Ogni progetto che mira a imporre un pensiero unico è totalitario
di Alain de Benoist - 17/01/2023
Fonte: GRECE Italia
Demografia, immigrazione, invecchiamento, declino dell’Occidente, singolarità dell’Europa, transumanesimo, totalitarismo, Paul-Marie Coûteaux e “Le Nouveau Conservateur” invitano Alain de Benoist a dare uno sguardo concreto alle idee, prestandosi al gioco delle valutazioni e delle prospettive.
Le Nouveau Conservateur: Alain de Benoist, non è allarmato dal dato fornito dal demografo Illyès Zouari: il numero di morti nell’UE ha superato il numero delle nascite di 1,231 milioni nel 2021? È d’accordo con la sua espressione di “auto-genocidio” dell’Europa?
Alain de Benoist: No, non userei più quel termine, perché lo trovo eccessivo e inutilmente polemico. La parola «suicidio» sarebbe stata più ragionevole, anche se credo che non corrisponda esattamente alla realtà. Più in generale, non credo che dovremmo pensare in termini apocalittici, né in termini ecologici né in termini demografici. La demografia è una disciplina in cui è notoriamente impossibile fare previsioni a lungo termine: dire che al ritmo attuale scompariremo presto ha poco senso, perché non sappiamo se questo ritmo continuerà (e fino a quando).
Sono anche, come Renaud Camus, uno di quelli che crede che uno spazio finito come il nostro pianeta non possa ospitare una popolazione infinita. Olivier Rey ha dimostrato chiaramente nelle sue opere, profondamente conservatrici, che ogni aumento di quantità porta, superata una certa soglia, a un cambiamento qualitativo che trasforma la natura dei fenomeni. Ecco perché la sovrappopolazione sta aggravando tutti i problemi che dobbiamo affrontare. Ci sono voluti 200.000 di anni per arrivare a 1 miliardo di bipedi sul pianeta, poi solo 200 anni per arrivare a 7 miliardi. Abbiamo superato gli otto miliardi e potremmo arrivare a 11 miliardi entro la fine di questo secolo, il che significa che la popolazione mondiale aumenta in media di un miliardo di persone ogni 12 anni. Personalmente non voglio vivere in città con 50 o 60 milioni di abitanti…
Quando una popolazione più piccola segue una più grande, è inevitabile che a un certo punto il numero di morti superi quello delle nascite. Questo deterioramento della piramide delle età è per definizione transitorio. La Francia del 1780, con i suoi 27 milioni di abitanti (la maggior parte dei quali non parlava francese), si trovava in una posizione molto migliore rispetto alla Francia di oggi, con i suoi 65 milioni di abitanti. Aggiungerei che, contrariamente a quanto si crede, il calo della fertilità non è dovuto fondamentalmente alla contraccezione o all’aborto, ma a due fenomeni essenziali di cui non si parla abbastanza, ovvero la fine del mondo contadino (in cui un alto livello di discendenza era essenziale per mantenere i lignaggi sulle loro terre) e l’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro (che ha ritardato notevolmente l’età delle donne alla nascita del primo figlio). Sono presenti anche altri fattori: gli effetti di una mentalità edonistica che considera i bambini troppo costosi, i problemi abitativi urbani (più della metà della popolazione mondiale vive oggi nelle grandi città, ed entro il 2050 saranno i due terzi).
Detto questo, ci sono ancora due reali motivi di preoccupazione: in primo luogo, il fatto che la percentuale di nascite extraeuropee in Europa è in costante aumento a scapito delle nascite «autoctone», il che sta portando a una trasformazione del patrimonio genetico della popolazione; in secondo luogo, il differenziale di crescita della popolazione tra le diverse parti del mondo: si prevede che la popolazione della sola Africa subsahariana passerà dai 100 milioni del 1900 a 3 o 4 miliardi entro la fine del secolo, con conseguenze che ovviamente non siamo in grado di affrontare.
Le Nouveau Conservateur: Un secolo fa veniva pubblicato il libro di Oswald Spengler «Il tramonto dell’Occidente». In «Memoria viva. Un cammino intellettuale», una serie di interviste con François Bousquet in cui lei ripercorre il suo itinerario intellettuale, si legge che Spengler ha avuto una grande influenza su di lei. Cosa direbbe oggi? E per cominciare, approva il termine «Occidente»? Non crede che parlare del declino dell’Europa sarebbe più appropriato?
Alain de Benoist: Nel suo libro, che lo rese famoso in tutto il mondo, Spengler propose una concezione della storia che andava esattamente contro l’ideologia del progresso, per la quale il futuro non può che essere migliore del presente e del passato (da cui consegue che il passato non ha nulla da dirci). Per Spengler, le culture sono organismi collettivi che, come tutti gli organismi, nascono, si sviluppano, raggiungono il loro apice, invecchiano e scompaiono. Spengler ha poi tracciato un parallelo morfologico tra le dieci o dodici grandi culture dell’umanità, per dimostrare che tutte illustrano questo schema. Quest’opera è stata ovviamente accolta molto male negli ambienti progressisti, ma anche in quelli liberali che, ignorando il monito di Paul Valéry, immaginano che certe civiltà possano essere eterne.
Il termine «Occidente» era effettivamente equivoco. Come sapete, questa parola ha una lunga storia. Oggi si tende a fare riferimento a un blocco che coinvolgerebbe essenzialmente gli Stati Uniti d’America e gli europei. Questa visione mi sembra un’assurdità geopolitica. L’America, come l’Inghilterra prima di lei, è una potenza del mare, mentre l’Europa, con le sue estensioni eurasiatiche, rappresenta la potenza della terra. Carl Schmitt ha riassunto la storia come una lotta secolare tra le potenze marittime e le potenze terrestri e continentali. Che gli interessi americani ed europei (e, oltre a ciò, le rispettive ideologie fondanti) siano fondamentalmente gli stessi è un’assurdità di cui lo spettacolo degli ultimi decenni dovrebbe convincerci. Un buon esempio è il modo in cui, nella vicenda Ucraina, l’Unione Europea, su pressione degli Stati Uniti, ha adottato sanzioni contro la Russia, di cui gli europei saranno le prime vittime.
Le Nouveau Conservateur: In Germania, la vita intellettuale di un secolo fa è stata segnata da quella che è stata definita la «Rivoluzione conservatrice». Pensa che oggi possa ispirare una nuova concezione del riflesso conservatore, che è soprattutto una contestazione del vecchio mondo, di natura umanista, come ha detto a Radio Courtoisie, di fronte al totalitarismo?
Alain de Benoist: Perché no, ma solo se lo si esamina attentamente. La cosiddetta «Rivoluzione conservatrice» (l’espressione è di Armin Mohler e risale ai primissimi anni Cinquanta) si riferisce a un ampio movimento comprendente diverse centinaia di autori, gruppi politici e riviste teoriche, che ha svolto un ruolo molto importante in Germania tra il 1918 e il 1932. Questa tendenza comprendeva diverse tendenze, le quattro principali delle quali erano i giovani conservatori, i nazional-rivoluzionari, i Völkische e i Bündische. Naturalmente, non tutti sono di pari interesse. Inoltre, nella frase «Rivoluzione Conservatrice», non dobbiamo dimenticare che la parola «Rivoluzione» è importante quanto l’aggettivo «Conservatrice». I rivoluzionari conservatori sono pensatori o attori politici (Spengler, Carl Schmitt, Arthur Moeller van den Bruck, Othmar Spann, Albrecht Erich Günther, Ernst Jünger, Arthur Mahraun, ecc.) che, in contrasto con il conservatorismo del XIX secolo, ritengono che nelle condizioni attuali solo una rivoluzione possa preservare ciò che vale la pena preservare. La loro idea fondamentale è che il conservatorismo non dovrebbe cercare di preservare il passato, ma di mantenere ciò che è eterno. Si potrebbe anche dire: custodire il fuoco, non adorare le ceneri.
Le Nouveau Conservateur: In «Comunismo e nazismo», un libro da lei pubblicato nel 1998 e sottotitolato «25 riflessioni sul totalitarismo nel XX secolo (1917 al 1989)», lei ha stilato un impressionante elenco di similitudini tra i due totalitarismi che hanno coesistito, per così dire, nel XX secolo, confrontando in particolare ciò che la classe è stata per il comunismo con ciò che la razza è stata per il nazismo: due categorie da eliminare fisicamente (Stalin: «I kulaki non sono esseri umani, l’odio di classe deve essere coltivato con repulsioni organiche verso gli esseri inferiori»). In entrambi i casi, questi totalitarismi del secolo scorso non hanno ceduto alla progressiva illusione che fosse possibile, eliminando gli esseri inferiori, creare un uomo nuovo? Non è ancora oggi lo stesso delirio volto a creare con la tecnica una nuova razza di uomini?
Alain de Benoist: La tematica rupturalista dell’«uomo nuovo» risale a san Paolo, ma evidentemente non gli ha dato lo stesso significato dei grandi totalitarismi moderni, né quello dei sostenitori del «transumanesimo» contemporaneo. Ciò che è vero, tuttavia, è che in tutti i casi questo tema tende a giustificare misure di eliminazione di coloro che sono considerati inferiori o semplicemente «uomini di troppo» (Claude Lefort), ad eccezione di coloro che accettano di convertirsi alla nuova doxa dominante. Oggi, l’uomo nuovo di cui si annuncia l’avvento è soprattutto un uomo «aumentato» dalle nuove tecnologie – ma abbiamo tutte le ragioni per credere (mi riferisco ancora una volta agli scritti di Olivier Rey) che sarà in realtà un uomo diminuito. La cancel culture, il «wokismo» e la teoria del gender contribuiscono a questa spinta, che sembra preannunciare una vera e propria mutazione antropologica, contro la quale l’azione politica sarà, temo, del tutto impotente.
Le Nouveau Conservateur: Lei ha introdotto la stessa opera («Comunismo e nazismo») con una citazione di Alain Finkielkraut: « Un tempo sordo al totalitarismo, il pensiero è ora accecato da esso». Non siamo forse entrati, senza rendercene conto, in una nuova era totalitaria?
Alain de Benoist: Senza dubbio, ma non dobbiamo cedere a una certa tendenza attuale, soprattutto a destra, che consiste nel vedere polemicamente il «totalitarismo» ovunque. Ci vuole rigore per gestire le parole che sono state usate troppo. Da parte mia, mi limiterò a una semplice osservazione. Abbiamo commesso l’errore di definire il totalitarismo in base ai mezzi utilizzati dai grandi totalitarismi storici (censura, partito unico, arresti arbitrari, deportazioni, Gulag, campi di concentramento, ecc.), senza porci troppe domande sui fini. Ma i mezzi totalitari erano usati solo per uno scopo specifico: l’allineamento (Gleichschaltung), la soppressione dei modi di pensare dissenzienti, l’eradicazione di qualsiasi pensiero che si discostasse dall’ideologia dominante. Il totalitarismo, in altre parole, era nel fine molto più che nei mezzi. Una volta compreso questo, non si può fare a meno di notare che le società liberali contemporanee mirano esattamente allo stesso obiettivo, ma con mezzi diversi – mezzi meno brutali, persino di natura piacevole e seducente, che vanno di pari passo con l’attuazione di un monitoraggio e di una sorveglianza di portata (ed efficacia) senza precedenti. Da qui la mia diffidenza verso l’Unico, a cui di solito contrappongo quello che Max Weber chiamava il «politeismo dei valori».
Questa intervista, condotta da Paul-Marie Coûteaux, è apparsa nell’ultimo numero de Le Nouveau Conservateur, consultabile qui: lenouveauconservateur.org
L’intervista è stata pubblicata successivamente sul sito di Éléments, «Tout projet qui vise à imposer une pensée unique est totalitaire », il 17 gennaio 2023.