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Occidente: la guerra è il suo principio… O la sua fine?

di Luigi Tedeschi - 08/01/2025

Occidente: la guerra è il suo principio… O la sua fine?

Fonte: Italicum

La balcanizzazione del Medio Oriente
Assad, l’ultimo tiranno, è stato abbattuto. L’Occidente, giustiziere biblico implacabile di dittatori e stati canaglia, con la fine del regime filorusso di Assad, vuole riaffermare la sua strategia neocoloniale nell’area mediorientale. Dalle narrazioni mediatiche ufficiali, emergono le facoltà taumaturgiche di un Occidente capace di tramutare le bande dei mercenari tagliagole di al-Jolani (già capofila nelle liste dei terroristi ricercati), in “jihadisti moderati”, convertiti all’Occidente americano, alla pari dei neonazisti ucraini promossi a patrioti. Folgorazioni miracolose che accadono sulla via di Damasco.
La caduta di Assad è avvenuta conformemente alle strategie già messe in atto con le primavere arabe, con relativa destabilizzazione degli stati, il cui esito è fatalmente l’avvento di un caos permanente: la Siria si appresta a diventare una Libia 2.0.
L’idea di un riassetto geopolitico del Medio Oriente ha origini lontane. Occorre risalire al progetto dell’analista israeliano Oded Yinon del 1982, che prevedeva, al fine di garantire la sicurezza di Israele, la balcanizzazione del Medio Oriente, attraverso la scomposizione dei paesi arabi in tanti piccoli stati privi di autonome risorse ed in perenne conflitto tra di loro. Così si espresse Yinon: “Ciò che vogliamo non è un mondo arabo, ma un mondo di frammenti arabi destinato a soccombere all’egemonia israeliana”. Era dunque necessaria “la frammentazione della Siria e dell’Iraq secondo linee etniche e religiose, così come avviene oggi in Libano […]. Nei territori corrispondenti all’attuale Siria nascerà uno Stato alawita lungo la costa, uno Stato sunnita intorno ad Aleppo, un altro Stato sunnita nell’area di Damasco ostile al suo vicino settentrionale e uno Stato druso nell’Hauran e nel nord della Giordania”. Tale progetto di smembramento del mondo arabo si rivelò poi del tutto coerente con i disegni egemonici (sia strategici che energetici), degli USA nell’area mediorientale.
La storia recente ce ne offre una evidente conferma:
1) Nel 2001 con la presidenza Bush era stato predisposto dal Pentagono un piano che prevedeva lo smembramento di 7 paesi: Iraq, Siria, Libano, Somalia, Iran, Sudan.
2) Nel 2003 Bush intraprese infatti la seconda guerra di aggressione all’Iraq e nel 2006 Israele invase il Libano.
3) Nel 2012 con la presidenza di Obama, nel contesto della strategia di ristrutturazione del Medio Oriente e del Nord Africa messa in atto con le primavere arabe, l’attacco al regime di Assad si rese necessario al fine di eliminare l’influenza nell’area dell’Iran, che attraverso la Siria sosteneva Hezbollah, mettendo a rischio la sicurezza di Israele.
La guerra a Gaza e in Libano, condotta da Israele con bombardamenti incessanti e stragi tra la popolazione civile, è stata l’occasione propizia per la riviviscenza nello Stato ebraico del mito espansionistico del Grande Israele, dal Nilo all’Eufrate. Con la caduta di Assad, sono emerse ulteriori velleità egemoniche da parte di Israele, che ha esteso l’occupazione delle alture del Golan e distrutto quasi del tutto gli armamenti siriani. Tale prospettiva espansionistica è descritta da Giacomo Gabellini nell’articolo “ll crollo della Repubblica Araba Siriana riattualizza il Piano Yinon” in cui viene citato un articolo del «Times of Israel», “che il 4 dicembre ha pubblicato un editoriale a firma di Dan Ehrlich in cui si sosteneva apertamente la necessità di ricavare un lebensraum sufficientemente ampio da sostenere la crescita della popolazione israeliana, che secondo le proiezioni dovrebbe raggiungere gli 11,1 milioni entro il 2030, i 13,2 milioni entro il 2040 e i 15,2 milioni entro il 2048”.
Tra l’altro, il mainstream occidentale, nell’esaltare le imprese dei jihadisti già tagliagole e militanti del Califfato dell’Isis assurti oggi a patrioti liberatori della Siria e nel mostrare le immagini raccapriccianti delle carceri del tiranno Assad, ha omesso però ogni riferimento al mancato rinvenimento delle armi chimiche di cui lo stesso Assad avrebbe fatto uso nella repressione dei “ribelli”. E’ evidente che, al pari delle false prove prodotte in sede ONU dagli USA riguardo alle armi di distruzione di massa di Saddam, anche quelle di Assad si sono rivelate inesistenti. Trattasi di fake news predisposte dalla superpotenza americana allo scopo di giustificare dinanzi all’opinione pubblica mondiale le proprie guerre imperialiste.
Quale destino attende la Siria? Quello cui è condannato ogni paese soggetto all’occupazione neocoloniale dell’Occidente. L’economia siriana è ridotta allo stremo, dopo aver subito oltre un decennio di guerre e le sanzioni internazionali. Si rileva inoltre che con l’istallazione della base militare americana di Tanf, gli USA hanno impedito allo stato siriano l’accesso alle proprie risorse petrolifere e agricole. Secondo una prassi ben collaudata nella ex Jugoslavia e in Iraq, i beni e le risorse siriane verranno depredate dalle multinazionali statunitensi e la popolazione verrà ridotta alla estrema indigenza dalle politiche di aggiustamento strutturale imposte dalla Banca Mondiale e dal FMI. Lo status della Siria sarà del tutto simile a quello del Libano, con una economia fagocitata dai gruppi finanziari occidentali. La Siria sarà condannata a dipendere dalle importazioni e a subire l’esproprio delle proprie risorse.
Ma l’attuazione di tale disegno neocoloniale presuppone la stabilità delle istituzioni e la sicurezza interna. Condizioni, la cui realizzazione risulterà presto impossibile.
L’Occidente, Israele e le ambizioni neo ottomane della Turchia
La Siria sarà afflitta da ulteriori guerre e dal caos permanente. E’ impensabile che le truppe di al-Jolani, fino a ieri dedite alle guerre mercenarie e al terrorismo, si trasformino in amministratori e governanti capaci di ripristinare un ordinamento istituzionale stabile e tanto meno di istaurare un regime democratico. Inoltre, gli “jihadisti moderati” sono divisi in una miriade di sigle, finanziate ed armate da potenze spesso contrapposte, quali gli USA, la Turchia e le monarchie del Golfo. Con la spartizione delle risorse e dei territori siriani esploderanno presto conflitti tra bande tribali che si riveleranno irriducibili ed incontrollabili, dando luogo ad una situazione di caos generalizzato senza sbocchi del tutto simile a quella della Libia.
Da tutto ciò emerge una considerazione sconfortante: nessuno degli attori del conflitto siriano (Turchia, Israele, USA, Emirati Arabi, Arabia Saudita, Iran), è in grado, né ha interesse alla ricostituzione di uno stato siriano unitario stabile ed indipendente.
Israele, sebbene abbia distrutto il 90% degli armamenti siriani, potenzialmente utili ad eventuali nemici ai propri confini ed abbia esteso la sua zona di sicurezza nel Golan, sarà tuttavia costretta ad un maggiore impegno militare in Siria. La destabilizzazione della Siria non gioverà comunque alla sicurezza dello Stato ebraico, le cui forze armate risultano attualmente assai provate, dal momento che Israele non è riuscito a sradicare Hamas da Gaza, né tantomeno a sconfiggere Hezbollah in Libano.
Israele mira alla frammentazione del Medio Oriente e quindi alla strategia del caos e non auspica comunque, date le sue ambizioni di illimitata espansione territoriale, una definizione netta e stabile dell’area mediorientale. Ma soprattutto non tollera la presenza di altre potenze ostili ai propri confini. All’Iran sconfitto, con la caduta di Assad, si è sostituita la Turchia. Erdogan ha sempre perseguito disegni egemonici, evitando tuttavia il contrasto con l’Occidente nelle aree di influenza americana, dato che la Turchia stessa è membro della Nato.
Il crollo della Siria rappresenta una vittoria della Turchia, nella misura in cui essa abbia la possibilità di estendere la propria influenza sul nord del paese, estromettendo i curdi e deportando in tali regioni i profughi siriani già rifugiatisi in Turchia. Ma poiché nell’area occupata dai curdi incombe l’ipoteca degli USA, gli interessi della Turchia verrebbero necessariamente a configgere con quelli americani. Inoltre, tra le incognite del prossimo futuro, è da annoverare quella relativa alla politica che perseguirà nei confronti della Turchia la presidenza Trump, che già intraprese manovre destabilizzanti contro Erdogan con l’attacco alla lira turca.
Potenziali conflitti potrebbero emergere anche tra Turchia e Israele per quanto concerne sia gli interessi energetici che quelli politici. La Turchia vorrebbe controllare le forniture energetiche tra il Medio Oriente e l’Europa, mentre Israele coltiva progetti alternativi con Grecia e Cipro per lo sfruttamento del gas nel bacino del Mediterraneo orientale. Dal punto di vista politico, la Turchia mira all’egemonia nel mondo sunnita, in contrasto con le monarchie del Golfo e soprattutto con Israele, che invece vuole costituire, mediante il ripristino degli Accordi di Abramo, un fronte unitario contro l’Iran.
Nel contesto della politica di espansione neo ottomana della Turchia, la caduta di Damasco, così come il ritorno della Libia nell’area di influenza turca, si configurano come eventi di alto valore simbolico. Segnano il ritorno della Turchia al ruolo di potenza nel mondo arabo – islamico, a discapito dell’Iran, che, con la perdita della Siria, non potrà più sostenere adeguatamente Hezbollah in Libano. Di riflesso, l’espansione della Turchia assume un significato simbolico anche per l’Occidente, che viene estromesso da vaste regioni dell’Africa e dell’Asia, che erano aree di rilevante importanza strategica per gli USA.
Siria: ha vinto l’Occidente?
Il crollo della Siria rappresenta una dura sconfitta per l’Iran, la cui area di influenza in Medio Oriente appare assai ridimensionata. Per l’Iran, Assad era indifendibile ed una partecipazione attiva iraniana al conflitto avrebbe costituito il pretesto per un intervento diretto americano, che è da tempo caldeggiato da Israele, in quanto il principale obiettivo strategico israelo – americano è la distruzione dell’Iran. Progetto che resta peraltro velleitario e di portata troppo estesa, in quanto un attacco strategico americano all’Iran presupporrebbe anche l’annientamento dell’Iraq.
Il mainstream occidentale accredita la tesi di un Iran come potenza – tigre di carta ormai sconfitta insieme all’Asse della Resistenza. Certo è che l’Iran ha subito delle perdite assai rilevanti con l’attentato alla sua ambasciata in Siria, l’uccisione di Nasrallah, la morte (presumibilmente a causa di un attentato) del presidente Raisi, oltre agli attentati a vari alti esponenti del suo establishment. Ma tutto ciò potrebbe preludere ad un rafforzamento della potenza iraniana mediante l’incremento della sua partnership economica e militare con la Russia ed il varo dell’armamento nucleare. Adottando tali contromisure, l’Iran, dotandosi della necessaria deterrenza nucleare, potrebbe pervenire ad un certo equilibrio strategico nel conflitto con gli USA e Israele.
In Iraq, che tra l’altro ha schierato rilevanti contingenti militari ai confini con la Siria, sono affluite folte schiere di truppe siriane rimaste fedeli ad Assad. L’Iraq si sente minacciato dalle forze jihadiste che già invasero i suoi territori e istaurarono il Califfato dell’Isis (e al-Jolani non è peraltro controllabile, nemmeno dalla stessa Turchia). Approfittando della conflittualità che presto sorgerà tra i gruppi islamisti occupanti, potrebbe aver luogo nel prossimo futuro un contrattacco congiunto delle forze irachene, iraniane e forze curde (qualora i curdi venissero, come in passato, abbandonati dagli americani). E’ quindi assai prevedibile un reinserimento dell’Iran nel contenzioso siriano.
Occorre infine rilevare che, date le buone relazioni che intercorrono tra il Qatar e l’Iran, potrebbe tornare di attualità il progetto del gasdotto che avrebbe fatto affluire il gas estratto dall’enorme giacimento di South Pars/North Dome (condiviso tra Qatar e Iran), all’Europa attraverso l’Iraq e la Siria. Tale progetto non fu realizzato a causa della guerra civile in Siria e le sanzioni americane all’Iran.
Seppur sconfitto, l’Iran resta una potenza protagonista nell’area mediorientale, la cui strategia risulterà determinante, specie per le sorti dell’Asse della Resistenza nel conflitto israelo – palestinese.
La destabilizzazione della Siria peraltro, non farà che accrescere l’ostilità dei paesi del BRICS nei confronti di un Occidente, percepito come una costante minaccia alla sovranità e alle risorse degli stati non disposti a sottostare ai diktat della superpotenza americana. Il processo di dedollarizzazione dell’economia mondiale potrebbe subire ulteriori accelerazioni. La Russia, già alleata di Assad, ha subito una umiliante sconfitta, con la prospettiva di evacuare le proprie basi siriane per trasferirle in Libia. Pertanto, Putin potrebbe coltivare propositi revanscisti mirando ad un inasprimento del conflitto ucraino (considerato dalla Russia come una “guerra esistenziale”), onde conseguire una vittoria eclatante, che esorcizzi la sconfitta siriana. La stessa Cina, sia in Ucraina che in Siria, ha visto venir meno le proprie vie commerciali verso l’Europa e il Mediterraneo, oltre a veder minacciate le sue forniture energetiche dai paesi mediorientali. E’ assai probabile che la Cina nel prossimo futuro rafforzerà il suo sostegno a tutte le forze ostili all’Occidente sia in Asia che in Africa.
Nel contesto della geopolitica mondiale, è la conflittualità per il controllo delle aree energetiche ad offrici una obiettiva chiave di interpretazione della strategia imperialista americana. Dal 2010 gli USA, divenuti autosufficienti ed esportatori di energia, hanno mirato a destabilizzare le aree energetiche, mediante le guerre, le sanzioni (vedi Iran e Russia), colpi di stato eterodiretti (vedi primavere arabe e rivoluzioni colorate). La guerra russo – ucraina infatti ha comportato la cessazione dell’export di gas russo verso l’Europa, con la concomitante debacle dell’economia tedesca. In virtù della propria sicurezza energetica, gli USA hanno destabilizzato gli altri mercati energetici, a discapito dell’Europa e della Cina. Non a caso Trump ha recentemente minacciato l’erogazione di pesanti dazi sull’export europeo, qualora la UE non incrementi l’importazione di energia e armi americane.
Ci si chiede dunque se realmente l’Occidente, con la fine di Assad, abbia conseguito una vittoria. Israele e USA, così come tutto l’Occidente sembrano sempre più isolati nella geopolitica mondiale. La memoria storica non può in alcun caso essere smentita. Negli anni ’70 la guerra del kippur comportò l’ingresso dell’Egitto nella sfera atlantica e la parallela fuoriuscita dell’URSS dall’area; a seguito dell’embargo petrolifero, l’afflusso dei petrodollari nei mercati statunitensi rafforzò il dollaro e il primato dell’economia americana nel mondo; gli accordi con la Cina ebbero l’effetto di isolare l’URSS. Il primato della potenza americana era indiscusso. Ma ben presto, nel ’75, gli USA incorsero nella più rovinosa sconfitta della propria storia in Vietnam, che incise profondamente sul prestigio e la credibilità della potenza americana, che subì poi anche rilevanti arretramenti in Asia, Africa e America Latina. Solo l’implosione dell’URSS nel ’91 pose fine alla crisi della superpotenza. Ma in seguito, l’unilateralismo americano subì ancora gravi sconfitte, nelle guerre in Iraq, Libia e Afghanistan.
Le guerre imperialiste americane hanno prodotto distruzioni immani, destabilizzazioni degli stati, crisi economiche devastanti, senza che da tali conflitti scaturissero mai nuovi equilibri geopolitici stabili. L’egemonia americana sussiste sulla base di uno stato di caos geopolitico permanente. Ma con tali prospettive, quanto potrà ancora durare il dominio dell’unilateralismo globale americano?
Occidente: una volontà di potenza fine a se stessa
Lo stato di decadenza in cui versa l’Occidente è ormai evidente: non è più in grado di affermare il suo suprematismo neppure all’interno dei paesi atlantici. La dicotomia conflittuale democrazia vs autocrazia giustificativa delle sue guerre, si riproduce anche all’interno della società occidentale con effetti devastanti per le istituzioni democratiche.
La deriva oligarchica dell’Occidente è ormai conclamata. L’annullamento delle elezioni in Romania, gli artifici di ingegneria elettorale e governativa con cui viene garantita la sussistenza di maggioranze del tutto impopolari in Francia e Germania, la blindatura di una classe dirigente del tutto squalificata confermata al governo della UE, in quanto gradita alla Nato, che vuole imporre una economia di guerra all’Europa, ne sono le manifestazioni più evidenti. La volontà popolare viene disconosciuta e sovente criminalizzata come sovversiva e populista, denigrata in quanto soggetta a manipolazioni esterne (ha stato Putin!), qualora si opponga alle classi dominanti. Il confronto democratico è divenuto dunque impraticabile.
La propaganda martellante a senso unico, la menzogna generalizzata dei media, oltre alle censure sui social, hanno l’effetto di delegittimare il consenso popolare a favore di un potere che si afferma indipendentemente dalla sua credibilità dal basso. Alla delegittimazione dell’opposizione fa riscontro quella delle élite al potere e, alla lunga, delle istituzioni stesse, nella misura in cui queste ultime si identifichino con la supremazia delle classi dominanti. Da tale stato di cose si generano i presupposti di potenziali guerre civili. Occorre inoltre rilevare che la prolungata mancanza di ricambio delle classi dirigenti, conduce fatalmente alla dissoluzione degli stati.
Con l’avvento del sistema neoliberista, sono venute meno anche le motivazioni ideologiche con cui l’Occidente giustificava il proprio primato. Ormai la superpotenza americana fonda il proprio dominio unicamente sulla propria volontà di potenza. L’Occidente, dilaniato dalla sua crisi identitaria interna, non è più in grado di esportare il proprio modello politico e sociale nel mondo. Il primato americano può sussistere solo tramite guerre infinite, sfruttamento dei popoli, depredazione delle materie prime, debito e default degli stati.
L’Occidente è giunto alla fase terminale di un processo di imbarbarimento interno che si riflette nella assenza di strategia nel contesto geopolitico mondiale. Pertanto, solo la guerra può garantire la sua sopravvivenza, specie quella degli USA e di Israele. Come afferma Franco Cardini nel suo libro “La deriva dell’Occidente”, Laterza 2023: “L’Occidente di Spengler, quello dominato dal sole dell’Europa, è definitivamente tramontato. A che punto è invece la notte al calar della quale risplendeva la costellazione degli Stati Uniti d’America e dei suoi satelliti, mentre ormai altre costellazioni si affacciano all’orizzonte?
Padre Polemos, Padre nostro crudele che sei tornato sulla terra, farai dunque la tua volontà? A Te, proprio a Te, non possiamo certo chiedere di liberarci dal Male”.