Per gli Stati Uniti potrebbe essere l'ultima possibilità
di Cesare Pozzi - 18/04/2025
Fonte: Dissipatio
Giorgia Meloni è volata negli Stati Uniti per contrattare un posto al sole nel riassestamento globale in corso. Gli Stati Uniti stanno unilateralmente ridefinendo buoni e cattivi, seguendo un criterio che fonda realismo politico a utilitarismo economico. Da settimane si alternano immagini di borse in rosso, aliquote percentuali e leader nazionali umiliati e offesi dalle mosse del fu alleato. Ma da dove arriva questo desiderio di ridefinire gli accordi di libero di mercato? Quale scenario ideale immaginano alla Casa Bianca? E quali sono i rischi per noi e per le istituzioni che crediamo inscalfibili? Per orientarci nel Nuovo Mondo, che non nasce certamente in queste settimane, abbiamo intervistato Cesare Pozzi, Ordinario di Economia Applicata presso l’Università di Foggia e docente di Economia industriale ed Economia politica alla Luiss Guido Carli di Roma.
- Professor Pozzi, il momento storico statunitense sembra essere uno di quelli capaci di cambiare il volto di questo secolo. La superpotenza si sta chiudendo e lo sta facendo per una serie di motivi che mi piacerebbe identificare con lei. Innanzitutto quale sistema sta abbandonando e quale sta abbracciando?
Nel 2013 Papa Francesco, durante il suo primo anno di pontificato, dichiarò a più riprese che il mondo era già entrato in un cambio d’epoca. Quello a cui stiamo assistendo oggi riguarda un processo di assestamento verso nuovi equilibri che parte da lontano. I movimenti degli Stati Uniti, per certi versi apparentemente scomposti, rendono evidente ciò che è già in atto da tempo. Il mondo esce dalla Seconda Guerra Mondiale con quello che viene definito l'equilibrio di Jalta. Quindi con un mondo diviso sostanzialmente in due blocchi. In effetti, però, in quell’equilibrio era già in qualche modo segnato il predominio degli Stati Uniti. Una leadership culturale sul mondo, che ha progressivamente accettato un modello di iperconsumo, accompagnato ed alimentato dalla leadership industriale. Da Bretton Woods in poi il dollaro viene usato come valuta per regolare tutti gli scambi internazionali e questo comporta il controllo statunitense dei mercati finanziari globali, senza considerare poi il dominio militare sui mari.
Si arriva al cambio d’epoca a cui abbiamo fatto riferimento prima citando Papa Francesco perché gli Stati Uniti diventano vittima del loro successo. Da quando si rompe l’equilibrio di Jalta - ovvero dalla morte di Mao e dall’avvento di Deng Xiaoping - si rompe la divisione, che era probabilmente solo fittizia, del mondo in due blocchi. Subito prima si era passati da un regime di cambi fissi a un regime di cambi flessibili in cui il prezzo delle valute che discenderebbe dallo scambio di beni e servizi reali può essere modificato da movimenti solo finanziari, quindi gli Stati Uniti perdono progressivamente la leadership industriale verso alcuni paesi che divengono, per rendere sinteticamente l’idea, dei grandi “collettori” industriali del mondo: Giappone, Germania e poi Cina. La Cina, al contrario di Germania e Giappone, non ha però una “subordinazione” implicita verso gli Stati Uniti, per motivazioni storiche e avendo oltretutto una dimensione demografica e territoriale enormemente maggiore degli altri due.
Questo è il motivo per cui con il tempo è diventato un attore non più controllabile da Washington. Se poi aggiungiamo che la vigilanza militare del mondo diventerà via via sempre più dispendiosa in termini di risorse, che sono umane, che sono culturali, che sono economiche, l’unica leadership che rimane ora agli Stati Uniti è quella finanziaria, legata al fatto che possiedono la valuta accettata da tutto il mondo oltre che per regolare gli scambi, come riserva di valore. Credo che gli Stati Uniti stiano cercando di gestire l’ineluttabile cambio d’epoca per avere il miglior punto di caduta possibile. Su questa strada l’interlocutore con cui interfacciarsi è la Cina, non che gli altri non abbiano il loro rilievo, ma (gli USA) hanno chiaro che la Cina debba essere il primo interlocutore.
- Difficile a dirsi ora, ma immagina dunque che il dollaro riuscirà a mantenere il suo predominio globale?
Parlare di futuro del dollaro richiede di fare riferimento al convitato di pietra dietro a questo riassestamento del mondo, che è quello che definiamo sistema finanziario internazionale. Con questo termine si deve far riferimento a una struttura ora sovranazionale, che rappresenta un coacervo di interessi, anche distanti tra loro, ma che ha bisogno del dollaro, poiché accettato in tutti gli stati del mondo. Questa struttura sovranazionale guarda con sospetto sia agli Stati Uniti, che alla Cina. Non fa riferimento più a un paese, si è alimentata e alimenta un rapporto che vede la produzione industriale come strumento e prescinde dalla sua collocazione territoriale. Dato il valore prodotto dalle attività reali, che sono quelle legate alla soddisfazione dei bisogni dell’Umanità, tale sistema finanziario ha la necessità di generare un modello distributivo che aumenti la quota delle proprie rendite a scapito di profitti e salari. Sul punto si può far riferimento a John Maynard Keynes, lui chiude la teoria generale spiegando che il mondo futuro avrebbe dovuto assistere a quella che definisce l’eutanasia del rentier, cioè l’investitore senza funzioni, dichiarando esplicitamente il fatto secondo cui nella sua mente non c’è alcun motivo affinché il denaro debba rendere denaro in sé. Si dovrebbe arrivare a un mondo in cui il denaro è funzionale, è strumentale alla produzione di qualcosa che migliori la qualità di vita delle persone.
Questo per chiarire quali sono i termini del problema che fa riferimento al convitato di pietra. Come dicevo prima la struttura sovranazionale che ha nel dollaro lo strumento, guarda con sospetto sia agli USA che alla Cina. Dal suo punto di vista la situazione attuale è, tra virgolette, ideale. Poiché hanno chiari quelli che sono i processi di assestamento verso un nuovo equilibrio, stanno valutando come mantenere lo status quo e quelle che possono essere utili alternative. Credo sia importante comprendere che le comunità che guardano alla vita reale e che si riconoscono nei loro diversi stati, devono guardare con attenzione ai movimenti finanziari. Anche qui lo squilibrio: la possibilità di dare una vita propria ai movimenti finanziari sta nel punto di partenza, ovvero Bretton Woods. Ciò che esce dalla seconda guerra mondiale e ora è un attore fondamentale eretto a feticcio. Spesso si usa il termine evocativo i mercati accettandone il giudizio come per le “tavole della legge”, senza comprendere pienamente che i mercati sono istituzioni, controllate da persone, ognuno dei quali genera solo i risultati scritti nelle proprie regole.
- Gli Stati Uniti sono vittime del loro successo, ma anche del successo cinese: integrata dagli stessi Stati Uniti nell’ordine globale, la Cina è stata capace di superare le più ottimistiche (o pessimistiche, dipende dai punti di vista) aspettative. Le mosse di Donald Trump possono essere interpretate come un containment economico di Pechino? C’è anche altro secondo lei?
Come detto, penso che tutti gli imperi con il passare del tempo storico vedano ridursi la loro capacità di controllo, e diventino dunque vittime del proprio successo. Questo è quello che sta accadendo anche agli Stati Uniti. Come dicevo prima la Cina è il principale interlocutore nella ricerca di un nuovo equilibrio che li veda ancora protagonisti e quindi sicuramente il contenimento economico di Pechino è un punto fondamentale per guidare una trattativa. Credo che gli Stati Uniti abbiano chiaro che ora sia impossibile bloccare economicamente Pechino. Il tema è che rendere vischiosi i traffici internazionali sicuramente può rappresentare un elemento per porsi in una posizione di maggior forza nella trattativa. Allo stato attuale Pechino ha una capacità produttiva installata nel proprio territorio che è orientata soprattutto all’esportazione, non solo verso gli Stati Uniti, ma anche verso il resto del mondo. La capacità produttiva cinese è sovradimensionata rispetto a quella che può essere la domanda interna. Questo rende al momento, dal punto di vista economico-industriale, la Cina vulnerabile. Detto in un’altra maniera oggi la Cina non è forte come sarà tra qualche anno, cioè quando avrà gestito il corrente processo di riadeguamento della capacità produttiva da un modello fortemente basato sull’esportazione a un modello più equilibrato che alimenta la crescita interna. Quindi, se guardiamo le cose da questa prospettiva, potrebbe essere l’ultimo periodo utile che gli Stati Uniti hanno per potersi sedere e ridefinire un nuovo assetto che possa essere per loro interessante.
Per gli Stati Uniti rinunciare alla “globalizzazione”, posto che il controllo sugli oceani resta pressoché assoluto, significa rinunciare alla propria stessa essenza imperiale. Il sogno parallelo e opposto dell’America profonda e dell’America europea. Vivere in maniera isolata o normale, il tutto mentre lo scontro ideologico tra coste e interno potrà assumere col tempo connotati sempre più violenti.
- Nonostante una partenza in quarta, la prima fase di questo processo di transizione, da parte statunitense, ha già incontrato diverse difficoltà. I mercati hanno naturalmente reagito male, i dazi sono stati sospesi (eccetto che per la Cina), e la realtà delle cose parrebbe più forte delle utopie protezionistiche. Quali sono le resistenze più forti che l’establishment trumpiano sta incontrando? Pensa che verranno vinte?
Se è vero che il cambio d’epoca è ormai in atto da tempo, si deve aver purtuttavia chiaro che si tratta di processi lunghi. L’accelerazione degli Stati Uniti può essere legata anche al fatto che l’inerzia che si è prodotta non è particolarmente, come punto di caduta, soddisfacente - per i motivi sopra menzionati. Il dazio è un tributo, quindi perfettamente legittimo per uno Stato sovrano e ha tante implicazioni positive e negative, ma si potrà sapere se realmente positive o negative solo parecchio tempo dopo la loro applicazione. Si deve anche tenere conto che gli Stati Uniti hanno uno spazio fiscale che, per esempio, gli europei non hanno. Non hanno l’imposta sul valore aggiunto, non hanno fondamentalmente imposte sui consumi. Se quindi l’accelerazione è legata a un’insoddisfazione generalizzata sull’inerzia che sta prendendo il cambiamento, il fatto che abbiano resistenze anche interne è legato da un lato all’ovvia considerazione che, un conto è parlare di interesse generale dello Stato, un conto è guardare all’impatto di qualunque decisione su ognuno dei 350 milioni di cittadini che individualmente subiranno le legittime reazioni di tutti gli altri Paesi, ma dall’altro che quello che prima abbiamo definito sistema finanziario internazionale, che è in parte significativa statunitense, guarda con sospetto a qualunque cambiamento dell’attuale status quo delle economie reali.
La situazione attuale per le istituzioni che rappresentano la finanza internazionale è sicuramente una situazione che non richiede i cambiamenti che può avere in mente l’establishment trumpiano che guarda alla parte industriale degli Stati Uniti. Allo stesso tempo nemmeno la prospettiva industriale cinese è quella che i mercati finanziari possono avere interesse ad accarezzare. Resistenze in questo senso l’establishment trumpiano le sta quindi incontrando. Sul fatto che vengano vinte o meno sarebbe improvvido dire ora, si deve però considerare che gli squilibri ci sono, il deficit commerciale americano è insostenibile. Dal punto di vista dei beni, dei goods, hanno sfondato negli ultimi tre anni un trilione di dollari l’anno, quindi lo squilibrio esiste. Qualche assestamento ci sarà necessariamente.
- Discorso a parte meritano i rapporti fra Washington e gli alleati europei. È evidente che ci siano frizioni fra la visione del mondo “nostra” (pur con tutte le proprie differenze interne) e quella americana. Crede che gli statunitensi riusciranno ad inserirsi nelle nostre divisioni per far valere i loro interessi, o questa potrebbe essere la battaglia capace di unire finalmente il continente?
Ritengo che Washington non sia particolarmente interessata a inserirsi nelle nostre divisioni. Per quanto gli alleati europei abbiano il loro rilievo (e non credo che Washington ci sottovaluti), in una prospettiva diacronica l’Europa conta sempre di meno. È in calo demografico accentuato, talmente forte che è palese in tutto il mondo. Dal punto di vista industriale ha visto il progressivo arretramento della propria posizione sui percorsi di innovazione in sempre più settori e, nel corso degli ultimi 40 anni, ha visto oltretutto ridursi la capacità manifatturiera sui propri territori, quindi dovremmo forse cominciare a riflettere su come modificare quanto finora intrapreso, al fine di arrivare a un nuovo modo corretto di parlare di Europa. Forse sarebbe il caso, e questa potrebbe essere l’opportunità, di chiedere ai cittadini europei di affrontare e risolvere un problema che è politico. Ma risolvere il problema politico vuol dire discutere e trovare soluzioni, scegliere degli assetti istituzionali che siano realmente europei e abbandonare la cattiva idea che, mal scimmiottando l’Hayek de “le condizioni economiche del federalismo tra stati”, una soluzione politica debba arrivare come risultato di scelte economiche sbagliate che la renderanno necessaria. In questo senso vuol dire per esempio scegliere se vogliamo essere un sistema di Common Law o di Civil Law. Vuol dire affrontare il problema dell’euro facendo un salto, quindi trasformandolo in una moneta che è moneta degli europei e non una moneta di ogni singolo stato. Basta leggere i trattati per capire che esiste un euro tedesco, un euro francese, un euro italiano. Non esiste un’unica valuta e questo rende enormemente debole la gestione della valuta sui mercati internazionali. È un assist fatto a quelle sovrastrutture finanziarie che sono anche in parte europee, americane e che attraversano tutto il mondo. Questa potrebbe essere una situazione in cui unire il continente, ma il processo deve essere inverso rispetto a quello che stiamo seguendo o che abbiamo seguito da quando si è iniziato a parlare di Unione Europea: le soluzioni economiche discendono da obiettivi politici chiari e accettati.
- Giorgia Meloni in questo marasma si trova in mezzo al guado: ha puntato tanto sul rapporto personale con il nuovo inquilino della Casa Bianca, pur mantenendolo ottimo anche con Von der Leyen. Il trionfo del machiavellismo che ci ha sempre contraddistinto, mi verrebbe da dire. Crede che però la nostra Premier sarà costretta dagli eventi a fare una scelta di campo? Come giudica in sostanza la sua posizione?
Prendo il suo spunto su Macchiavelli per riflettere su come risponderle. Avere un buon rapporto con Trump non può che essere positivo. Avere un buon rapporto con Von der Leyen senz’altro, ma vale quello che ci siamo detti prima. La Von der Leyen rappresenta una struttura, non rappresenta l’Europa come Stato, rappresenta l’Europa come una sovrastruttura che rappresenta un’unione tra stati, che sono separati, che politicamente non si sono ancora riconosciuti in un progetto, e come tale Von der Leyen rappresenta più questa struttura, chiamiamola burocratica piuttosto che politica, che identifichiamo con Bruxelles. Ci si deve parlare, perché le regole vanno rispettate, ma nel dialogo serve anche definire un cambio di passo. Quindi facendo riferimento all’arte della politica di Machiavelli capire e gestire l’attuale cambio d’epoca è la cosa che va fatta. Se siamo in mezzo al guado e la Meloni è in mezzo al guado, diviene fondamentale non sottovalutare quanto nella gestione di questo cambiamento si debba migliorare la capacità italiana di proporsi come interlocutore che ha delle carte da giocare. Quindi credo vada molto bene parlare e dialogare con tutti, non fare una scelta di campo, perché per il nostro Stato ora non avrebbe senso. Nello stesso tempo lavorando per rafforzare la capacità italiana di sedere a un tavolo in maniera forte, avendo delle carte da giocare, che vuol dire migliorare di molto la nostra attuale capacità di generare valore.
Gli Stati Uniti scelgono di riscrivere le regole prima che siano le regole a travolgerli, riaprendo con i dazi una fase di riordino industriale e riequilibrio macroeconomico. Trump, voce del disagio produttivo, traduce il malcontento in un cambio di rotta che mette in discussione il libero scambio come dogma.
- Questo da un punto di vista politico. E da quello economico? L’Italia non è in una buona posizione: gli USA sono il nostro secondo mercato di export. È corretta l’idea secondo la quale il nostro rischio sia ridotto dal fatto che esportiamo principalmente beni di lusso su cui un dazio potrebbe influire in misura minore? Oppure ci aspettano anni di profondi riassestamenti?
Il nostro rapporto con gli USA è importante. Valgono grosso modo un 10% del nostro export. Quindi importanti, ma non vanno neanche sovrastimati. Sono molto importanti per i movimenti finanziari. Sono importanti per il rapporto culturale che abbiamo e quindi parlare e dialogare con gli Stati uniti mi sembra indispensabile soprattutto da questi punti di vista. Il dazio si gestisce. È un tributo. Gli Stati Uniti sono uno stato sovrano e quindi hanno piena legittimità a imporre dei dazi. Vanno visti filiera per filiera, mercato per mercato, e questo è un tema che riguarda anche l’Europa che ha al proprio interno intrecci economici molto maggiori. È impossibile dare una risposta a prescindere da uno studio sull’impatto che possono avere che va fatto appunto filiera per filiera, mercato per mercato, territorio per territorio. Un calcolo in questo senso è senz’altro importante, ma senza dimenticare che siamo in un cambio d’epoca e che è il punto di arrivo che auspichiamo di raggiungere quello che deve guidare la nostra strategia. L’elemento ‘esportiamo il 10% negli Stati Uniti’, l’impatto su molte produzioni nostre sarà sicuramente rilevante, va gestito, ma senza neanche allarmismi eccessivi, avendo chiaro che gli squilibri sottostanti ci sono, permangono e si deve trovare una qualche soluzione utile e percorribile.
- Vorrei chiudere chiedendole qualcosa che ho dato per scontato nella prima domanda: crede davvero questo sia un momento storico capace di ridisegnare il volto del secolo? Oppure rischia di passare alla storia come una parentesi di scarso valore in un’epoca di profonda confusione interna negli USA?
Abbiamo iniziato citando il Papa sul fatto che questo sia un cambio d’epoca, un momento storico che ridisegnerà il futuro del mondo su un nuovo equilibrio. Quindi non è una parentesi di scarso valore, non è un problema di profonda confusione interna agli USA. È possibile che l’accelerazione sia stata, dati gli elementi che abbiamo sinteticamente tratteggiato, negli interessi degli Stati Uniti, ma il loro interesse non è necessariamente quello del resto del mondo. La necessità di arrivare a un nuovo assetto, questo sì, riguarda non solo Washington, ma anche il resto del pianeta. Sono tanti gli squilibri. Forse gli europei dovrebbero porre mano a una situazione di squilibrio che oramai va avanti da quando si è cominciato a parlare di Unione Europea e allo stesso modo nei rapporti con il resto del mondo. Forse si potrebbe dire che la confusione è anche legata a posizioni europee che sembrerebbero da paladini dello status quo, andando molto al di là di una valutazione critica e obiettiva di quello che sono gli Stati Uniti.
di Marina Giulia Razza e Davide Arcidiacono