Ormai solo un Dio ci può salvare: risposta a Giorgio Agamben (Parte II)
di Roberto Pecchioli - 25/04/2020
Fonte: Ereticamente
Ormai solo un dio ci può salvare. Fu la risposta data da Martin Heidegger nella famosa intervista uscita postuma alla domanda sul declino del pensiero umanistico, soffocato dalla tecnica e dall’economia.. Il tramonto del pensiero meditante, sostituito da psicologia, logica, cibernetica, statistica sembrava a Heidegger inevitabile, a meno che l’umanità non avesse ritrovato le tradizioni legate all’insegnamento dei classici greci o alla visionarietà dei poeti, come l’amato Hoelderlin. Non ci riferiamo ovviamente a un intervento soprannaturale che produca la fine del contagio, ma ai timori espressi da Giorgio Agamben circa il“salto” storico culturale provocato dalle risposte del potere all’emergenza. Lo stato di eccezione imposto con tanta facilità si può comprendere nell’immediato, ma obbliga a ripensare il rapporto tra vita naturale e esistenza politica . Lo Stato di eccezione , ovvero la sospensione straordinaria e provvisoria dell’ordine giuridico, tende a trasformarsi in normalità di gestione della polis, sino a confondersi con la regola. La categoria di democrazia e il concetto di Stato di diritto assumono contorni opachi. Uno dei rischi esistenziali riguarda la sensazione di provvisorietà, di fine incipiente a cui l’uomo tende a dare la risposta che Tucidide, padre dell’indagine storica, intravide nel comportamento dei greci nella peste durante la guerra del Peloponneso: “nessuno era più disposto a perseverare in quello che prima giudicava il bene, perché credeva che forse poteva morire prima di raggiungerlo”. La banalità del male rischia di avvolgerci e travolgerci, e una delle sue forme può essere il nuovo virtuoso precetto anti contagio, il distanziamento sociale. Si tratta di un eufemismo introdotto nel lessico quotidiano al posto del più crudo “confinamento “. Si moltiplicano dichiarazioni di ambienti di potere tese a farci abituare, rassegnare e persino apprezzare un modo di vivere in cui- virus o non virus- la solitudine diventa la condizione normale di vita. A questo dobbiamo opporre un no convinto. Chiedeva Agamben di non ascoltare “gli stolti che suggeriscono che una tale situazione si può senz’altro considerare positiva e che le nuove tecnologie digitali permettono da tempo di comunicare felicemente a distanza. Io non credo che una comunità fondata sul “distanziamento sociale” sia umanamente e politicamente vivibile.”
Il ruolo degli intellettuali è quello di riflettere sui fenomeni e sulle loro conseguenze. Fu Elias Canetti a indagare sul rapporto tra massa e potere . Lo scrittore bulgaro di lingua tedesca descrive una situazione assai simile a quella che stiamo vivendo in queste settimane; in un brano di Massa e potere analizza la massa che si forma mediante un divieto, “ in cui molte persone riunite insieme vogliono non fare più ciò che fino a quel momento avevano fatto come singoli. Il divieto è improvviso: essi se lo impongono da soli; in ogni caso esso incide con la massima forza. È categorico come un ordine; per esso è tuttavia decisivo il carattere negativo”. Una comunità fondata sul distanziamento sociale è una contraddizione in termini. In più non significa, come si potrebbe credere, solo il trionfo dell’individualismo: “essa sarebbe, proprio al contrario, come quella che vediamo oggi intorno a noi, una massa rarefatta e fondata su un divieto, ma, proprio per questo, particolarmente compatta e passiva.” Tutto questo senza proteste o opposizioni. Perché ? La diagnosi di Agamben è disperante. “L’ipotesi che vorrei suggerire è che in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la peste c’era già; che, evidentemente, le condizioni di vita della gente erano diventate tali che è bastato un segno improvviso perché esse apparissero per quello che erano – cioè intollerabili, come una peste appunto. E questo, in un certo senso, è il solo dato positivo che si possa trarre dalla situazione presente: è possibile che, più tardi, la gente cominci a chiedersi se il modo in cui viveva era giusto.” Agamben pone un’altra domanda, a cui i numerosi detrattori evitano accuratamente di rispondere: che società è quella che non ha altro valore che la sopravvivenza, anzi, per dirla con Curzio Malaparte, la pelle ? Ci siamo così abituati a vivere in crisi perenne e perenne emergenza da non accorgerci di vivere in “una condizione puramente biologica [che] ha perso ogni dimensione non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva. Una società che vive in un perenne stato di emergenza non può essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una società che ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza, con grande profitto per il potere.
Infine, ma è forse l’elemento più importante, Agamben getta uno squarcio di luce , mentre i presbiteri tacciono rinchiusi nelle loro sacrestie , sull’enorme bisogno di religione che la circostanza rivela. Ne è indizio, nel discorso martellante dei media, la terminologia presa in prestito dal vocabolario escatologico che, per descrivere il fenomeno, ricorre ossessivamente, soprattutto sulla stampa americana, alla parola “apocalisse” e evoca, spesso esplicitamente, la fine del mondo. “È come se il bisogno religioso, che la Chiesa non è più in grado di soddisfare, cercasse a tastoni un altro luogo in cui consistere e lo trovasse in quella che è ormai di fatto diventata la religione del nostro tempo: la scienza. Questa, come ogni religione, può produrre superstizione e paura o, comunque, essere usata per diffonderle. Mai come oggi si è assistito allo spettacolo, tipico delle religioni nei momenti di crisi, di pareri e prescrizioni diversi e contraddittori, che vanno dalla posizione eretica minoritaria (pure rappresentata da scienziati prestigiosi) di chi nega la gravità del fenomeno al discorso ortodosso dominante che l’afferma e, tuttavia, diverge spesso radicalmente quanto alle modalità di affrontarlo. E, come sempre in questi casi, alcuni esperti o sedicenti tali riescono ad assicurarsi il favore del monarca, che, come ai tempi delle dispute religiose che dividevano la cristianità, prende partito secondo i propri interessi per una corrente o per l’altra e impone le sue misure.” Un’altra cosa che dà da pensare è l’evidente crollo di ogni convinzione e fede comune. Si direbbe che gli uomini non credono più a nulla – tranne che alla nuda esistenza biologica che occorre a qualunque costo salvare. “Ma sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata.” In una recentissima intervista , Agamben va oltre. “La scienza è la religione del nostro tempo. L’analogia con la religione va presa alla lettera: i teologi dichiaravano di non poter definire con chiarezza che cos’è Dio. (…) I virologi ammettono di non sapere esattamente cos’è un virus, ma in suo nome pretendono di decidwere come devono vivere gli esseri umani.“
Si torna allo sconsolato ateo Heidegger: solo un Dio, comunque lo si chiami, dovunque lo si rintracci, ci può salvare, anche se la salvezza è circoscritta al salvataggio della “pelle”, qui e adesso. Ancora Malaparte: “null’altro rimane allora se non la lotta per salvare la pelle: non l’anima, come un tempo, o l’onore, la libertà, la giustizia, ma la schifosa pelle. “ Il potere lo sa e agisce di conseguenza. Nel frattempo, lancia i suoi servitori in attacchi forsennati contro chi esprime pensieri divergenti, diventati sbrigativamente fake news, le false notizie come gli untori della peste . Ne è prova la reazione scatenata contro Agamben nel recinto dell’ortodossia culturale. Un osservatore risolve la contesa affermando che, poiché la “premessa maggiore “di Agamben , ovvero l’evidente errore iniziale di sottovalutazione del Covid19, è risultata falsa, le premesse successive sono altrettanto false. Un ottimo espediente per evitare di confrontarsi nel merito: la consueta demonizzazione dell’Altro, segno certo del razzismo antropologico della kultura che non risparmia neppure i propri, quando si permettono pensieri non fedeli alla linea. Più interessante è l’opinione di Paolo Flores d’Arcais, il giacobino d’acciaio , l’illuminista incorruttibile come Robespierre, che officia le sue omelie laiche da pulpiti come Micromega, Repubblica e il Fatto. Già il titolo del suo intervento dimostra l’eleganza e l’equilibrio di Flores: le farneticazioni di Giorgio Agamben. Dissentire è farneticare, buono a sapersi. E’ l’autorevole opinione di fieri democratici. Dopo aver citato Walt Whitman per affermare che corpo e anima sono la stessa cosa, definisce sobriamente le idee di Agamben “funambolismi spirituali, , esorcismi antiscientifici, addirittura grufolare in mediocri deliri di narcisismo.” Se le parole hanno un senso, Agamben è un pazzo e anche un maiale, giacché grufolare è verbo destinato ai suini. “Più illuminismo, scienza, ricerca. Non se ne può più delle superstizioni, dei guru e dei santoni” si infervora il direttore di Micromega, e sbotta che “il sapere è quello delle scienze, non delle elucubrazioni oniriche e post teologiche.”
La religione di cui è devoto Flores è quella illuminista della Dea Ragione e della Scienza , sempre con la maiuscola, specie in tempi di “fake news, dove non si distingue più tra verità e opinione”, tempi in cui occorre pronunciare qualche “modesta verità”, ad esempio- testuale – “che la filosofia di Agamben “è una filosofia del cazzo”. A parte la finezza oxfordiana, degna davvero dell’alta cultura, credevamo- noi poveri ignari illusi- che in democrazia l’opinione fosse lecita. Sbagliavamo: vale solo la “verità” fiorita sulle labbra dello stesso Flores, dei suoi sodali o, meglio ancora, dagli scienziati cui, par di capire, va affidato il nostro futuro. Tutto procede per il meglio, secondo Flores, tranne il fatto- assai fastidioso agli occhi del Saint Just di Micromega, che “a un capo di Stato straniero in abito bianco ( il Papa n.d.r.) è stato concesso di aggirarsi senza motivo per Roma, in violazione delle disposizioni decretate. “ Ecco il dente dolente su cui batte la lingua . Dio e la religione si tolgano dai piedi, la legge è legge, poiché è stata “decretata”, ovvero imposta dal governo senza il fastidioso voto parlamentare. La scienza ha ordinato il confinamento, e confinamento sia, per tutto il tempo desiderato dagli alchimisti post moderni. E’ la nuova Vox Dei, voce di una religione politeista, giacché le opinioni degli esperti sono contraddittorie e variegate. E’ giusto così. Sono uomini che ragionano e che talvolta sbagliano.
Comunque, se il parere di un ingegnere è certo importante in materia edilizia, nessuno immagina di affidare all’ordine degli ingegneri la stesura dei piani regolatori. Allo stesso modo, se, come dicevamo prima, abbiamo il dovere di ascoltare la scienza in materia di Covid 19, fornirle mezzi e assistenza, è la politica, cioè la polis, a dover decidere, tranne per il periodo strettamente necessario ad arginare l’emergenza. Solo un Dio ci può salvare, ma non è il vaccino, la ragione strumentale , la tecnologia e tantomeno la tecnocrazia. La nostra società globalizzata, iper-connessa, accelerata allo spasimo, ultraliberista, è intrinsecamente pandemica. Se la democrazia e il cosiddetto stato di diritto sopravvivranno allo stress attuale- il che non è affatto sicuro- dovrà reiventare le sue basi. Ciò che abbiamo imparato è che una democrazia non può combattere un’epidemia senza smettere di essere e chiamarsi tale. I popoli, d’istinto, lo stanno comprendendo. Nel momento in cui ogni relazione interpersonale diviene sinonimo di contagio non c’è più libertà e nemmeno un futuro da esseri liberi. Che a imporci la distanza sia la scienza forse oggi ci salva la pelle, ma non rende meno grave la perdita di diritti e meno sinistra l’ingegneria sociale sovrastante di cui vediamo i tratti. La libertà riguarda i nostri corpi e le nostre anime, al di là della vita biologica. Per questo, è sensato ascoltare Giorgio Agamben e sbadigliare alle urla di Flores. Una risata – amara, sardonica, ma sempre una risata – lo seppellirà. Dicevano così i suoi maestri del Sessantotto. Dicevano anche vietato vietare. Altri tempi, altri virus.