Oltre lo scetticismo
di Flores Tovo - 26/02/2024
Fonte: Flores Tovo
Come si sa il termine scetticismo deriva dal greco skèpsis che significa indagine, ricerca, riflessione. La scepsi implica la sospensione dell’assenso (epochè) su tutti i valori, le credenze, le conoscenze del mondo esterno, pretendendo di avere una giustificazione razionale di ogni negazione posta. In tal senso lo scetticismo appartiene alla filosofia. Contrariamente a quello che si crede, non si deve tradurre la parola skèpsis come dottrina del dubbio. Hegel riteneva che lo scetticismo non fosse dubbio, poiché “…dubbio significa l’opposto della quiete, la quale dello scetticismo deve essere il resultato; dubbio viene da “due” e consiste nell’oscillare fra due o più tesi: non ci s’acquieta né in una né in un’altra, ma ci si dovrebbe soddisfare o d’una o d’un’altra, sebbene si dubiti di tutte” (1), mentre il perseguimento finale dello scetticismo è quello di giungere all’atarassia e all’imperturbabilità.
Il primo pensatore che aprì le porte allo scetticismo, secondo lo storico Diogene Laerzio, fu Omero (Vite, IX, 71), il quale discuteva della medesima cosa in modi opposti. Sicuramente troviamo altri accenni in alcuni frammenti di Eraclito come il nr. 9 (Sceglierebbero gli asini strame, piuttosto che oro…), il 46 (L’opinione è epilessia), il 61 (Il mare è l’acqua più pura e più impura: per i pesci potabile e fonte di vita, imbevibile e mortale per gli uomini). Ma come si può notare Eraclito non va oltre ad un relativismo gnoseologico, che è solo un aspetto secondario della filosofia scettica antica: di certo egli influenzò il relativismo dei Sofisti, in particolare di Protagora, ma di più non si può dire. Anche la sua influenza sullo scettico Enesidemo di Alessandria, che visse all’epoca di Cicerone, è tutta da dimostrare, anzi recenti studi discordano su tale opinione. Lo stesso Gorgia da Lentini, il più radicale dei Sofisti, non andava oltre la negazione dell’esistenza dell’Essere, per cui può al massimo essere definito piuttosto come un nichilista ante litteram che uno scettico.
Si possono considerare assai affini allo scetticismo i filosofi della Media Accademia come Arcesilao, e della Nuova Accademia come Carneade. Essi ritenevano che non esistessero criteri per stabilire una verità oggettiva, proponendo comunque criteri di credibilità come la rappresentazione persuasiva o probabile (Arcesilao) e il criterio di verosimiglianza (Carneade). Di certo tali filosofi si contrapposero sia all’epicureismo che allo stoicismo, due correnti di pensiero che si riferivano ad un naturale principio oggettivo e determinato (per Epicuro tale principio era il meccanicismo causale, per gli stoici il Dio provvidenziale).
In verità il primo fondatore dello scetticismo fu Pirrone di Elide (365-275 ca. a.c.), il quale durante la sua vita servì anche nell’esercito di Alessandro Magno. Questa peregrinazione militare lo portò a visitare l’Egitto, la Persia e l’Asia centrale, entrando in contatto coi costumi dei “gimnosofisti” (sapienti che giravano nudi), con i fachiri e con la saggezza indiana che insegnava uno stile di vita ascetico, fondato sull’impassibilità. Pirrone si convinse che la struttura della realtà dei fenomeni esterni che apparivano era impossibile da conoscere, per cui veniva a mancare qualsiasi punto di riferimento tale da poter stabilire se si dice il vero o il falso. Infatti, se non si sa cosa siano le cose che appaiono, è impossibile esprimersi a riguardo: la verità, come insegnava Aristotele, sta nel pensiero e nei discorsi, mentre la “misura”, cioè il punto di riferimento per concordare se si dice il vero o il falso, è data invece dal mondo esterno. Ma se il mondo esterno è inconoscibile, la verità, così intesa, diventa pura illusione. La realtà esterna rimane quindi senza determinazioni fattuali concrete, per cui le sensazioni e le opinioni rimangono dentro nei soggetti, senza poter fare raffronti coi loro oggetti. Da ciò discende la sospensione del giudizio (epochè) e l’”afasia”, che è la rinuncia a pronunciarsi su ogni argomento.
È evidente che lo scetticismo pirroniano, come quello successivo di Enesidemo, Agrippa e Sesto Empirico, si contrappone totalmente all’epicureismo, ma soprattutto allo stoicismo, in particolare a quello di Zenone di Cizio, di Cleante di Asso o di un Crisippo di Tarso. Per questi ultimi il mondo fisico esterno esisteva nella sua realtà che tutto comprendeva: tutto era “corpo” vivente che era guidato dalla Provvidenza divina razionale, dal “Lògos”, che pianificava il percorso del cosmo secondo una necessità pervasiva. La conflagrazione, la palingenesi e l’apocatastasi (ristabilimento) si ripetevano perennemente. Da qui nasceva l’idea dell’eterno ritorno dell’uguale, che tanto ispirò Nietzsche. L’unica forma di libertà era la cognizione della necessità, per cui ogni cosa, ogni gesto, ogni situazione si ripresentavano tali e quali erano stati, secondo un destino destinato.
Lo scetticismo rispose alle determinazioni oggettive e materialistiche dell’epicureismo e dello stoicismo mostrandole nella loro nullità: il pensiero scettico sopprime ogni dogma, ogni contenuto e ogni verità metafisica consolidata. La libertà del soggetto si attua pienamente con lo scetticismo, disponendosi appunto contro la filosofia dogmatica, affermandone la negatività. Hegel scriverà nelle sue “Lezioni sulla storia della filosofia” che proprio per questo esso è “invincibile”. Tuttavia, si tratta pur sempre di una invincibilità espressa un senso soggettivo, riguardante solo l’individuo. Questo negare l’oggetto conferisce allo scetticismo una grande forza dialettica. “Scetticismo significa dialettica”, scrive Hegel, e più precisamente la dialettica del negativo. Questa capacità di negare ogni verità assoluta sarà delineata coi 10 tropi (modi) di Enesidemo e ancor più coi 5 di Agrippa. I tropi di Enesidemo sono i motivi di sospensione dell’assenso che nascono mettendo a confronto gli usi e costumi, le credenze, i sistemi morali che sono diversi fra i vari popoli: lo scopo è appunto quello l’“epochè”. Tuttavia, i tropi più profondi sono quelli di Agrippa, del quale non si sa nulla, se non quello che ci viene riportato da Sesto Empirico (empirico nel senso di medico) nei suoi 3 libri, chiamati Ipotiposi pirroniane (Lineamenti), che costituiscono la fonte e il compendio che riporta tutte le notizie sullo scetticismo. Tali 5 tropi sono applicati soprattutto a ciò che è pensato, mentre i 10 di Enesidemo riguardavano ciò che è percepito. Il primo tropo riguarda la discordanza fra le diverse forme di conoscenza che spesso sono in contrasto fra loro. Il secondo, che è stato il più studiato anche nel mondo moderno, in primis da Hume, concerne la relazione fra causa ed effetto: Agrippa afferma che la causa prima di essere causa è stata effetto e in tal modo si regredisce all’infinito, senza così stabilire mai un fondamento. Resta il fatto che comunque questa regressione ad infinitum non scioglie il rapporto causale. Il terzo è quello della relazione, per il quale non conosciamo mai un oggetto in sé, ma solo in rapporto a noi. Il quarto, quello dell’ipotesi, evidenzia che i principi non si dimostrano, ma si accettano per convenzione, in quanto non sono in grado di dimostrare sé stessi. Infine, l’ultimo, chiamato diallelo, o circolo vizioso, dimostra appunto che ogni dimostrazione è impossibile, perché la si può dimostrare solo partendo da sé stessa, e questo è il diallelo.
Questi 5 tropi sono perciò la summa del pensare scettico poiché attengono alla filosofia in senso stretto, cioè al pensiero che riflette su sé stesso. Tutte le indagini scettiche convergono su di essi.
Lo scetticismo antico, per quanto fosse opposto al pensiero dogmatico degli epicurei e degli stoici, aveva tuttavia con queste correnti filosofiche sopracitate un medesimo scopo, che era di carattere etico, ossia quello di prospettare all’uomo la possibilità di vivere felice o almeno di non soffrire. Abbiamo scritto che esso nega il mondo per la sua mutevolezza che impedisce ogni conoscenza salda e positiva: solo il soggetto c’è. Per cui l’ideale degli scettici è quello di ottenere quella atarassia e quella imperturbabilità a cui aspiravano le filosofie ora citate. Lo scetticismo dall’altro canto attua la libertà del singolo. Tutte le determinazioni esterne, ribadiamo, vengono negate. Tali determinazioni dell’oggetto sono perciò accidentali, inessenziali. La vera essenza del pensiero scettico consiste allora nella sua capacità di nientificare il mondo, ottenendo così una stabile identità con sé stessa. Ma la coscienza scettica, dirà Hegel nella sua “Fenomenologia dello spirito” (pp.173-174), è costretta nel contempo a rivolgere la propria potenza nientificante contro se stessa: essa, sentendosi opposta, in quanto stabile identità, rispetto le differenze che trova sia verso il mondo esterno che verso gli altri, si accorge di essere essa stessa una differenza, un accidente fra gli accidenti, e ciò la spinge ad oscillare fra la propria identità e la sua differenza: e tale contraddittorietà spinge il soggetto alla precarietà esistenziale.
Questa premessa allo scetticismo antico è stata necessaria, non soltanto per vederne i limiti, ma per la sua grande filosofia, che ha avuto il merito di stimolare lo stesso sviluppo del pensiero umano, rilevandone le enormi difficoltà, a volte insuperabili, a cui esso va incontro indagando sé stesso, gli altri e il mondo. Inoltre, abbiamo osservato che lo scopo nobile degli scettici antichi era quello chi indicare rimedi pratici contro le sofferenze del mondo. Ben diversi saranno invece gli obiettivi che lo scetticismo moderno cercherà di perpetrare.
Successivamente, con l’affermazione del cristianesimo, lo scetticismo fu abbandonato: rimasero alcuni scritti degli Accademici, mentre bisognerà aspettare il 1.500 per conoscere l’opera di Sesto Empirico.
Il primo filosofo critico verso gli accademici scettici fu S. Agostino col famoso argomento del “sì fallor sum”, rivolto contro di loro. Egli asseriva che io mi posso sbagliare o equivocare su tutto, ma non posso sbagliare sulla certezza che sono io colui che sbaglia. La mia esistenza, perciò, non può essere messa in discussione, per cui io dico una verità incontestabile: cioè che io esisto. Questo accertamento esistenziale mi fa capire che sono aperto alla verità, dal momento in cui so di dire una indubbia verità. Tuttavia, si tratta di una verità di un singolo uomo, per cui, pur essendo aperto alla verità, egli non può possedere, come essere finito, che una verità parziale e limitata. Quella perfetta ed immutabile appartiene solo a Dio che è la fonte di ogni illuminazione, e la fede in lui ne è la garanzia.
Possiamo osservare che un ragionamento analogo fu sviluppato da Cartesio, che, attraverso il dubbio metodico e iperbolico, perveniva all’intuizione indubitabile di esistere. Il famoso “cogito ergo sum”, non è altro che la riproposizione dell’argomento agostiniano. Anche in questo caso Cartesio era convinto che il “cogito” era sì una verità scevra da dubbi, ma era pur sempre una verità soggettiva. Quindi anche lui si avvarrà del vecchio armamentario metafisico garantendo la verità del “cogito” fondandola sulla sostanzialità eterna dell’anima (la res cogitans) e sulla perfezione di Dio.
Comunque, entrambe queste “prove” pervenivano a delle conclusioni che invero erano simili a quelle degli scettici antichi, i quali sospendevano il giudizio su tutto, tranne sul soggetto pensante che fondava sé stesso su di una identità stabile, senza però riferirsi a Dio. La debolezza delle obiezioni di Agostino e Cartesio si riscontra nel fatto che essi devono ricorrere o alla fede o alla metafisica tradizionale per supportare i loro argomenti. Lo scetticismo, in questo senso, restava ancora inattaccabile.
Il primo grande scettico moderno (grande per importanza) fu sicuramente lo scozzese David Hume. Costui farà proprie alcune teorie degli scettici antichi, con l’intento però di perseguire fini del tutto diversi rispetto loro. Come costoro, egli negherà la conoscibilità del mondo esterno e, in aggiunta, negherà la realtà di una sostanza pensante eterna come l’anima, e, di conseguenza, l’esistenza di Dio. La novità del suo pensiero scettico consisterà nella dimostrazione della infondatezza del principio di causa, col fine di distruggere una qualsivoglia salda verità, in quanto il principio di causa è il principale principio della ragione. Egli disconosceva infatti ogni forma di rapporto di necessità fra causa ed effetto, trovandosi così in perfetta sintonia con l’ideologia liberal-liberista che stava trionfando in Inghilterra con l’industrialismo senza regole e quindi con l’accettazione entusiastica del nuovo modo di produzione capitalistico.
Abbiamo osservato che il secondo tropo di Agrippa riteneva inutile come strumento logico di conoscenza il principio di causa, in quanto il perenne mutamento delle cause che diventano effetti e così via impedivano un sapere certo. Hume andò ben oltre. Egli cercò di dimostrare che tale principio era emotivo-arazionale e che era fornito solo dall’abitudine, non avendo perciò nessun valore permanente di tipo logico-ontologico.
Famoso è a riguardo l’esempio delle palle di biliardo: ovunque vada la palla colpita, per esempio in buca o abbattendo birilli, o tutte le altre eventuali possibilità, il risultato ottenuto dal suo percorso non entrerà mai in una relazione contraddittoria (o l’una o l’altra è vera mentre l’altra è falsa) con le altre possibilità non realizzate. Ciò significa che se si osservano le verità di fatto, tutte possono accadere, senza che vi sia nessuna necessità necessitata che comporti un esito inevitabile. Non esiste quindi nessun meccanicismo deterministico, per cui la sostanza materiale (il mondo) è pura credenza data dall’abitudine del ripetersi degli eventi. Tanto meno esiste una causa finale che dimostri l’esistenza di Dio. La conoscenza del mondo è perciò una ipotesi fra le tante possibili, così come la fisica classica di Galilei e quella di Newton, il quale ultimo, fra l’altro, credeva di aver scoperto una legge universale (la gravitazione) che spiegava tutte le altre leggi fisiche in senso meccanicistico. Tuttavia, a causa della lunghezza del discorso inerente a quanto ora scritto, rimandiamo a proposito alla lettura dei miei saggi citati a nota (2).
La distruzione del principio di causa andava allora ben oltre la negazione della conoscenza del mondo fisico e divino. Essa aveva anche cospicue ripercussioni sia politiche, etiche ed economiche, come ben aveva individuato il filosofo C. Preve. Egli scriveva che con Hume “la costituzione formalistica del soggetto giunge al suo culmine con la distruzione dello stesso concetto di soggetto come sede di una identità stabile e permanente” (3). Ciò significa che in un mondo senza nessuna reale causazione sociale, il potere spetterà permanentemente ad individui il cui potere sarà sancito dalle forze economico-finanziarie dominanti.
Abbiamo considerato che gli scettici negavano il mondo per ottenere una calma impassibile verso di esso. La loro soggettività libera non era però negata, tant’è che era fondata su una stabile identità. Per Hume invece il soggetto pensante conosce solo una serie di impressioni associate per mezzo dell’abitudine. Oggi diremmo che il suo pensiero si attua come in un film che ci sembra coerentemente unito nella successione delle immagini durante la proiezione, mentre, invece, esso è composto da fotogrammi separati uno dall’altro, che solo la velocità della macchina unifica. Persino il contratto sociale, pur se descritto in forma diversa da T. Hobbes e da J. Locke, veniva rigettato e con esso ogni diritto naturale. In base a ciò, Hume riteneva che la nascita dei governi fosse originata dalla violenza e dall’astuzia di singoli individui. La loro usurpazione sulla società non richiedeva libero consenso (Hume, Sul contratto originale). La stessa giustizia non è un diritto naturale, ma nasce da una convenzione fra membri della società per la tutela dei beni personali, in primis la proprietà privata. L’origine della giustizia viene spiegata dunque dall’origine della proprietà privata e non il contrario. Per questo oggi molti pensatori considerano Hume, assieme ad A. Smith, l’ideologo principale della società capitalistica. La sua attualità è in effetti impressionante, visto che viviamo nell’epoca del capitalismo assoluto. La pacatezza dei suoi scritti, a cominciare dal “Trattato sulla natura umana”, non nasconde però l’estremismo radicale dei suoi pensieri.
Nella “Critica della ragion pura” Kant non faticò poi molto nel dimostrare la miseria teoretica humeana riguardo il principio di causa: se non ci fosse infatti un “Io penso”, cioè una unità unificante intellettuale, tutte le impressioni che percepiamo sarebbero solo immerse nel caos.
L’intento di queste riflessioni presenti in questo scritto è quello, in verità, di tentare di far capire come uno scetticismo estremo come quello di Hume, contenesse tutte le basi teoretiche che dominano nel nostro tempo: da esso scaturiscono infatti il nichilismo, l’alienazione, la perdita del senso comunitario.
Gli scettici del Novecento non fanno altro che completare l’opera di Hume. Col neoempirismo viennese lo scetticismo, pur mutando veste, diventa un modo di pensare che salirà in auge anche a Berlino e soprattutto nel mondo anglosassone, come a Londra e Chicago. Il più importante protagonista del pensiero neo-empirista fu L. Wittgenstein, che ispirò poi il Circolo di Vienna.
La sua famosa opera “filosofica”, il “Tractatus logico-philosophicus”, altro non è una riproposizione teoretica del “Trattato” di Hume scritto con linguaggio simile alla logica matematica. Del resto, egli studiò le opere matematiche di B. Russell, per cui la sua filosofia è prevalentemente quella del linguaggio analitico formale. Ma cosa scrive in sintesi Wittgenstein? Innanzitutto, che non esiste nessuna sfera del pensiero e della conoscenza che faccia da mediazione o tramite fra il mondo e il linguaggio. Come se Kant non fosse mai esistito: il quale invece aveva dimostrato che il “tramite” fra mondo e linguaggio era il tempo (si vedano le fondamentali pagine sullo schematismo trascendentale, scritte nella “Critica della ragion pura”). L’immagine logica dei fatti è il pensiero: anche per Wittgenstein il mondo altro non è che una mia rappresentazione, come diceva Schophenhauer.
Ma i punti focali del “Tractatus” riguardano in primo luogo il principio di causa: “la credenza nel nesso causale è la superstizione” (5.1361), il che significa che da una proposizione elementare non si può inferirne un’altra (5.134). Tutte le teorie sono pure ipotesi, forme arbitrarie che non hanno nessun valore universale o necessario. In secondo luogo, solo le proposizioni che sono in accordo col mondo sono quelle dotate di senso. Se per esempio dico: piove, e il fatto avviene, la proposizione è vera, mentre se non avviene è falsa. Le verità di fatto sono comunque limitate dalla possibilità che accadano o no. Tuttavia, non esiste nessun sistema fisico che sia che non sia arbitrario. Infine, le verità astratte, proprie della matematica, dette anche verità di ragione, sono quelle che, se esatte, non ammettono contraddizioni logiche, per cui sono sempre vere. Ma la loro verità è solo logica e non dice niente attorno al mondo. Le loro proposizioni sono perciò tautologie (una ripetizione in termini diversi). Si potrebbe dire che in questo mondo desolato solo le scienze naturali puramente descrittive sono lecite. Come si evince, “nihil sub soli novi”.
L’opera di Wittgenstein influenzò molto, come si diceva, l’ambiente culturale viennese, tanto è vero che fu fondato da una associazione di intellettuali che a lui si ispirò: il “Circolo di Vienna”, a cui parteciparono O. Neurath, M. Schlick, R. Carnap, H. Feigl; studiosi affini, anche se meno legati al gruppo furono K. Popper, H. Kelsen, K. Menger. Il circolo di Vienna ebbe poi nel 1928 un corrispettivo a Berlino, guidato da H. Reichenbach. I componenti dei 2 circoli erano filosofi, matematici, giuristi, storici: il loro programma era però comune. Esso si basava su precisi punti programmatici che furono raccolti in un opuscolo, intitolato “La concezione scientifica del mondo”, pubblicato a Vienna nel 1929. Tali fondamenti del movimento furono fissati in 4 punti: 1) la concezione antimetafisica; 2) l’empirismo come riferimento gnoseologico generale; 3) l’uso della logica formale di tipo matematico come metodo di analisi; 4) tendenziale matematizzazione di tutte le scienze, con lo scopo di creare una scienza “unica”.
Il linguaggio della metafisica tradizionale, composto da termini come “essere”, “non- essere”, “idea”, “sostanza”, “cosa in sé” ecc., viene dichiarato privo di senso, poiché non si collega a nessun fatto empirico. Le sole proposizioni sensate e possibili sono perciò quelle soggette a “verificazione” fattuale, riducibili a proposizioni atomiche o elementari. Oltre non mi dilungo. Aggiungo solo che Popper cercò di sostituire il principio di verificazione, con quello di falsificabilità, poiché riteneva che non si potessero verificare tutti i fatti che avvengono e ci può essere sempre una smentita: in realtà il falsificazionismo altro non è che un procedimento analogo, basato pur sempre sulla verificazione (si deve pur sempre verificare ciò che si presta ad essere falsificato) e sul metodo induttivo di tipo eliminatorio, che a parole criticava.
Si diceva che questi assunti teoretici del Circolo viennese avessero grande diffusione, sviluppandosi sia nel campo linguistico (la filosofia analitica di Carnap, tutta impostata sulla logica matematica) e sia in campo politico, etico ed economico con J. Rawls, R. Nozik, e F.A. Von Hayek. Anche costoro, in sintesi, ribadirono con altre parole gli stessi concetti già osservati. Semmai c’è da notare l’estremismo antisociale di Nozik e di Von Hayek.
Nozik è convinto che non esiste nessun obbligo di solidarietà di un individuo verso altri. Egli si domanda nel suo libro “Anarchia, stato, utopia” sul perché bisogna fare sacrifici da cui altre persone trarranno un benessere maggiore. Secondo lui non esiste un’entità sociale il cui bene sopporti qualche sacrificio per il bene altrui. Egli ritiene che ci siano solo individui, individui differenti con le loro vite singole. Non si può togliere ad uno per il profitto degli altri, e nessuno dovrebbe imporglielo (ivi, pp. 35-36).
Von Hayek non è da meno: le libertà individuali vengono prima dello stato stesso, il quale deve essere minimo per fungere soltanto da garante della libertà individuale e della proprietà privata. Il socialismo è il male, e la società è una parola vuota, poiché esistono solo gli individui.
Alla fine di questo sintetico riassunto filosofico si può avvertire un cupo senso di angoscia. Lo scetticismo moderno è il combustibile di cui si serve il nichilismo totalizzante, i cui ingredienti, come si è visto, sono l’individualismo esasperato, l’indifferenza verso il mondo e gli altri, la supremazia della quantità espressa in calcolo. Tutti ingredienti anticulturali che i diffusori del nichilismo diffondono, avvalendosi di un formidabile dispositivo tecnico di controllo socioeconomico, che Heidegger chiamava “Das Gestell”, che è il vero Leviatano del nostro tempo. E ciò spiega il perchè lo scetticismo neo-empirista sia diventato l’ideologia dominante del nostro mondo. Essa è stata fatta propria dai capitalisti delle multinazionali globaliste e dei grandi gruppi finanziari per imprimere il loro incontrastato potere. Ogni verità viene cancellata e con essa assistiamo alla scomparsa di tutti i sentimenti e di tutte le intuizioni originarie che hanno nobilitato l’esserci umano. Ne consegue che anche l’etica, la giustizia, la metafisica, l’estetica, la sacralità sono ormai insensate. Non è un caso che ci sia in atto una regressione antropologica impressionante, che si osserva dall’estrema povertà del linguaggio e dalla perdita dei legami comunitari. Il calcolo, il gigantesco, la pubblicità, la celerità sono gli strumenti che hanno occultato l’Essere.
Superare il nichilismo è quindi lo stesso che superare lo scetticismo neo-empirista. Il pericolo che stiamo vivendo è causato in modo decisivo da questo pensiero antifilosofico sciagurato e pernicioso, che dovrà essere necessariamente e costantemente svelato in tutta la sua miserabile pochezza, la quale offende ogni uomo che abbia un minimo di dignità.
Note:
1) G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, ed. Laterza, Bari 2009, pp. 335-6.
2) Si vedano i miei 2 seguenti brevi saggi: F. TOVO, “La distruzione del principio di causa”, Arianna ed. del 24/09/2016 e “Riflessioni sul principio di causa “Comedonchisciotte del 14/01/2018.
3) C. PREVE, “Una nuova storia alternativa della filosofia”, ed. Petit plaisance, Pistoia 2013, pp. 387-8.