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O di qua o di là. Riflessioni sparse sulla sovranità popolare e il referendum

di Lorenzo Borrè - 13/10/2016

O di qua o di là. Riflessioni sparse sulla sovranità popolare e il referendum

Fonte: Arianna editrice

Il concetto di sovranità popolare in Italia è sempre stato un concetto alquanto fumoso e -se rapportato alla prassi- vicino all'inconsistenza.
Volendo circoscrivere l'estensione temporale de lla questione all'esame delle cause della debolezza del popolo italiano come soggetto politico, mi limito a un excursus a partire dagli anni immediatamente precedenti la proclamazione del Regno d'Italia, anni in cui si evidenzia che l'unità d'Italia è il risultato non già di una guerra di popolo, ma di una serie di guerre d'annessione.
I mille garibaldini erano un'elite, così come lo erano i 300 volontari di Pisacane epicizzati dal Mercantini ne “la spigolatrice di Sapri” , come lo erano i fratelli Bandiera, come lo erano i volontari toscani e napoletani dei corpi di spedizione della prima guerra d'indipendenza delle battaglie di Curtatone e Montanara.
Il popolo come unità politica è invece il grande assente del risorgimento italiano: volendo utilizzare alcuni romanzi come pala d'altare dell'epos risorgimentale, non avrei dubbi nello sceglierne quattro, assolutamente non agiografici: il Mulino del Po di Bacchelli, il Gattopardo di Tommasi di Lampedusa, i Vicerè di De Roberto e la battaglia soda di Luciano Bianciardi.
Sono infatti questi libri che ci ricordano amaramente come, nonostante gli entusiasmi garibaldini e mazziniani, la guerra d'indipendenza sia stata una lunga guerra di annessione e che la realtà dell'annessione, della conquista sabauda è icasticamente rappresentata dall'aver scelto -il primo re d'Italia- il nome di Vittorio Emanuele II (secondo!), così come la prima legislatura dell'Italia unita si è chiamata VIII legislatura. A conclamare il concetto di annessione è poi la scelta di far dello Statuto albertino la carta fondamentale del Regno italiano, anziché dar vita ad una assemblea costituente.
Ma già lo Statuto albertino è una legge fondamentale “all'italiana”, modificabile dalle leggi ordinarie, così come all'italiana e non solo italiana, sarà la rivoluzione del 1922: rivoluzione sui generis visto che il capo dei rivoluzionari, anziché mandare in esilio il capo dello Stato, riceve da lui il mandato di formare il governo.
Finita la Monarchia con il referendum del 1946, dopo due anni vede la luce la Costituzione italiana che, all'art. 1, stabilisce che la sovranità appartiene al popolo, ma questo più che un principio appare una petizione di principio -come il diritto al lavoro e alla casa, come l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abtazione, alla libertà di manifestazione del pensiero e casa essa- tant'è che la stessa assemblea costituente solo un anno prima aveva ratificato il Trattato di pace di Parigi che minava fortemente la nostra sovranità nazionale e popolare, quest'ultima ulteriormente penalizzata dai canoni dell'accordo di Yalta.
Venendo dunque al discorso sulla Costituzione vediamo che a metà del suo periodo di vigenza, cambia l'orizzonte delle valutazioni dela Corte costituzionale: "il 1989 rappresenta l'anno di demarcazione del criterio di interpretazione della costituzionalità delle leggi: assistiamo al passaggio dalla costituzione dei poteri alla costituzione dei diritti e, più in generale, alla sovranità dei valori e alla loro custodia giurisdizionale; si registra, così, un processo di rideterminazione della materia costituzionale, che ha origine, da un lato, nel deperimento normativo della sovranità economica e, dall'altro, nel tendenziale silenzio del patto costituzionale originario su complessità del tutto inedite: mutamenti del sistema costituzionale positivo e nelle nuove complessità all'ordinamento in cui contestualmente all'indebolimento delle strutture intermedie e di mediazione politica assistiamo all'impatto della strategia dei diritti, sempre più individuali, sulla cultura diffusa, che sposta l’orizzonte politico e l'attenzione pubblica dai problemi collettivi, che riguardano il potere e le sue radici, la democrazia, alle vicende dei singoli, attribuendo, ai giudici il ruolo di custodi delle aspettative di giustizia: in assenza di mediazione politica il ricorso ai Tribunali -una volta intesa come extrema ratio- diventa invece strategia politica in prima battuta". Il dialogo non è più di carattere sociale ma individuale: il singolo -non in quanto cittadino, ma come individuo astratto- instaura un rapporto dialogico con il potere giudiziario in cui i diritti dell'individuo, al pari di quelli del Mercato, appaiono autodeterminati ed oggettivi: ad essi non resiste alcuna potesta statuale, così come la potesta degli stati non ha resistito alle leggi del Mercato. E del resto l'abbattimento delle frontiere, l'illimitatezza territoriale dell'orizzonte mercatista coincide con il venire meno di molte potestà dello Stato e il diritto dei popoli all'autoderminazione diviene un ricordo romantico.
Come ricorda Pietro Barcellona, I diritti individuali “sono stati l’utopia più potente che l’Occidente abbia prodotto, perché attraverso essi vengono distrutti i vecchi legami che opprimevano l’individualità. Ma la distruzione dei legami premoderni era contestuale all’Istituzione della Repubblica e della democrazia. I nuovi cittadini appartenevano alle Nazioni. Oggi i diritti umani sono punti di riferimento. Se non c’è città non possiamo parlare di cittadini, i cittadini del mondo sono cittadini del nulla. Se sono cittadino di un quartiere, se sono cittadino di Milano, riesco in qualche modo a condividere le vicende di altri individui nello spazio e nel tempo e posso discutere le cose che ci riguardano. Se sono cittadino del mondo non so neppure a quale tribunale rivolgere le mie pretese e le mie aspettative”
La filosofia dei diritti umani -peraltro declamata dall'art. 2 della costituzione- tende ad annullare la dimensione sociale e ridurre ogni ipotesi di conflittualità alla dimensione individualistica del singolo che protesta e si rivolge a un tribunale, neutralizzando in tal modo, il momento collettivo dell’agire politico: di fatto i diritti individuali sono usati adesso come strumento di spoliticizzazione della società.
La sovranità popolare è la grande assente in questo tentaivo di riforma costituzionale, improntata alla esigenze della governance, dell'efficientismo e del risparmio, parole che rimandano a una grammatica della finanza, del Mercato e non già della politica.
Di converso sono i mercati, le agenzie di rating, gli zeloti del “ce lo chiede l'Europa”, le feluche d'oltreoceano, e i manipolatori dello spread che chiedono queste riforme, che in forma arrogante ci ricordano che o si vota sì o si cade nel baratro.
Noi non crediamo che la Costituzione italiana sia la più bella del mondo, ma non vogliamo una riforma che limita quello scampolo di partecipazione politica che sono i disegni di legge di inziativa ppopolare, ove il quorum sale da 50mila a 150mila firme, una riforma che rende ancor più farraginoso il sistema invocando la necessità di snellire le procedure di formazione e promulgazione della legge: abbiamo visto che quando c'è volontà politica le leggi vengono fatte in quattro e quattr'otto, come è stato per la legge sul falso in bilancio o, più recentemente, per l'approvazione di quella sulle unioni civili, in cui si è addirittura saltato (o meglio abbandonato) il passaggio in commissione.
Noi insomma non sentiamo la necessità di leggi “più veloci”, ma vogliamo leggi migliori, più giuste, che guardino più al bene comune che agli interessi particolari individuali o di gruppi, che siano ispirate alla tutela dell'interesse nazionale e della cittadinanza e non delle agenzie di rating, degli speculatori e di chi è più sensibile a quel che “chiede l'europa” rispetto a quel che chiede il proprio popolo.