Passaggio di proprietà
di Lorenzo Merlo - 17/09/2022
Fonte: Lorenzo Merlo
Un modo per significare il momento attuale è osservare cosa ha comportato la svolta imposta dalla volontà di digitalizzazione. Buttata l’unità di misura umanista che ha segnato l’epoca analogica, ovvero la storia moderna fino ad oggi, lo spirito dell’uomo è mortificato. Senza più orizzonti trascendenti, resta con un pugno di mosche a soffrire di un nichilismo esistenziale che lo rende facilmente dominabile se inconsapevole oppure emarginato, se consapevole di non essere più padrone di se stesso. Senza più neppure la forza di aggregazione – che era stata un tratto tipico dell’epoca analogica – vive in enclavi individuali affacciato alla finestra del proprio monitor. L’eros necessario alla sovversione è stato sedato dall’opulenza di tutto: merci, beni, concetti, immagini, informazione, spostamenti. Non ne resta più per la sovversione, idea che vagheggia come una medusa nella corrente.
L’epoca analogica é stata l’epoca a misura d’uomo. Qualunque avvenimento – tentando di far stare dentro tutto – dal progresso tecnologico al degrado politico aveva come unità di misura l’essere umano, il suo pensiero, la sua immaginazione, le sue aspirazioni. Protagora e il suo mondo sono stati brutalmente assassinati. L’uomo non è più misura di tutte le cose. Per quanto l’industria e il capitale avessero i mezzi per orientare quei pensieri, quell’immaginazione e quelle aspirazioni, la loro azione era necessariamente limitata: il mezzo analogico lo imponeva.
Ogni avvenimento, inclusi quelli meravigliosi e impensati dai più, avevano una firma certa che grondava umore umano. I sensi di tutti lo riconoscevano. Ognuno poteva sentirsi tanto rappresentato, quanto corpo unico con quell’idea, quell’impresa, quell’uomo.
Il mondo poteva anche essere lontano e sconosciuto ma era vissuto come disponibile. Ci si rapportava ad esso esattamente come avviene per ogni cosa che consideriamo nostra. I padroni avevano più di noi, ma non avevano noi, il nostro cuore, il nostro corpo, la nostra bieca dedizione. C’era una relazione con l’altro e il lontano che aveva il medesimo tenore di quella con il prossimo e il sodale.
In tutto ciò, l’identità profonda dell’individuo – sebbene già toccata per i lavoratori dell’industrializzazione della produzione e del terziario – godeva di una traccia profonda in cui risiedere, muoversi e percorrere la vita. L’intera comunità era costituita per ognuno che la componeva e la osservava come un’aggregazione di interlocutori che il grande barcone dell’umanità tutti conteneva.
L’avvento del digitale, dopo gli entusiasmi nel suo breve rodaggio, per quanto riguarda le strutture relazionali, ha avuto l’effetto paragonabile ad una bomba atomica simile a quella che ha raso al suolo Hiroshima.
La rete di relazioni analogiche, precedenti all’esplosione, dunque di verità, d’ordine, di concezione e immaginazione è stata rasa al suolo. Tutti i poli di riferimento sono venuti a mancare. Gli alvei delle tradizioni comunitarie sono stati riempiti di scorie, oppure di offerte, vendute come occasioni da cogliere, pubblicizzate come progresso.
In epoca digitale, gli ordini analogici si sono baumaniamente liquefatti. Le identità individuali, sociali, eccetera si sono sciolte sottraendo così la terra storica e biografica da sotto i piedi di ognuno e di ogni comunità. L’allontanamento spirituale dagli ordini della natura si è fatto più che abissale, imponderabile, ingovernabile, inaccessibile. L’alienazione è in agguato diffuso e profuso, la stella polare di se stessi si è spenta. La cui vera, inconfutabile essenza è una corrispondenza di se stessi con norme, leggi e ordini, non più col sentire e il creare. Vaghiamo così nel buio infernale pronti a lotte fratricide, fortuite e provocate. La natura, spiritualmente intesa, non è sostituibile. Chi ci prova non può che ammaliare gli uomini con effimeri incantesimi. Una patologia silente i cui sintomi di rivelano nella ricerca di soddisfazione nel cibo, negli stupefacenti, nel sesso e negli acquisti compulsivi. Sintomi di una carenza di profondità. Un’esperienza necessaria quando dentro di sé non si trova altro che un usa e getta di qualunque tipo, pur di credere d’essere nel giusto.
Per quanto irraggiungibili, i comandanti e padroni dell’epoca analogica mantenevano una dimensione umana. Ora i potentati, strutture private più forti degli stati, in grado di determinarne, di comprarne, l’orientamento politico non hanno più un volto. La dimensione digitale lo permette. Oltre alla proprietà delle sovranità statali e nazionali già perdute, sottrae anche quelle individuali.
La potenza di fuoco mediatico dà agio al corso digitale delle cose di avanzare come una fanfara per il centro del paese, tra filari di sorridenti ubbidienti plaudenti.
La moltitudine, ignara del falso progresso, è coriacea e resistente. Le voci di allarme le rimbalzano contro come fanciullesche palline di cerbottana. I veri paladini di quei potentati – sul cui tecnografo sono tracciate le architetture del futuro del mondo – sono proprio quelle inconsapevoli moltitudini. La cui inerzia ha la forza di una colata lavica che tutto travolge, che nulla può fermare. Quello che hanno saputo dimostrare credendo nella scienza, indossando maschere, lavandosi le mani, lasciandosi inoculare, condannando Putin sono dimostrazioni del nero potere digitale.
Sostenuta dalle moltitudini, la repressione, applicata a tutte le espressioni non allineate, conclude il triste excursus del passaggio di proprietà che ha sottratto agli uomini anche la sovranità individuale. In cambio di un diritto al lavoro soggetto a ricatto o di un passaggio di ubbiente carriera.