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Ortognosi

di Pierluigi Fagan - 21/08/2024

Ortognosi

Fonte: Pierluigi Fagan

Orto dal greco antico  ὀρϑός, “diritto”, gnosi dal greco antico γνῶσις “conoscenza”. La conoscenza dritta va ricercata quando, nel suo complesso, ha preso una forma scoliotica.
L’altro giorno ho visto la locandina di uno dei tanti seminar-dibattiti sul web su “nuove forme di economia”. In tanti si dilettano a pensare, immaginare, indagare nuove possibili forme di economia. La nostra società, di cui costoro sono scontenti in vario modo, si connota per il dominio dell’economico e di una sua forma particolare detta “capitalismo”. Così, costoro si mettono ad immaginare alternative che siano keynesiane, sraffiane, marxiste, socialiste, femministe, evolutive, mutualiste, bioeconomiche, decresciste e/o stazionarie, istituzionali, cooperative e partecipate e via così.
Poco tempo fa, alcuni miei contatti hanno mostrato orgogliosi la nuova versione de il Capitale di Marx di Einaudi (a cura di R. Fineschi) mentre impazzano articoli su un giapponese (K. Saito) che avrebbe trovato certe tracce di pensiero ecologico in quaderni di appunti di Marx, un Marx verde ante litteram e sempre in gamba. Mi ricorda quel film in cui un tizio deve portare in treno il cadavere di una amico morto facendo finta che dorme ma è vivo per andare a riscuoterne la pensione.
Marx, buttò giù lì senza poi riprenderne il filo, delle Tesi su Feuerbach che terminavano con l’invito a concentrarsi non solo sulle interpretazioni del mondo, ma sul come cambiarlo. Immaginare nuovi tipi di economia, porta a cambiare il mondo?
Con Marx non si capisce mai bene da dove inizi questa storia di ciò che poi Sombart e non lui chiamò “capitalismo”. Sì, ve bene, secondo lui inizia dall’accumulazione originaria, ma non si capisce come e quando tutto quel movimento diventò potere primo ordinativo della società. Non lo si capisce perché Marx, a proposito del parlamentarismo inglese, usò l’espressione “camera d’affari della borghesia”. Ora, è senz’altro vera la definizione, ma è parziale.
Il parlamento legifera ed è strano non tenerne conto per uno che all’università ha studiato diritto o meglio, che aveva cominciato a studiare diritto su spinta pressante del padre, ma poi si era invaghito della filosofia tanto da abbozzare una sua prima opera che era appunto una “Filosofia del diritto” poi abbandonata. Abbandonata perché serviva un sistema filosofico per sviluppare l’argomento, così diventò studioso di Hegel. Peccato perché mi sa che s’è perso un pezzo per strada.
Karl Polanyi spiegò molto dopo che la forma economica che chiamiamo “capitalismo” era la prima forma in cui l’economico domina la società invece che esserne compreso. Usò le famose espressioni “embedded” (incorporata) per le forme più o meno universali di società in cui l’economia è un di cui dell’intero sociale e risente delle determinazioni, convenzioni, valori limitanti della società e “disembedded” (scorporata”) per la forma moderna occidentale in cui l’economia, liberatasi dai vincoli sociali e tradizionali, sormonta la società ed ogni suo aspetto, dettandone valori e funzionamenti.
Visto che in termini puramente economici, dopo la storielle dell’accumulazione originaria, molti altri studiosi, storici per la precisione, ci hanno dimostrato che la forma “capitalistica” era esistita nelle Province Unite non meno che nella variegata Italia, del XV-XVI secolo, forse anche nell’Hansa baltica, financo prima e secondo Moses anche nell’Atene classica, ci si poteva domandare cosa faceva la differenza tra queste forme parziali che però non avevano catturato tutto l’intero sociale e la forma tipicamente moderna, quando e come cioè l’economia da embedded era diventata disembedded e come e dove si era affermata in quanto  tale.
La risposta è anche semplice ma poiché nel frattempo la nostra conoscenza si è aggrovigliata prendendo la forma scoliotica, non siamo in grado di leggere l’evidenza storica. Complice anche il nostro euro-continentalismo e la corresponsione di amorosi sensi tra hegelismo-marxismo-proto socialismo e attardata borghesia francese, l’epitome storico del “grande cambiamento”, per noi, è la Rivoluzione francese. Ma più di un secolo prima gli inglesi avevano tagliato la testa al loro re in pubblica piazza e pure all’arcivescovo di Canterbury che nella chiesa anglicana ha funzioni semi-papali. E che ciò che chiamiamo “capitalismo” sia un sistema tipicamente anglosassone pur doveva far venire il dubbio. Vabbe’ uno pensa, era la Guerra Civile, ma poi rifluì e dopo non ne venne niente. Niente?
Qualche decennio dopo, gli inglesi inscenarono un colpo di stato che dopo chiamarono “rivoluzione” prendendo il termine dall’astrofisica (Newton era contemporaneo, anzi era pure il direttore della Zecca di Stato) e per pulire il fatto di ogni moralismo vi aggiunsero “gloriosa”. Era il 1688-89. Oltretutto non ebbero neanche il coraggio di fare un colpo di stato in prima persona, semplicemente invitarono il nemico col quale avevano fatto ben tre guerre navali nella Manica lungo tutto il secolo, lo Statholder delle Province Unite e gli chiesero gentilmente di essere invasi. Così accadde. Il re scappò e il parlamento si autonominò finalmente potere primo, un parlamento fatto di nobili, clero e borghesia che diversamente dalla Francia, erano tutti uniti a fare affari, far girare i soldi, commerciare, speculare. Ridurla a “camera d’affari delle borghesia” è poco più che una battuta direi. Quando questa fascia della élite prese il potere ed ebbe lo strumento legislativo, la banca centrale e l’esercito sotto il suo potere, l’economico diventa disembedded e prende il “potere” poiché il potere, che sia all’inizio o alla fine, è sempre politico poiché deve diventare giuridico, non c’è altro modo di governare una società da prima di Hammurabi, dall’avvento della civiltà.
Quindi sì, il sistema va interpretato in vario modo ma alla fine per cambiarlo tocca avere uno straccio di idea su come farlo sul piano politico. E che idea di cambiamento politico ci lasciò il genio di Treviri? Mah, qui la faccenda si complica. Diciamo che si oscilla tra la rivoluzione del proletariato reso cosciente da una avanguardia borghese a moti spontanei tipo Comune di Parigi, il tutto con una teoria dello Stato che Lenin cercò di ricavare dal corpus marxista in Stato e rivoluzione, ma senza esiti chiari, inciampando tra dittatura del proletariato, democrazia generale o solo proletaria, forme economiche basate su i soviet ma poi però sulla NEP perché si moriva di fame e la rivoluzione stava fallendo.
Tra l'altro, pare che lo stesso Lenin e poi senz'altro Gramsci s'erano chiariti che le dinamiche russo-sovietiche non avevano nulla di trasferibile nell'Europa occidentale dove c''era la democrazia liberale e le opinioni pubbliche ed una stratificazione sociale diversa.
Il “capitalismo” occidentale si afferma in quanto tale quando prende il potere (legislativo, esecutivo, giudiziario, militare), come prendere il potere per fare altro non è però chiaro. Penso che tutti coloro che si dilettano a sognare nuove forme economiche diano per scontato il ricorso finale alla democrazia parlamentare delegata a voto quadriennale, il che denota la scoliosi della conoscenza.
La delega politica è una istituzione aristocratica, darla nei modi e tempi delle società liberali ha come esito finale sempre la vittoria del “giusto mezzo” di una forma politica centrale a volte un po’ più di destra o di sinistra ma sostanzialmente conforme al dominio del capitalismo. E lasciamo perdere il dominio imperiale americano ed il possesso dei mezzi di formazione ed informazione che fanno l'immagine di mondo che tutti hanno in testa ed in base alla quale deliberano giudizi ed azioni.
Ma perché preoccuparsi di dedicare un po’ di riflessione alle forme politiche e chi poi ne è in grado? Meglio dedicarsi alle forme economiche, magari le cambiamo a chiacchiere oppure facciamo un po’ di critica culturale, non cambia niente ma almeno ci sfoghiamo un po’.  Il mondo lo cambiamo la prossima volta.