Ops
di Lorenzo Merlo - 24/04/2025
Fonte: Lorenzo Merlo
Non ci eravamo accorti che pensavamo come fossimo un trenino Marklin. Indomiti segugi orgogliosi di seguire e riconoscere i binari della logica, pronti a puntare sui reprobi affinché la punizione sparata dalla doppietta del razionalismo li eliminasse. Così, stupidi almeno come chi giudicavamo stupido, avevamo creduto che il mondo fosse davvero il diorama sul quale pedestremente, a imperterrito ciclo continuo, non cessavamo di roteare beandoci. Ops.
“Lui si dichiarò disposto a dirle tutto se lei avesse risposto a una sola domanda: cos’è un metro?” (1)
Dannazz maledizz (2)
Non si può usare l’infinito come un numero, come un dato dalle caratteristiche definite. L’infinito è sempre latente, la storia, ovvero gli uomini, costretti dall’esistenza e dalle sue esigenze, non lo vedono e costantemente lo riducono a qualcosa di definibile da impiegare all’uopo, esattamente come un numero qualsiasi.
La logica, articolata architettura senza profondità, non se ne cura. Non si avvede di rappresentare il mondo piatto e, in quanto tale, falso come ombre cinesi o platoniche, vere solo e soltanto entro la propria autoreferenzialità. Utilizza l’infinito come un elemento fisso e a se stante. Così facendo – altro non può – crea il paradosso (uno tra i più) cioè, annuncia, sebbene inconsapevolmente, il limite di sé. Come può il discorso logico contenere il Tutto se non appropriandosi dello scibile con la spada travestita da verità? Se non convertendo a essa con la scuola ogni bambino? All’interno della bolla logicista tutto viene affermato e contraddetto. Ciò accade nel momento in cui due parti contrapposte si confrontano, e nel tempo. Non è vero che oggi rinneghiamo ciò che abbiamo sostenuto in passato? Non è vero che abbiamo osservato nel prossimo il medesimo processo? Se la contraddizione nel mondo logico non è presenza gradita, nell’infinito essa vive senza l’arroganza di sottrarre dignità al pensiero alogico e a qualunque altro.
“«Un punto di vista è limitato di per sé. Ci dà una visione a senso unico del paesaggio. Solo quando si sommano più sguardi complementari sulla stessa realtà si ha pieno accesso al sapere delle cose. [...] È questa la natura di una visione autentica: mettere insieme i punti di vista già conosciuti e mostrarne altri finora ignoti, insegnandoci che, di fatto, sono tutti parte dello stesso Tutto»”. (3)
Nonostante ciò, l’idolatria scientista, che ha nella logica e nel razionalismo il suo truccato asso nella manica, seguita a fare adepti. L’incantesimo è confortato dalla quantità e dalla maggioranza, se sei apocrifo, sei da abbattere.
Un fatto di cui la cultura, il suo sistema e i suoi intellettuali non si curano e, sotto il vessillo dei principi aristotelici e illuministi, seguitano nella loro – fallace – avanzata verso la conoscenza... del plastico.
Oltre la logica esiste il mondo che la scienza non può misurare e quindi, per questo, non considera conoscibile.
“Gli ricordò che la psiche umana era un mistero più grande di qualsiasi enigma matematico, e che non era saggio proiettare le idee della fisica in ambiti così lontani come la psicologia”. (4)
Una precisazione. Il potere della logica è massimo entro un sistema chiuso, regolamentato, condiviso dalle parti che vi entrano. Ne sono esempi la matematica – nient’altro che un alfabeto con cui narrare qualunque storia – il gioco del Monopoli (tutti i giochi), il codice della strada, eccetera. Tuttavia per l’idolatria citata l’uomo (ma non la madre) tende a credere che il medesimo potere possa dispiegarsi fino a segnalare la verità condivisa anche in contesto emozionale aperto, ovvero tutti quelli relazionali umani, non amministrativi. Allora qui il miglior servizio che la logica può offrirci non solo viene meno ma crolla trascinando tutto (i relazionati) con sé, tirando fuori dagli uomini la loro più creativa crudeltà e indifferenza. È ciò cui assistiamo quotidianamente quando giudichiamo male il prossimo che si comporta in modo estraneo ai nostri modelli, quando accadde l’equivoco, quando cioè non possiamo ammettere – perché neppure lo sospettiamo – che l’altro sia sempre o in quel momento in un universo diverso dal nostro, ovvero entro un’emozione altra.
Gli scienziati (e anche gran parte dei medici) – ma ora, senza più vocazione spirituale, meglio chiamarli tecnici al servizio di chiamate vanitose e materiali – lavorano dimentichi del carattere socratico (ippocratico per i medici) della loro Madre Scienza, opportunamente messo in evidenza da Karl Popper, da Kurt Gödel e da Ludwig Wittgenstein.
Si deve quindi ai notabili della cultura materialista, supremi maggiordomi della politica, la riduzione dell’infinita realtà entro i binari di un mondo ridotto, senza saperlo, al diorama uscito dai loro disegnini e appunti. Riduzione che implica anche la compressione dell’uomo – che nella tradizione sapienziale, va ricordato, è detto microcosmo – entro le sue regolette così piatte da stare comode e a spadroneggiare a loro agio solo su un piano cartesiano, ma perfino ridicole sul quello umanistico-evolutivo, emozionale-energetico, simbolico-archetipico.
Nel seguente brano, un esempio di come si esprime l’assolutismo cognitivo logico-razionale-scientista.
“Dopo essersi ritirato, nell’autunno del 1930, Hilbert fu invitato a tenere un discorso nella sua città di origine, Königsberg. Davanti all’Associazione degli scienziati e dei medici tedeschi parlò a lungo di scienze naturali, dell’importanza della matematica nella scienza e del primato della logica nella matematica. Affermò perentorio che mai si dovrebbe accettare l’inconoscibilità, che non dovrebbero esistere problemi scientifici irrisolvibili né limiti ontologici alla nostra comprensione, che nulla dovrebbe essere considerato a priori al di fuori della nostra portata, e concluse la sua appassionata invettiva, traboccante di germanico orgoglio, proclamando a gran voce: Wir müssen wissen! Wir werden wissen!
Dobbiamo conoscere! Conosceremo!” (5)
La loro progenitrice Scienza, che tutto osservava e di tutto dubitava, sapeva che la conoscenza tratta dal plastico e stipata in forma di dati nei magazzini dei libri non costituisce sapere, se non tecnico. Cioè un tipo di conoscenza assolutamente assimilabile a quella necessaria per erigere un muro.
Non è un caso che i suoi pronipoti non abbiano mai potuto indagare e dare risposta alle domande fondamentali. La loro miglior arma, la logica, neppure scalfisce il corpo di alcun mistero. Anzi, è proprio lei a generarli ponendosi, con atteggiamento positivista, le domande fondamentali. Chi non è sotto il dominio del pensiero scientista non pone nella domanda il culmine della propria ricerca, perché sa che la risposta non può avere carattere positivo, perché sa che una domanda di natura cartesiana, per quanto in buona fede, distorce la prospettiva in cui il mistero viene meno, quella che ci permettere la consapevolezza che il mistero siamo noi, che per conoscerlo possiamo solo esserlo, che ritenendoci altro da lui, sempre l’avremo dirimpetto e sempre resterà positivisticamente inconoscibile. Ne più né meno di quanto fatto da Cristo in merito al dolore del mondo: se vuoi ridurlo, devi esserlo e per esserlo il tuo interesse, orgoglio e identità devono sparire nella consapevolezza che sono provvisori e caduchi artifici della storia.
Ops
Questo articolo non è contro la scienza in sé ma contro coloro che, a causa della pressione delle consuetudini, comprensibilmente l’hanno scambiata per una dea e posta in cima alla montagna più alta. È contro i suoi devoti, gli scientisti. Sono loro il problema. Ultimi pronipoti che non solo hanno travisato tutto della loro madre, ma hanno proprio dimenticato di averla avuta, hanno frainteso tutto fino al punto di rinnegarla e correre a succhiare le tette a una sua surrogata e succedanea detta tecnologia.
Il risultato, ciò che ne resta, è mortificante. La scienza ridotta a scientismo senza più alcuna autonomia né terzo occhio, da virtù è divenuta merce con diritto d’onnipotenza. Così, il padrone ha mandato gli inservienti al mercato a comprarla.
Il libro di Benjamin Labatut, attraverso la narrazione delle vicende di grandi fisici rivela le dimensioni umane per le quali la meccanica classica non è rappresentativa, mentre quella quantistica permette, invece, di adocchiare le dinamiche relazionali in campo aperto, almeno all’uomo ripulito dai dogmi scientisti.
L’autore olandese nel suo Quando abbiamo smesso di comprendere il mondo (Adelphi), seguendo piste da termitaio ci racconta le vicende di una serie di uomini e delle loro idee. Si tratta di scienziati che il mondo chiuso nella capsula scientista non è in grado di intendere. Come faccio a dirlo? Guardo al punto in cui ci troviamo, le guerre, la volontà di dominio sul prossimo, il capitalismo finanziario come rispettabile miglior mondo possibile, il degrado, da quello valoriale a quello sociale e materiale, la povertà crescente, la disoccupazione che neppure fa più testo, l’esportazione della democrazia, le guerre travestite da aiuti, quando non da pace, sono elementi di un elenco impressionantemente lungo, impressionantemente dato per status quo e incredibilmente base per occuparsi d’altro, solitamente più vanitoso, di corta veduta e d’interesse personale. Un elenco che chiunque può osservare per vedere dove la cultura scientista, quella diretta alla verità – ricordate? – ci ha condotti.
Nonostante ciò, non sono gli scienziati a doversi svegliare, a dover riprendere in mano un’etica umanistica e gettare quella positivisticamente mercificata, siamo noi che dal divano dobbiamo spegnere la tv e bigiare i banchi di scuola. Loro senza il nostro consenso potrebbero ancora proporre qualunque direzione ed evoluzione tecnologico-materiale, ma non arriverebbero a realizzare quanto hanno fatto in quest’epoca mercenaria. Altroché aver rinnegato madre Scienza, altroché essere divenuti fieri di stare sul banco del mercato in attesa del maggiordomo giusto. Hanno perso il contatto con la matrice della vita, con la madre primigenia, hanno creduto di poter fare da soli, di non dover rendere conto a nessuno se non al padrone, di trovare suprema legittimazione di se stessi nel solito tengo famiglia. Quello che, per legittimare la propria azione, dice anche il ladro e, mediamente, la categoria dei giornalisti, degli intellettuali e degli artisti. Ed ecco dove siamo. Guardati intorno, cosa vedi? Bellezza? Salute? Serenità? Compassione? Beatitudine? Gioia? Tranquillità? O affanno? Paura? Avidità? Invidia? Sopraffazione legalizzata? Indifferenza? Luoghi comuni gettati come bombe a grappolo dalle squadriglie del politicamente corretto? Interessi individuali? Politiche inconcepibili? Orizzonti di guerra? Corruzione? Sfruttamento? Bruttezza? Consumi come soddisfazione? Alienazione omicida e suicida? Infatuazioni per le mode?
Non mancano, anzi ne siamo pieni fino al rigurgito, i moniti apoteotici della mente succube della logica. Ignaro del potere conoscitivo della contemplazione, del corpo, della meditazione di fronte all’incomprimibile, lo scientista, pur impettendosi, non può che vacillare e rifugiarsi nei suoi luoghi comuni, gli stessi utilizzati per vendere dentifrici “scientificamente testati”. Formula che riempie in un istante la pancia vuota degli adoranti.
“«Esiste almeno una cosa stabile su cui si fonda l’universo o non c’è nulla a cui aggrapparsi in questa catena di movimenti senza sosta nella quale tutto è intrappolato? Rendetevi conto fino a che punto siamo caduti nell’incertezza. Se l’immaginazione umana non riesce a trovare un solo luogo in cui gettare l’ancora e non c’è pietra al mondo che possa considerarsi immobile!». Schwarzschild auspicava la venuta di un nuovo Copernico”. (6)
Lo scientista è colui che si muove solo nel ristretto mondo del suo oratorio – il resto del mondo non c’è – perciò da esso parla, proclama e legifera. Non può configurarsi qualcosa che non sia composto dai suoi simboli matematici che crede essere un’esclusiva della fisica, cioè non vede che sul palco del mondo sono sempre gli stessi attori a recitare parti diverse e che queste non sono che reciproche metafore. Metafore che, a loro volta, corrispondono a magie che, se non riconosciute, incantano l’attenzione sulla forma. Restando così concentrato sulla forma seguita a credere che ognuna di queste comporti un suo primato di sapere impedendosi così la conoscenza. Non vede che tutto è Uno, né che col suo alfabeto si possono raccontare storie che vanno al di là della fisica, del pedante mondo del determinismo-meccanicista. Nessuno più dello scientista soggiorna impunito, in sdraio, ombrellone e bibita con cannuccia, sul fondo della caverna di Platone.
Le verità universali, invece, da qualunque tradizione sapienziale provengano convergono tutte al medesimo centro: l’essere non è nelle idee ma nella loro assenza, dunque non negli apparenti saperi, valori e certezze, ma nel riconoscere questi come fenomeni storici, al pari dei passatempi.
Purtroppo si tratta di una banalità per alcuni e di un segreto per gli scientisti, per quel clero civile votato alla chiesa del determinismo, del riduzionismo, del razionalismo e del meccanicismo.
Anche se l’humus strettamente meccanicista impregna la cultura, vi sono ricercatori, tra cui Karl Gödel, consapevoli che il mare in cui nuotano i pensieri umani non è tutto. Il matematico tedesco chiama singolarità ogni evento che non sta nello spazio-tempo. Prendendo a prestito il suo gergo, possiamo riconoscere che quando i singoli dati misurati si radunano in massa a comporre grandi numeri, ciò che da questi emerge non è più prevedibile, come invece, tendenzialmente, lo era singolarmente o in piccoli numeri, la cui volatilità e volubilità tendeva a non crearsi. Ciò è una sorta di evidenza dell’inefficacia o del limite del meccanicismo quando vuole governare una realtà che non sia ridotta ad amministrazione della vita, composta da elementi separati e fermi, o da dinamiche mosse da poche variabili. Una realtà in cui, come in salotto, possiamo entrare e uscire convinti di ritrovare tutto come l’avevamo lasciato.
“La singolarità era un fenomeno cieco, fondamentalmente inconoscibile. [...] La fisica semplicemente smetteva di aver senso”. (7)
“Inconoscibile” solo logicamente parlando, ma chiaro e senza bisogno né possibilità di dimostrazione, quando ci si emancipa dalle forme e dalle quantità cartesiane proprie della conoscenza materialistica.
Il primo teorema d’incompletezza di Gödel allude all’osservazione che ogni affermazione coerente al sistema che l’ha generata non può essere dimostrata in quanto si autosostiene: vale a dire che l’autoreferenzialità come via alla verità è fallace.
Per gli insoddisfatti, a conforto di quanto sopra, si può aggiungere il secondo principio d’incompletezza: nessun sistema logico e quindi coerente può essere impiegato per dimostrare la definitiva attendibilità di se stesso.
La realtà non avviene finché la nostra esigenza non la catalizza, essa è dunque un’interpretazione del tutto autoreferenziale, quindi assiomatica e perciò impermanente, cambia col cambiare dell’esigenza o del tempo. Considerarla vera impone di sopraffare le verità dell’altro, a sua volta di pari matrice, e quindi arrivare allo scontro, sempre secondo esigenza.
Evidenze madornali per tutti ma non per lo scientista che crede di riconoscere in ciò un insuperabile antropocentrismo. Un concetto che, se dovesse mai riuscire ad aprire lo scrigno che lo contiene, gli rivelerebbe una banalità: è proprio a mezzo della consapevolezza della caducità e parzialità dei saperi cognitivi, che ci si può emancipare dall’egoico e culturale antropocentrismo.
Ogni idea, anche la più raffinata e convincente, ha in sé l’angolo oscuro in cui si nasconde la sua vacuità e negazione. Prendersi troppo sul serio è una specie di errore di fondo che genera il caos mentre ognuno tenta di mettere ordine anche per gli altri. Insomma, tacere forse non si può, ma parlare come se proferissimo verità è criminale. E questa stessa osservazione non gode d’esenzione. Tuttavia, averne consapevolezza tende a ridurre il rischio di prepotenza e sopraffazione, due epiloghi esaltati dallo scientismo.
“Il fisico – come il poeta – non deve descrivere i fatti del mondo, ma creare metafore e connessioni mentali. Da quell’estate in poi, Heisenberg capì che applicare i concetti della fisica classica – come posizione, velocità e movimento – a una particella subatomica era uno sproposito madornale. Quell’aspetto della natura richiedeva una lingua nuova” (8).
La questione in fondo è semplice una volta saltato il muretto del proprio campetto di gioco. E qual è il campetto? Quello che ci sta sempre sotto i piedi affinché ci si senta autorevoli, almeno nei confronti di se stessi.
Dunque, saltato il muretto, quello delle nostre più recondite convinzioni, sconosciute a noi stessi, diviene lapalissiano che tanto più affermiamo, tanto più nascondiamo. La realtà da piatta –– dove, con saccente eloquenza, possiamo descrivere com’è il mondo e, soprattutto, credere che nella descrizione risieda la semplice osservazione della realtà e non la sua creazione – diviene ologrammatica o quantistica, disponibile a realizzarsi solo ed esclusivamente al nostro cospetto. Appare univoca solo ed esclusivamente al cospetto dello stesso pensiero, così come appare equivoca, quando non blasfema, di fronte al pensiero non consuetudinario.
“Gli oggetti quantistici non avevano un’identità definita, bensì abitavano uno spazio di possibilità (9)
Quando si dice che è inutile chiedere al pesce com’è l’acqua oggi? Ecco due campioni che abitano il mare della logica. Si tratta di commenti relativi a questo articolo. In entrambi si può vedere splendere lo scientismo che ne fa da sfondo e il potere logico-razionalista che obnubila il pensiero di molti.
“E certo, dopo la scoperta della struttura microscopica della materia e la codificazione delle sue proprietà nella meccanica quantistica, «non possiamo qui ricorrere ad alcun tipo di leggi». Chissà cosa hanno combinato in questi ultimi cento anni i fisici, privi della possibilità di ricorrere alla formulazione di regole atte a descrivere e prevedere il mondo. Forse si sono raccontati barzellette. Intanto, si affermava il pensiero unico magico quantico. Che tristezza, vedere la ricchezza e la creatività della fisica moderna ridotta a questi stereotipi”.
“Caro Battimelli una prova per verificare se uno è un cialtrone è se usa a sproposito, cioè fuori contesto strettamente fisico, il termine ‘Quantistico’ o meglio ancora ‘quantico’.
Tocca farci l’abitudine e passare oltre”.
Lo scientista, al pari del ligio probiviro delle consuetudini, come ogni idolatra, non mette in discussione il criterio scientifico che – ancora una volta – a sua convinzione corrisponde alla sola modalità da rispettare per raggiungere la vera conoscenza. Si trova così genuflesso a difendere norme di un sistema di ricerca come fosse calato dal cielo del Dio Logico, tanto da dimenticare d’essere un essere cosmico e non un laureato o un prevaricatore culturale del prossimo che ne vede invece il limite e l’autoreferenzialità.
“La realtà, [Heisenberg e Bohr, nda] dissero ai presenti, non esiste come qualcosa che prescinde dall’atto dell’osservazione”. (10)
Ma che lo dico a fare, come disse una volta un esimio professore di fisica per condannare il pensiero che, siccome non riusciva a capire, poteva solo ciarlatanizzare.
Non dire solve et coagula né per orientarti nell'infinito distinguer devi e poscia unire. Il principio alchemico e quello goethiano si abbracciano e rivelano, ma che lo dici a fare allo scientista?
Note
1. Benjamìn Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Milano, Adelphi, 2021, p. 81
2. Espressione plagiata da Za-gor-te-nay, Spirito con la scure, detto Zagor, protagonista dell’omonimo fumetto pubblicato da Sergio Bonelli editore.
3. Ivi, p. 78
4. Ivi, p 57
5. Benjamìn Labatut, La pietra della follia, Milano, Adelphi, 2021, p. 17
6. Benjamìn Labatut, Quando..., p. 49
7. Ivi, p. 56
8. Ivi, p. 92
9. Ivi, p. 153
10. Ivi, p. 158