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O Tutto, o il nulla: tertium non datur

di Francesco Lamendola - 30/12/2020

O Tutto, o il nulla: tertium non datur

Fonte: Accademia nuova Italia

La domanda, affascinante e tormentosa, è sempre la stessa: dove sono andate? Dove sono andate le cose, le persone, le situazioni, gli attimi, le impressioni, gli stati d’animo, le intuizioni, le immaginazioni, tutto quello che ha reso bella, interessante e degna di essere vissuta la nostra vita, e specialmente la nostra infanzia? Perché l’apertura esistenziale del bambino è immensamente maggiore di quella dell’adulto: tutto     quello che lui vede, ascolta, assapora, lo fa per la prima volta; tutto gli è misterioso, tutto lo seduce, tutto lo incanta; non ci sono limiti di spazio o di tempo nel suo aderire al mondo, nel suo abbracciare l’esperienza concreta, che però, al tempo stesso, è una esperienza interiore, spirituale, mistica. Per lui non ci sono differenze concettuali fra ciò che appartiene alla dimensione fisica e a quella mentale, fra il dentro e il fuori, persino fra il prima e il poi: per lui è tutto qui e adesso, e contemporaneamente è dato per sempre, appartiene all’eternità. Per lui tutto è presente e tutto è perenne, o meglio, tutto è senza tempo: quel che sta vivendo adesso, lo vive con tutto se stesso, però dà per scontato, pur senza farvi sopra un ragionamento, che quella sua esperienza è un’esperienza universale, che non è solamente sua ma appartiene al mondo, fa parte del mondo, e non invecchierà, non sarà dimenticata, perché nel suo mondo nulla viene dimenticato, in quanto nulla è vecchio ma tutto appare fresco, giovane, come se fosse stato appena creato. Lui non ha la nozione del tempo e neppure dello spazio: non si chiede quando una certa cosa è incominciata, né quando finirà; e se una persona adulta gli dice che sulle montagne vicino a casa sua si aggirano i leoni, oppure che nel bosco c’è la capanna di una vecchia strega, capace di  trasformare i bambini in alberi e rocce, lui ci crede senz’altro, perché non è diffidente, non è sospettoso e pertanto gli riesce facile credere praticamente a tutto, non dovendo stare in guardia  verso niente e nessuno. Il suo godere delle cose nuove, delle cose cariche di affettività, di emozioni positive, è pieno, totale, incondizionato: dimentica in fretta le cose brutte, si apre con stupore e meraviglia di fronte a quelle belle, o anche semplicemente interessanti. Il fatto è che per lui sono tutte interessanti. Che cosa non lo è, o non lo può diventare? Una soffitta polverosa, lo spettacolo insolito dei tetti visti dall’alto di una terrazza, un cortile interno baciato dal sole d’inverno, una coppia di cigni che scivolano eleganti e silenziosi sull’acqua della roggia, davanti ai giardini ove è solito recarsi a giocare: tutto si carica di valenze insolite, tutto è degno d’interesse, di attenzione, di stupore; tutto s’imprime nella coscienza e viene conservato dalla memoria come qualcosa di mitico, di memorabile.

E i particolari! La forma a conchiglia della maniglia del cancelletto di quella casa di campagna; la ringhiera metallica con le sbarre incurvate e disposte a formare come un disco solare; i cerbiatti raffigurati sul vetro della credenza di legno chiaro per ospitare gli utensili della cucina. E quella strana associazione di parole, forse ha capito male, a seconda di come le si pronuncia cambia tutto il senso, ma lui non pensa a domandare chiarimenti, si direbbe che ami il mistero, gli piace che le parole possano avere più sensi, che si aprano su differenti universi, un po’ come avviene nei disegni dei rebus sulla Settimana Enigmistica, dove un manifesto pubblicitario del circo appeso al muro, in primo piano, non si sa in quale relazione stia con la ragazza che porta la borsa della spesa, né questa con la mucca sullo sfondo, che bruca l’erba davanti alla casa come se fosse la cosa più naturale al mondo. E poi gli odori, l’universo dei profumi, che risvegliano in lui qualcosa di profondo e lo immergono in un altrove che è più bello del qui e ora, se non altro perché non sa di dove venga, né a quale realtà appartenga: è come un universo parallelo che talvolta sfiora il mondo di tutti i giorni e apre una finestra sul mistero. E i brani delle canzoni? Al bambino risuonano negli orecchi in maniera slegata, alcune frasi sì e altre no, e soprattutto in maniera “assoluta”, cioè staccata dal contesto, sicché si caricano di una valenza molto intensa, ma in qualche modo inafferrabile, che sfugge a una comprensione razionale. In tal modo le cose, per il bambino, sono sempre sospese a metà: né del tutto intelligibili, né del tutto aliene: hanno qualche tratto familiare, che rimanda a cose note, a impressioni e sensazioni già provate, eppure al tempo stesso sono rivestite di mistero, sono elusive, sfuggono tra le dita, ci sono ma non si sa da dove siano arrivate. Una sola idea non lo sfiora: che le cose possano sparire, uscire dal suo universo, così come sono apparse. Una tale idea non lo sfiora perché, se lo facesse, ciò indicherebbe in lui una nozione che è tipicamente adulta: la nozione della fine. Per l’adulto le cose hanno una storia, una vita e quindi anche una fine, tutte; per il bambino, no: le cose sono qui, perciò è assurdo che domani possano non esserci più. L’idea della fine, della scomparsa, dell’uscita definitiva di scena, non fa parte della mente infantile: per essa sarebbe contraddittorio che ciò che esiste, che è presente, che appartiene al mondo della realtà, in futuro possa non esserci. Vi è una logica, in questo, la terribile logica dei bambini: come è possibile che l’esistente cessi di esistere, che l’essere smetta di essere, che dia le dimissioni e se ne vada chissà dove? Via, non sarebbe serio. E la logica del bambino è tremendamente, implacabilmente seria. Non fa sconti a nessuno, né accetta surrogati di spiegazioni che accontentano le modeste pretese dell’adulto. In genere si suppone che la mente del bambino sia più semplice, più elementare di quella dell’adulto; niente affatto, se con ciò s’intende che funzioni in modo poco rigoroso. È molto rigorosa, anzi: ma di un rigore particolare, che l’adulto non capisce e del quale sorride, perché lo vede come una debolezza del pensiero. E invece il pensiero del bambino è più forte, nel senso di più consequenziale, non più debole di quello dell’adulto: talmente forte che non si rassegna all’idea di dover fare delle eccezioni alla regola. E la regola è che le cose esistono per sempre, e non possono prendersi il lusso di andare in pensione.

Questa constatazione ci conduce a un altro punto fermo: la conoscenza del bambino è di tipo assoluto e giammai relativo. Quel che il bambino scopre del mondo, quello che viene a sapere, quello che entra a far parte del suo bagaglio di esperienze, non solo vi entra per sempre, nel senso che lui non può neanche concepire che un giorno possa uscirne, ma vi entra assolutamente, nel senso che vi entra con tutta la sua densità ontologica, con tutto il suo spessore metafisico. È inutile precisare che ciò non avviene in forma consapevole e meditata: avviene e basta. Il cortile con l’albero al centro, che può vedere dalla finestra della sua camera, appartiene a una realtà assoluta, totale, che si rivela nel tempo ma che non è del tempo, non appartiene al tempo, e pertanto si sottrae alla legge di tutte le cose temporali: quella del ciclo esistenziale, che ha un principio, uno sviluppo e una fine. No: per lui quel cortile, quell’albero, quella luce, quell’odore, quell’atmosfera, non appartengono al tempo, ma al Tutto. Non si chiede dove saranno domani, fra dieci anni o fra cinquanta, perché se se lo chiedesse, ragionerebbe come l’adulto, all’interno del tempo; ma il bambino non riconosce i diritti del tempo, non riconosce la sua signoria sulle cose, e quindi, in prospettiva, non riconosce alcun diritto di cittadinanza alla morte. La morte, per lui, non esiste: o almeno non esiste nel senso che le danno gli adulti. Se le cose e le persone sono qui e ora, come potrebbero scomparire un domani? Non c’è niente che sia fuori del qui e ora: tutto vi è compreso, perché il bambino vede e conosce il mondo attraverso il qui e ora, non attraverso il ragionamento astratto, e tanto meno attraverso i libri. Per lui non ci sono filtri intellettuali, il mondo parla di sé e si rivela attraverso la propria evidenza, il proprio esserci: e dunque se c’è, bisogna essere ben pazzi per mettere in dubbio che ci sarà anche domani. Forse che qualcuno o qualcosa se lo può ingoiare? Forse che si può auto-annullare? No, non può. Perché il mondo, per il bambino - non è un ragionamento, è un’intuizione – è ordinato; e se è ordinato, allora ogni singola cosa deve essere sempre lì, esattamente al suo posto. Che razza di manicomio sarebbe se le cose potessero prendersi la licenza di andarsene via, chissà per qual ragione! E dove andrebbero a nascondersi, poi? Le cose non possono fuggire da sé: sono ciò che sono, appartengono a se stesse come il volo appartiene agli uccelli e come lo scrosciare appartiene all’acqua del fiume che scorre sui ciottoli del letto. Sovente l’adulto prova un sentimento d’invidia di fronte alla rocciosa certezza del bambino che le cose permangono e non possono andar via, perché pensa con nostalgia a quando anche lui non credeva alla morte. Ma siamo certi che questa sia una debolezza dell’anima infantile? Che sia una carenza di senso logico, utile però a proteggere la coscienza dalla ferita del mai più? E se invece fosse l’indizio di come le cose dovrebbero essere, e in realtà sono, a guardarle bene?

Proviamo a riflettere. Nella sua maniera semplice (non semplicistica: il semplicismo è un difetto dell’adulto rimbamboccito, una degenerazione e non una struttura primaria) il bambino vede che le cose esistono secondo una certa logica, altrimenti non esisterebbero, o sarebbero del tutto incomprensibili; e ne deduce che sono. Ora, se una cosa è, vuol dire che è assolutamente: qualcuno o qualcosa l’ha chiamata, e una volta che essa è venuta, non può essere congedata come se non ci fosse mai stata. Essere vuol dire questo: che quello che è, è; mentre quel che non è, non è. Tuttavia la mente dell’adulto constata che le cose non ci sono più. Si torna sui luoghi dell’infanzia, e non si trovano più le persone; perfino le case sono scomparse, o sono talmente cambiate da risultare quasi irriconoscibili. Diremo di più: sono quasi irriconoscibili anche se sono rimaste più o meno le stesse. La medesima impressione si ha quando ci si trova fra le mani una scatola con i giocattoli dell’infanzia: sono proprio quelli, però non parlano più come allora, non evocano quel mondo che allora evocavano. Sono diventati muti, indecifrabili: una distanza si è interposta fra noi ed essi. Un muro invisibile ci separa e c’impedisce di provare quel che provavamo allora, di godere di quello stupore, di quella meraviglia. Siamo diventati più saggi o ci siamo scordati dell’essenziale? L’essenziale è sempre presente alla coscienza del bambino, ed è quello che Antonio Rosmini chiamava il sentimento fondamentale, l’autocoscienza, che implica la coscienza di esserci e la coscienza di essere altro dal mondo. Laddove il pensiero filosofico moderno ha battuto soprattutto queste due strade: la dissoluzione dell’autocoscienza nell’esistenza, qualcosa che non è nostro ma nel quale noi siamo gettati; e la dissoluzione del senso di differenza fra la coscienza e il mondo, in favore di una sorta di panismo vagamente misticheggiante. Entrambe sono strade senza uscita ed entrambe conducono alla perdita della libertà dell’io: se la coscienza è indistinguibile dalle concrete situazioni esistenziali, oppure se è indistinguibile dal mondo circostante, allora non c’è più un io; ma se non c’è l’io, non c’è più nemmeno il libero arbitrio, perché solo la coscienza dell’io, cioè l’autocoscienza, si esplica nella coscienza morale. In pratica, il pensiero moderno ha condotto l’uomo a darsi da se stesso scacco matto: se non ha il libero arbitrio, se non ha la piena coscienza di sé, allora non è che un essere in balia degli eventi; oppure una fibra indifferenziata dell’universo, dunque il sogno di un sogno, l’auto-illusione di qualcosa che non è. In entrambi i casi rimane inesplicabile il venir meno delle cose, che è la più notevole esperienza conoscitiva e affettiva cui l’uomo va incontro nel corso della propria vita. Capire dove vadano a finire le cose è essenziale per conservare la fede nella razionalità del mondo, per sottrarsi al dubbio lacerante che esso sia solo un sogno, un’illusione, una beffa.

I casi sono due. O le cose sono per sempre, o sono per il nulla: nel qual caso fa poca differenza se cessano di esistere o se sono sempre state una nostra percezione soggettiva e, in ultima analisi, illusoria. E quella bellissima giornata di primavera, in collina, con la sua mamma, che ha riempito di gioia il cuore del bambino, o è stata inghiottita dallo scorrere del tempo, o non è mai stata altro che una specie di sogno a occhi aperti. Ma se è stata un sogno, chi lo ha sognato, visto che in questa ipotesi non esiste un’autocoscienza distinta dal mondo e dotata di libero arbitrio? E se è stata inghiottita dal tempo, come ha fatto il tempo, che è movimento delle cose a produrre l’annullamento di una cosa? Le cose si muovono perché, dice Aristotele, qualcosa le muove; e non potendo risalire all’infinito, bisogna postulare per forza l’esistenza di un Motore Immobile, che muove ogni cosa senza essere mosso da alcuno. Ora, perché mai il Motore Immobile dovrebbe far scomparire le cose? Perché dovrebbe fare questa cattiva magia, se non per beffarsi degli uomini, dei loro affetti, di tutto ciò che ad essi è caro? Ciò sarebbe contro la logica e contro il buon senso. Il Motore Immobile è anche la Causa Prima: e come si può immaginare la Causa Prima che muove gli esseri al solo scopo di farsi beffe di loro? Prendersi gioco di qualcuno indica un movimento secondario, i movimenti primari essendo quelli che consentono agli esseri di mantenere il proprio equilibrio: ma la regola è che un movimento secondario non deve ostacolare un movimento primario, pena il disordine che intacca l’equilibrio dell’essere. Ora, l’Essere che dà movimento a ogni cosa non può andare contro se stesso, disperdendosi in movimento futili e disordinati. Dio non gioca ai dadi, diceva Einstein; e si può aggiungere che Dio non gioca affatto con le sue creature. Non le ha create per beffarsi di loro, ma per condurle alla pienezza dell’essere. E dunque al Tutto, giammai al nulla...