Oltre le vecchie classi sociali c'è una Italia complessa che attende risposte
di Mario Bozzi Sentieri - 24/05/2017
Fonte: Mario Bozzi Sentieri
La fotografia dell’Italia, scattata dall’annuario statistico dell’Istat, tratteggia, quest’anno, un quadro sociale decisamente originale. A venire meno – secondo questa analisi - sono infatti le storiche divisioni sociali, costruite intorno alla distinzione borghesia/classe operaia, così come ci sono state trasmesse dalla cultura d’impronta ottocentesca, nel segno – si può leggere nel “Rapporto” – di una “complessità” del mondo del lavoro, che “ha fatto sì che le diversità aumentassero, acuendo di conseguenza non solamente le diseguaglianze tra le classe sociali, ma anche all’interno di esse”.
Ad emergere – secondo l’Istat - sono nove categorie trasversali: famiglie a basso reddito con stranieri, famiglie tradizionali della provincia, famiglie di operai in pensione, famiglie di impiegati, i giovani blue collar, il gruppo delle persone anziane sole e dei giovani disoccupati, il gruppo delle “pensioni d’argento” e infine la classe dirigente.
La classe operaia (urbana e agricola) ha perso il suo connotato univoco e si ritrova, coerentemente con la posizione lavorativa che determina il nuovo gruppo, per quasi la metà dei casi nel gruppo dei giovani blue-collar e per la restante quota nei due gruppi di famiglie a basso reddito (di soli italiani o con stranieri). Questi tre gruppi effettivamente si distinguono per la posizione lavorativa della persona di riferimento, ma si differenziano profondamente per capacità reddituale: i giovani blue-collar, infatti, pur non rientrando tra le fasce di popolazione con maggiore benessere economico, hanno una situazione reddituale equivalente alla media nazionale; le famiglie rientranti nei due gruppi a basso reddito, invece, hanno un benessere economico, così come desumibile dal loro reddito, peggiore di tutte le altre famiglie, in particolare le famiglie con stranieri. Ciò a conferma di come l’appartenenza a una classe sociale non sia sempre sufficiente a determinare capacità, disponibilità e investimento omogenei all’interno della classe sociale stessa.
Di fronte a questa nuova “trasversalità sociale” l’invito – che facciamo nostro – è di sviluppare nuove strategie d’intervento, che prendano in considerazione le emergenze in atto, dando risposte congiunturali e strutturali alla crisi.
Sul primo livello c’è l’inadeguatezza delle politiche del lavoro, nel rimpallo delle competenze tra Governo e Regioni, laddove sarebbe finalmente auspicabile la creazione di un sistema integrato di orientamento, in grado di “accompagnare” il disoccupato e l’inoccupato nell’inserimento lavorativo.
Sul piano sociale un ruolo tutto particolare è quello svolto dalle famiglie, che vanno sostenute non solo a livello del mero sostentamento, quanto anche in ragione della loro funzione formativa nei confronti delle giovani generazioni. Centrale appare il tema della mobilità sociale, correlato a quello dell’istruzione superiore, su cui è necessario investire massicciamente per favorire il necessario ricambio dei ceti dirigenti e tra le generazioni (preoccupa – da questo punto di vista – che siano 2,2 milioni i giovani che non studiano e non lavorano).
Se è vero – come scrive l’Istat – che "la classe operaia ha abbandonato il ruolo di spinta all'equità sociale mentre la borghesia non è più alla guida del cambiamento e dell'evoluzione sociale", occorre rielaborare una cultura in grado di coniugare spinta all’equità sociale e nuovo dinamismo evolutivo. Essenziale, in questo ambito, è individuare nuovi strumenti di mediazione politica in grado di rappresentare la frammentazione delle nuove classi sociali ed il venire meno delle vecchie.
Famiglie, associazionismo diffuso, categorie produttive possono allora diventare i nuovi strumenti di “rappresentanza” della realtà sociale, a patto che vengano sorrette da una nuova consapevolezza culturale, da un’etica della responsabilità sociale e da conseguenti apparati istituzionali.
Si dia insomma voce al Paese Reale, alla sua complessità sociale e alle sue domande sopite. In gioco c’è ben altro che qualche punto di Pil. Il rischio è la disarticolazione politico-sociale, fase estrema dell’ormai cronica crisi italiana.