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Orlando Furioso, le ragioni del divario con la Commedia

di Annalisa Terranova - 06/11/2016

Orlando Furioso, le ragioni del divario con la Commedia

Fonte: Lettera 43

Una mostra lo celebra nella sua Ferrara, introducendo il visitatore nell’immaginario sontuoso di Ludovico Ariosto, l’artista che trasformò un poema cavalleresco in un indimenticabile affresco della cultura rinascimentale italiana.
A 500 anni dalla prima pubblicazione dell’Orlando Furioso (1516) è lecito però chiedersi come mai il capolavoro di Ariosto sia così poco sedimentato nella coscienza collettiva degli italiani a tutto svantaggio della Commedia dantesca, che pure è piena di sillogismi teologici non sempre facilmente comprensibili ai moderni.
Provate a immaginare un tour di Roberto Benigni che legge in piazza l’Orlando ariostesco: avrebbe lo stesso successo dei suoi spettacoli su Dante Alighieri? Certo che no.
E se Paolo e Francesca li ritroviamo anche nelle “canzonette” (Venditti docet) la stessa sorte non è toccata ad Angelica e Medoro, per non parlare delle terzine dell’Inferno mandate a memoria da milioni di studenti mentre il “ripasso” dell’Orlando Furioso non va oltre i primi due versi iniziali: «Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori / le cortesie, le audaci imprese io canto».
QUESTIONE DI INTENZIONI. Il grande storico del Rinascimento Jacob Burckhardt spiega così il paradosso di un’opera moderna come l’Orlando Furioso meno amata però della medievalissima Commedia: «Si sarebbe voluto che [Ariosto] avesse rappresentato in un grande lavoro i più grandi conflitti del cuore umano, che avesse riprodotto le idee più sublimi del suo tempo su ogni cosa umana e divina, in una parola si sarebbe voluta da lui una di quelle grandi sintesi mondiali, che s’incontrano nella Divina Commedia e nel Faust».
Ma Ariosto non aveva alcuna intenzione di farlo: mirava alla bellezza perfetta, «non descrive per descrivere», ma dipinge scene e personaggi fino al punto in cui «possono fondersi armonicamente col procedere degli avvenimenti».

Ariosto era uomo di corte, Dante un 'peccatore' in viaggio

Il fatto è che Ariosto ci teneva a essere uomo di “corte”, mentre Dante si presenta ai nostri occhi come un “peccatore” in viaggio, figura in cui l’intera umanità, e a tutte le latitudini, può riconoscersi.
Ariosto, prima al servizio del cardinal Ippolito d’Este e poi del duca Alfonso d’Este, era un cultore dell’aurea mediocritas, chiedeva solo di potersi rifugiare nella quiete domestica per scrivere versi e dare libero sfogo alla sua opulenta fantasia.
Quando se la prende con i vizi dei cortigiani non lo fa per un alto senso etico ma perché non lo lasciano in pace a godere dei frutti del lavoro intellettuale che, solo, gli interessa.
VALORI E PUBBLICO DIVERSI. Ariosto non guarda, come Dante, a un pubblico vasto, ma a un’élite di “madonne” e “signori”, agli “animi gentili” che sono in grado di comprenderlo. Dante invece mette in scena una sacra rappresentazione con intenti pedagogici, un tipo di “spettacolo” che in età medievale era molto apprezzato dalla folla, dai nobili come dai borghesi.
Eppure, col suo Orlando Furioso, Ariosto in qualche modo inietta elementi rivoluzionari in una struttura antica.
Riprende l’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo e i cantari medievali, ma in mano sua tutto questo materiale subisce un inaspettato capovolgimento: l’esaltazione eroica è del tutto assente dal poema così come l’amore perde tutte le valenze purificatrici che l’età medievale aveva affidato a questo sentimento, riducendosi a strumento di perdizione e a desiderio profano.
I valori che Ariosto vuole esaltare sono quelli della corte estense: amore, bellezza, amicizia, sfrondati di ogni aura trascendente, liberati da ogni sovrastruttura mitica.
TRA BELLEZZA E CATARSI. L’arte è puro diletto che insegna a guardare la vita con distacco e ironia: nell’episodio del castello di Atlante, un palazzo incantato dove ogni cavaliere che passa crede di poter ritrovare l’oggetto dei suoi desideri e invece finisce col perdersi in un vano girovagare alla ricerca di un’illusione, è racchiusa la visione disincantata dell’esistenza umana come affannosa ricerca di una felicità irraggiungibile.
Uomini e donne, siamo come i cavalieri catturati dal castello di Atlante, i quali «tutti cercando il van non si sanno partir da quella gabbia».
A questa ricerca infinita e fonte di dolore e angoscia si contrappone l’ideale di vita cortese, la possibilità di condurre un’esistenza «libera e serena, tutta umana e mondana, espansiva e cordiale».
Ariosto è poeta e basta, sia pur poeta geniale. Dante è anche filosofo, teologo, profeta, politico, moralista.
Ariosto appartiene alla raffinata cornice della Ferrara rinascimentale, Dante è il “nostro” Dante, perché c’è nella sua opera la tensione di arrivare fino a noi, di lasciarci un messaggio, una traccia.
L’Orlando di Ariosto ci conduce alla bellezza, la Commedia di Dante ci offre catarsi e commozione.

Alighieri si assegna una missione universale

Il ritratto di Dante dipinto da Sandro Botticelli.

Il ritratto di Dante dipinto da Sandro Botticelli.

Ariosto era un intellettuale educato e alieno dai conflitti, si sfogava con le Satire, senza mai perdere il senso della misura.
Dante era un ambizioso: nella lettera con la quale dedica a Cangrande della Scala la terza cantica della Commedia, il Paradiso, precisa che lo scopo della sua opera era «rimuovere i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità».
Si assegna dunque una missione universale che nessun poema epico aveva mai tentato prima.
PROFONDA TENSIONE SPIRITUALE. Dante non parla agli uomini del suo tempo ma ai “viventi”, a tutti, in ogni età storica. Non vuole compiacere il suo pubblico, lo vuole disturbare. «Tutta la tua vision fa manifesta», gli dice Cacciaguida, «e lascia pur grattar dov’è la rogna. Ché se la voce tua sarà molesta nel primo gusto, vital nutrimento lascerà poi, quando sarà digesta».
Dante imposta la Commedia come un libro di “rivelazione” e la sua opera presenta infatti una profonda tensione spirituale che si concretizza nei canti del profetismo politico-religioso in cui annuncia il futuro avvento di una figura chiamare a rinnovare e rigenerare, con l’Impero, l’intera umanità.
Quello di Dante è un iter mistico ma talmente costellato di personaggi, storie, episodi, linguaggi grotteschi, figure che provengono dal “meraviglioso” pagano e cristiano da risultare avvincente e convincente.
È una “summa”: ci si può limitare a leggere solo la Commedia e l’età medievale non avrà più segreti per il lettore contemporaneo.
EPICA A SFONDO RELIGIOSO. Benché il lieto fine sia scontato e prevedibile, la pagina dantesca cattura e trattiene, a volte densa di aristotelismi, a volte incredibilmente realistica, perché riesce a svolgere la funzione più elevata che un altro scrittore alle prese con l’epica a sfondo religioso, J.R.R. Tolkien, assegnava alla letteratura: dare consolazione e far intravedere qualcosa, anche solo un lontano luccichìo, dei misteri impenetrabili.
Mentre Ariosto si dava un limite, scegliendo un teatro, quello di corte, Dante provò a fare del mondo il suo teatro. Ed è riuscito nell’intento.
Basti un solo dato: la Commedia è l’opera che ha avuto più interpretazioni e commenti di ogni altra, a cominciare dalle chiose del figlio del poeta, Jacopo, per finire ai libri che ancora oggi vengono stampati sull’argomento.
Un filone aureo inesauribile che è anche il vero motivo del successo popolare della Commedia: ha sempre qualcosa da dire, qualcosa che prima non era stato colto, e c’è sempre qualcuno disposto a ricevere. Con gratitudine.