Orgoglio e precipizio
di Livio Cadè - 23/05/2021
Fonte: EreticaMente
Il grande vantaggio che gli animali hanno sugli uomini è l’esser privi d’orgoglio. Questa malattia, di cui il genere umano soffre in forma cronica e universale, è infatti causa di grandi infelicità. Il destino tenta invano di curarci con ripetute umiliazioni, come benefici cataplasmi, ma noi rifiutiamo d’esser guariti da un male che ci procura tante sofferenze.
L’orgoglio ha radici nella nostra immaginazione. Questo spiega il fatto che animali privi di immaginazione ne siano immuni. Nessun pesce si sente umiliato perché non può volare, e nessun somaro vuol somigliare a un cavallo.
Si dirà che l’orgoglio è il motore segreto di grandi imprese. Ma questo conferma quanto l’uomo ne sia accecato. Non vede quanto sarebbe più salutare per tutti occuparsi di piccole cose. Infatti, più grandi son le imprese che compie più nefaste son le conseguenze.
Purtroppo siamo schiavi di questi miti assurdi -progresso, evoluzione, crescita- che fan perdere il senso del limite. Che ragione ha questa follia se non l’orgoglio? Nessun sacrificio è troppo grave, nessuna violenza eccessiva, se soddisfa la nostra ambizione. Per questo non vediamo il precipizio che ci attende.
L’uomo moderno vuole ‘realizzarsi’. Dubito che un uomo medievale avrebbe capito il senso di questo strano verbo riflessivo. La tradizione cristiana invita semmai ad abnegare seipsum, rinunziare a sé stessi. “Et tollat crucem suam”, aggiunge, il che fa del Vangelo un testo decisamente obsoleto, inaccettabile per una società come la nostra che detesta le croci.
Realizzare un desiderio, un sogno, un progetto, lo capisco. Ma cosa significa realizzarmi? Passare dal non-essere all’essere? Ma dal nulla viene nulla. Esprimere appieno le mie potenzialità? Ma se fossero infinite sarei condannato a tendere eternamente verso una meta irraggiungibile, come in un supplizio infernale. E se fossero limitate, dopo averle espresse tutte non mi troverei realizzato ma esaurito, come un sacco vuoto. In entrambi i casi, preferisco la mia mediocre incompiutezza.
Di fatto, nella realizzazione di sé confluisce oggi una confusa mescolanza di linguaggi iniziatici. Dotto esercizio, dietetica e culturismo dello spirito; orgasmo metafisico; trasmutazione ontologica. Ossessioni di un orgoglio che sprona la volontà verso inospitali vette, fuggendo l’umile pianura. O che, come un profeta biblico, guida un popolo di pensieri in fuga verso la terra promessa.
Mobilitazioni grandiose e inspiegabili, che in genere costano molto più di quanto rendano e che, in realtà, hanno lo scopo di nascondere un problema più profondo. L’uomo moderno vive infatti nella paura del futuro, e i miti del benessere non bastano a rassicurarlo. L’idea di potersi realizzare diviene così il tentativo di negare l’angoscia di fronte alla propria finitezza, al dolore e alla morte. Si vorrebbe rimuovere un sentimento di dubbio e impotenza, si cerca di realizzare sé stessi fuggendo da sé stessi.
La realizzazione di sé implica sempre un tendere all’alto e alla grandezza. È un cammino ascendente, una scala sui cui pioli son poste le immagini ideali nelle quali l’uomo si rispecchia, pronte a consolarlo delle delusioni che la vita gli procura e a medicare le sue intime ferite.
Tale elevazione, nelle sue forme morali, comporta una sostituzione delle qualità ‘negative’ con il loro contrario ‘positivo’. È in fondo una via cosmetica: il violento si sforza d’esser pacifico, il timido audace, il superbo ostenta modestia ecc. La pretesa di apparire quello che non si è rappresenta del resto un tratto peculiare dell’orgoglio, il vizio nascosto di ogni sua virtù.
Molti sono i maestri nell’arte del realizzarsi: moralisti, eruditi, affabulatori, guide alpine della metafisica o della magia, filologi del misticismo, cerusici dell’anima. Che si segua una scuola o si proceda da autodidatti, l’essenziale è applicare a sé stessi una metodologia dell’auto-trascendimento. L’uso di una tecnica è infatti requisito imprescindibile in ogni via ascendente.
Fondamentalmente, la realizzazione di sé oscilla tra due poli: il cambiamento e l’accettazione. Devi cambiare o accettarti, accettare il fatto che devi cambiare o cambiare il fatto che non ti sai accettare. Ma in realtà il sé non vuole cambiare, né accettarsi, vuol solo illudersi. Perciò tutte le tecniche falliscono. Come dice Cervantes, “trenta monaci e il loro abate non possono far ragliare un asino contro la sua volontà”.
Il problema è che il sé si muove all’interno di una immaginaria proiezione di sé. La sua coscienza non vede ciò che è ma ciò che vorrebbe essere. L’uomo cerca in sé quest’altro sé che lo può redimere. Si smarrisce così in un’alienante ricerca da cui potrebbe guarire solo desistendo e accontentandosi di ciò che è.
Una vecchia che accende una candela con devozione, si inginocchia e recita un’umile preghiera, senza pensare che questo la renderà migliore, è certo più realizzata di chi cerca sé stesso. Non si preoccupa di esser diversa da ciò che è. Forse le piacerebbe essere giovane e bella, ma sa bene che è impossibile.
Nella via ascendente l’uomo insegue un’illuminazione o una trasformazione che confermino le sue fantasie narcisistiche. Per questo si rende inaccessibile a una vera illuminazione. “I teatri di marionette e i camposanti sono gli unici luoghi dove l’uomo possa prendere acuta coscienza di sé. Nei primi vede cos’è prima della morte, nei secondi quel che sarà dopo la vita.” Queste parole di Papini hanno il difetto d’essere amare e il pregio d’esser vere.
L’uomo non riconosce d’esser legato a fili ferrei e invisibili che lo tirano e governano i suoi movimenti; manovrato dalle dita della storia e del destino, della Fame e della Paura. Quello che chiamo ‘realizzare me stesso’ è solo l’aggrovigliarmi tra le cordicelle che fan gesticolare un burattino. Quando i fili mi sollevano, penso sia merito mio, quando mi fanno cadere ne incolpo la vita.
In realtà, nessuna via porta alla realizzazione di sé perché questa idea contiene una contraddizione insanabile. Attraverso una tecnica, il sé confida di liberarsi della propria angoscia. Ma il sé e l’angoscia sono inseparabili. Il sé è angoscia sedimentata, guscio psichico che ci isola dal non-essere, ovvero da una realtà che è ‘altro da sé’ e minacciosa. La realizzazione di sé diventa allora pretesa dell’‘io’ di dominare il ‘non-io’.
Si dice che quando il Buddha aumenta di un palmo, Mara (il demonio) fa altrettanto. Così, ogni sforzo di accrescere il sé è uno sforzo di isolarsi dal mondo che aumenta la tensione e l’angoscia. Gli artifici con cui tendiamo alla realizzazione di sé non possono quindi risolvere il nostro problema. Al massimo ci aiutano a disilluderci, rivelando la loro vanità.
V’è però un’altra via, discendente. Non consiste nel realizzare il sé ma nel comprenderlo, to realize the self. Questa comprensione rovescia il nostro sistema esistenziale. Sulla via ascendente cresci ogni giorno, su quella discendente giorno dopo giorno diminuisci, ti cali dai lumi del cervello nelle tenebre del cuore, dall’infinito allo zero, al tuo vuoto originale.
Ti volgi indietro e ritorni a quelle minuscole presenze quotidiane che danno un senso reale alla tua vita. È un culto delle piccole cose, arte dell’accontentarsi e di vedere la perfezione nell’imperfetto. Non offre nessun appiglio a fantasie sovrumane. Fa meno rumore della neve che cade. Il maestro non è nascosto in qualche libro, non devi adempiere eroiche o misteriose iniziazioni. Maestro e iniziazione è una vita in cui “a ciascun giorno basta la sua pena“. E non ti puoi salvare dal dolore alzandoti in volo ma toccandone il fondo.
È vero, come dice Eraclito, che una e medesima è la via che sale e quella che scende. Tuttavia, fra le due vie esistono essenziali differenze. La via che sale non ha limiti, si perde nelle immensità dei cieli, ovvero dell’immaginazione. Quella che scende si ferma quando incontra la solida terra, ossia la semplice realtà.
Inoltre, mentre la prima via prevede l’uso di tecniche, la seconda le esclude. Una dipende dal sapere e dal volere, l’altra non sa e non vuole nulla, percorrerla non è mai una nostra decisione. “Le bestie son portate alla pastura a forza di botte”, così su questa via occorre che qualcuno ci spinga e ci percuota. Cioran riassume così la questione: “Non è grazie al genio ma grazie alla sofferenza, e solo grazie ad essa, che smettiamo di essere una marionetta”.
Non si può sfuggire al dolore della vita imitando i pensieri o i gesti di qualche maestro. L’uomo è condannato dalle stesse opere con cui crede di giustificarsi. “E dunque, che devo fare?”, dirà l’orgoglioso. Infatti, ‘non fare’ è per lui inconcepibile. Non può capire la necessità di accettare una radicale umiliazione. E se anche ne fosse convinto, la sua logica lo spingerebbe a cercare ‘tecniche’ per umiliarsi. Ma nella via discendente mortificarsi da sé è un espediente senza valore.
“Dio corregge chi ama”, non possiamo correggerci da soli. È quindi assurdo che, sentendo parlare di una tale via, qualcuno si riprometta di seguirla o di farne una tecnica. “Non domandare dunque all’uomo di adottarne una (i.e. via spirituale), perché ciò lo allontanerebbe dal Principio Primo e Uno. E’ certo, invece, che proprio il Principio stesso deve venire a cercarlo”, dice Al Hallaj.
Allora perché parlare di una via puramente negativa, in cui l’iniziativa umana non val nulla? Solo perché può scoraggiarci dal seguire l’altra via. È inutile sforzarsi di ‘non fare’, ma possiamo abbandonare gli sforzi del fare, le promesse e le speranze di una realizzazione personale. Questo significa disincantarsi. Occorre una disperazione lucida, bruciante e obiettiva. Perciò la via che scende non si fonda su ragionamenti o su una comoda meditazione, ma sul dolore.
“Se tutta la realtà non viene aggravata non si può ottenere la liberazione con l’uso di antidoti rasserenanti e piacevoli”, dice un testo tibetano. Non è una comprensione che si può raggiungere attraverso una strategia spirituale, ma solo se il nervo dell’orgoglio è reso insensibile. Emerge allora un’umiltà fiera. Infatti, sei veramente umile solo quando niente ti può più umiliare.
Ma prima devi fare l’esperienza di un naufragio e arrenderti alla Realtà. Non v’è in questa resa un ultimo tentativo di realizzarsi, ma un abnegare seipsum che produce una decontrazione della volontà e dell’angoscia. Non ti aggrappi più a nulla e ti lasci cadere in questo sacro precipizio.
È noto che la dottoressa Kübler-Ross ha descritto nei pazienti con diagnosi infausta una serie di reazioni che precedono l’accettazione del proprio destino. Anch’io, finché conservo il mio orgoglio, devo affrontare i demoni dell’incredulità, della negazione, del rifiuto, della rabbia, della lotta, del mercanteggiamento, dell’angoscia, della depressione, perché “tutti i demoni sono compresi nell’orgoglio”. Ma come un moribondo, anch’io posso infine affidarmi al Vuoto.
Solo in rare occasioni l’ho sentito, questo Vuoto beato, passarmi vicino e sfiorarmi. Forse attratto dall’odore della disperazione, come un animale muto e feroce, vibrante di energia. È impossibile tendergli trappole, chiuderlo in una gabbia o addomesticarlo. Può divorarti, ma bisogna esserne degni. Io non lo ero, e si è limitato a guardarmi. Simile a un Dio, sospeso sui flutti del mondo, assiste impassibile alla tua disperazione e lascia che il tuo sguardo si mescoli al suo.
E per un momento ti vedi come realmente sei: una marionetta legata a fili divini, guidata dalle dita della tua stessa anima. Come nelle marionette di von Kleist, tutte le tue membra sono “come morte e meri pendoli”, si muovono ubbidendo a un inconscio centro di gravità. Sfiori il suolo solo per riprendere slancio, superando l’inerzia della materia, e cominci a danzare.