista ha impresso al lavoro umano. Se al tempo fordista il lavoro veniva organizzato da una sua irreggimentazione paranoica ponendo in primo piano la sua meccanizzazione anonima che surclassa la singolarità del lavoratore, nel nostro tempo in primo piano è un godimento – quello della finanza – che rifiuta ogni limite subordinando alla sua avidità compulsiva e astratta la dimensione reale del lavoro. Per questo al posto dell’irreggimentazione disciplinare del lavoro di tipo fordista, oggi abbiamo il problema della sua precarizzazione e della sua evaporazione, il suo declassamento rispetto all’economia spettrale della finanza. La fine del controllo paranoide del lavoro che aveva caratterizzato l’economia fordista – è una tesi di Chicchi – genera però una libertà individuale solo apparente. Il nuovo scenario antropologico del soggetto contemporaneo appare dominato da una precarietà diffusa che è la faccia oscura della maggiore individualizzazione e autoregolazione del lavoro. L’edonismo post-marxista rivela qui tutta la sua miopia: non è il lavoro a sfruttare la vita, ma è la vita che senza lavoro si consuma in quella nuova schiavitù che chiamiamo libertà. Se l’espansione della libertà è una evidenza solo individualistica che taglia fuori i più deboli, che li priva dell’occasione del lavoro, questa libertà resta solo – come Pasolini aveva già intuito – una versione nichilistica del puro arbitrio.