Fine della guerra o soltanto una tregua? Se Putin e i sauditi dicono la stessa cosa vuol dire che qualche cosa sta accadendo nella battaglia sui prezzi petroliferi e in Medio Oriente. Il leader russo e il capo dell’Aramco Amin Nasser hanno affermato al World Energy Forum di Istanbul che se le quotazioni dell’oro nero non saliranno, mancheranno gli investimenti e nei prossimi anni ci sarà uno schock da approvvigionamenti. Finora russi, iraniani e sauditi si erano fatti la guerra a colpi di aumenti della produzione per finanziare le loro opposte strategie militari. Anzi i sauditi si erano lanciati nel 2014 in una guerra al ribasso destinata a colpire l’Iran e la Russia, i principali sostenitori di Assad, mentre Riad e le monarchie del Golfo insieme alla Turchia hanno appoggiato ribelli e jihadisti. Una battaglia che prendeva di mira anche lo shale oil, il petrolio americano, abbondante ma costoso da estrarre. Siamo di fronte a una pax energetica che prelude a qualche mossa politica in Medio Oriente? Per ora tagli sostanziali non si vedono, tanto meno da parte dei russi che smentiscono accordi con l’Opec, al massimo viene congelata la produzione mentre Paesi come la Libia e l’Iran intendono aumentarla.

In realtà forse questa è soltanto una tregua dettata dal fatto che tutti hanno bisogno di un aumento dei prezzi per sostenere gli investimenti, i piani economici e le spese per l’apparato bellico. Non dimentichiamo che tutti i principali produttori mondiali sono in guerra. Dagli Stati Uniti, la superpotenza mondiale, alla Russia, impegnata direttamente in Siria e sul fronte orientale, all’Iran, schierato sia in Iraq che in Siria, all’Arabia Saudita che fa la guerra in Yemen e finanzia ogni tipo di opposizione armata al mondo sciita. Putin sta già comunque raccogliendo in Medio Oriente qualche risultato del suo impegno militare. Ha appena raggiunto l’accordo con Erdogan sul gasdotto Turkish Stream e forse si prepara a un’intesa con Ankara sul Nord della Siria a spese di curdi. I sauditi hanno mangiato la foglia: Mosca ha basi militari permanenti in Siria e qui nulla si deciderà senza il consenso di Putin e dell’Iran. In più i sauditi conducono una guerra in Yemen fallimentare in cui si stanno giocando la faccia, oltre che il prestigio di leader del mondo sunnita, macchiandosi di crimini di guerra contro i civili. Il piano di Putin è influenzare l’Arabia Saudita che resta il regolatore mondiale del corso dei prezzi petroliferi.

Mosca punta a una quotazione alta a sufficienza per far funzionare l’economia e sostenere le sue ambizioni geopolitiche. Le esportazioni di idrocarburi rappresentano il 70% del totale (50% petrolio, 20% gas) e la metà delle entrate fiscali. Se l’economia russa si è ripresa negli anni Duemila è stato soprattutto per il picco del petrolio, il crollo delle quotazioni, insieme alle sanzioni, rende tutto più complicato. Per questo deve tenere sotto pressione i sauditi che hanno costi di produzione assai bassi, in media 4 dollari al barile. Se il petrolio oggi non è a 100 dollari si deve a due fattori. Uno è l’esplosione dello shale oil americano, l’altro è il duello mortale tra l’Arabia Saudita e l’Iran. I sauditi sono 28 milioni, gli iraniani 80 ma la produzione potenziale di Riad è 12 milioni di barili, tre volte quella iraniana: questo significa che se il petrolio per i sauditi è fondamentale per gli iraniani è ancora più vitale. Su queste considerazioni è stata impostata dal regno wahabita la battaglia sui prezzi. Ora che Riad ha perso la guerra in Siria e rischia di non vincere in Yemen ha deciso che le quotazioni possono di nuovo salire. Putin e l’Iran possono quindi riprendere fiato. Ma questa è una tregua, non la pace.