Nota su identità personale e processi sociali
di Andrea Zhok - 21/06/2021
Fonte: Andrea Zhok
Negli ultimi giorni un contatto FB, di cui non faccio il nome, ma che sarà il benvenuto se vorrà manifestarsi nella discussione, ha scritto una serie di interessanti post su tematiche psicologiche legate all'identità sessuale vissuta dalle generazioni più giovani (<25 anni).
Tra le molte considerazioni stimolanti, una mi ha colpito in modo particolare, perché si sovrappone ad un'impressione che avevo estratto da alcune esperienze empiriche, ma che non riuscivo ad inquadrare.
L'impressione riguarda l'odierna centralità del discorso intorno alla propria identità sessuale, vista come problematica, nei soggetti più giovani, in particolare in età scolare.
Che la sessualità sia tema centrale in adolescenza e giovinezza è ovvio, ma il modo odierno di tematizzarla sembra peculiare: qui non sembra più che il tema su cui si concentra l'attenzione sia l'altro, come oggetto d'attrazione sessuale, quanto piuttosto il sé, come soggetto di identità sessuale (problematica).
Questo sembra uno slittamento significativo occorso in un periodo abbastanza recente.
Quanto diffuso sia questo spostamento non è facile dirlo.
Le evidenze disponibili (almeno a me disponibili) hanno carattere di esperienza empirica occasionale o di aneddotica riferita. Dunque per farne un discorso scientificamente probante qui mancano alcuni dati fondamentali.
Il tema però è così interessante che - credo - anche una riflessione in parte congetturale possa essere utile (naturalmente senza pretese di conclusività).
Da un certo punto di vista si potrebbe dire che una messa in discussione della propria identità sessuale, almeno nella fase in cui essa si sta determinando (adolescenza) non è niente di strano, visto che notoriamente nella fase puberale il gioco ormonale può creare oscillazioni e confusione nelle inclinazioni sessuali (la letteratura lo ha descritto varie volte).
Che ciò sembri avere un'estensione temporale più ampia dello stretto periodo adolescenziale è più difficile da spiegare (non è da escludere che la diffusione ambientale di interferenti endocrini giochi qui un ruolo).
Più controllabile è il discorso sul piano del gioco culturale.
Qui da un lato abbiamo sicuramente una maggiore propensione a verbalizzare qualcosa che un tempo si sarebbe piuttosto tenuto per sé.
Ciò può essere messo sul conto di una maggiore 'libertà sessuale'? Forse, se facciamo un raffronto con generazioni nate prima del '68. Ma non direi che in termini di 'liberazione sessuale', qualunque cosa questo voglia dire, qualcosa sia cambiato sul piano emancipativo nell'ultimo mezzo secolo. Dunque questa spiegazione non basta.
Ciò che osservava il mio contatto (FLR), confortato dalle osservazioni di uno psicologo, era come il modo di autodescriversi sessualmente da parte di molti giovani (quanti?) sembrasse aver subito una trasformazione.
Mentre tradizionalmente un soggetto descriveva
<<l'alternanza fra periodi di intenso desiderio sessuale, di astinenza di desiderio, di volontà di una relazione sentimentale, ecc. come variazioni del proprio carattere e del proprio desiderio, la nuova generazione utilizza le etichette "eterosessuale" (o "omosessuale") nelle fasi di ricerca di puro sesso, "asessuale" per quelle senza desideri, "demisessuale" quando dialoga molto con una persona per stabilire un rapporto sentimentale serio. Utilizza insomma queste etichette come definizioni identitarie/psicologiche che contengono al loro interno in maniera non problematica stati d'animo, modelli di comportamento, variazioni dell'intensità del desiderio.
Detto in maniera ancora più semplice, se prima alla domanda "Perché non desideri fare sesso?" i pazienti più vecchi rispondevano "Perché non è periodo, sono stressato da altre cose" oppure "Mi sono appena mollato con il/la mio/a partner, sono troppo triste per pensare al sesso" quelli della nuova generazione rispondono "Perché adesso sono asessuale"... stop. Per loro l'etichetta "asessuale" spiega in maniera immediata, completa e non problematica quello che per un paziente over 25 richiedeva complessi ragionamenti introspettivi.>> (Cit. FLR)
Se questo slittamento nella concettualizzazione è effettivamente diffuso, questa osservazione mi pare un indice assai interessante.
Quando noi diciamo "non sono dell'umore", "sono abbattuto", ecc. diciamo che io, la stessa persona di prima, sono entrato in una fase differente, una fase che continua ad appartenere alla storia della medesima persona.
Ciascuna identità personale è ordinariamente costituita da una dimensione "narrativa" in cui una pluralità di pulsioni, emozioni, motivazioni, che variano sia ciclicamente, sia nel corso della vita, sono conciliate attraverso una rete di ragioni, memorie, episodi.
E' del tutto normale vivere oscillazioni all'interno della propria esistenza, ed è fisiologico nell'identità personale ordinariamente funzionale cercare di sintetizzare queste variazioni in un sistema di ragioni.
Ma dire a fronte di queste oscillazioni cose come "io sono demisessuale", "asessuale", ecc. fa qualcosa di molto diverso. Qui si sta utilizzando una concettualità disponibile (ed evidentemente influente in alcuni ambiti giovanili) per attribuirsi IDENTITA' DIVERSE, che si succederebbero con soluzioni di continuità.
Ora, questa modalità rappresentativa non è ignota in psicologia.
In effetti questo è il modo in cui descriveremmo un paziente psichiatrico affetto da scissione della personalità (Disordine DIssociativo dell'Identità).
Questi soggetti non sintetizzano le proprie emozioni (Emotional Parts) in un sistema di ragioni ed esperienze, ma producono - o ritrovano - un 'alter' per ogni condizione emozionale.
Ma naturalmente qui non siamo in presenza di soggetti tecnicamente affetti da disordini dissociativi, dunque qual è il punto?
A me sembra che il punto interessante è che questa concettualità segnala l'abitudine a concepire la propria identità personale (ciò che io sono per me) come qualcosa di frammentato, in balia degli eventi, fuori controllo, qualcosa che ci accade in forme episodiche, e che noi ci limitiamo a recepire passivamente.
Ripeto, non so percentualmente quanto diffusa sia questa tendenza. E' chiaramente qualcosa di nuovo e visibile, ma non ho mezzi per valutarne l'impatto complessivo.
Tuttavia il senso di questo slittamento concettuale - esteso o circoscritto che sia - è di grande interesse, perché si attaglia perfettamente al corrente processo di liquefazione identitaria che è oggi premiato socialmente come adattabilità, flessibilità, disponibilità a recepire le richieste della struttura sociale (economica).
Dopo tutto un carattere che cerchi di perseguire una sua direzione, che cerchi di "scrivere la propria storia", è destinato a entrare in conflitto con le richieste, di principio infinite, di adattamento alle esigenze di mercato.
E sarebbe strano se una 'seconda natura' così accuratamente inculcata oramai da (almeno) due generazioni non lasciasse tracce profonde nell'identità personale (e dunque anche nei processi di autoidentificazione sessuale).