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Per il diritto universale all’analfabetismo digitale

di Sergio Cabras - 24/01/2021

Per il diritto universale all’analfabetismo digitale

Fonte: Sostenibilità equità solidarietà

Secondo le linee guida progettuali del Recovery Plan, ovvero tra i capitoli di spesa con cui il governo italiano prevede di spendere le ingenti risorse che dovrebbero arrivare al nostro paese con i fondi del Next Generation EU (significativamente rinominato da noi Recovery Fund), ben 35,5 miliardi (la seconda singola voce di spesa dopo il pacchetto “efficientazione energetica e riqualificazione edilizia” che la supera solo per 4,6 miliardi) saranno destinati alla digitalizzazione: materialmente l’estensione a tutto il territorio della rete di connessione superveloce e predisposta (viene detto testualmente) sia per il 5G che per, in prospettiva, il 6G; e, funzionalmente, la conversione al digitale di quante più possibile – e possibilmente tutte – le procedure dell’amministrazione pubblica, burocratiche, istituzionali e, in generale, le pratiche della vita sociale che comprendono aspetti formali e documentali – il che presuppone evidentemente anche la riconversione degli utenti di queste (ovvero delle persone) alla capacità, alla strumentazione ed all’abitudine necessarie a poter usare regolarmente i mezzi e le forme che la digitalizzazione permette e richiede.
Un progresso? Per molti versi è probabile che potrà esserlo. Ma il punto è: si tratta di poter usare o di dover usare? Di avere la possibilità di acquisire le capacità di servirsi di questi mezzi o di doverle avere per forza o altrimenti trovarsi costretti a pagare un professionista anche per svolgere pratiche necessarie, inevitabili, ma molto semplici, che fino a ieri chiunque poteva fare da sé presso uno sportello e che oggi invece richiedono la mediazione di questi mezzi tecnologici? E si tratta di scegliere se comprare ed avere i dispositivi per queste tecnologie o di essere obbligati ad averli?
In sostanza la domanda è: saremo più liberi di non avere uno smartphone o un computer, di non saperli usare, o solo fino ad un livello molto limitato a cui decidiamo noi di fermarci, o di non volerli usare del tutto? Saremo più liberi di non avere lo SPID, l’identità digitale, vari PIN e password da ricordare sempre?
Non si tratta qui, nella questione che intendo porre, di essere contrari alla tecnologia, di non vederne gli innegabili vantaggi, di voler tornare indietro, tipo al Medioevo ecc… (l’accusa che riemerge sempre in questi casi); non si tratta di auspicare l’analfabetismo digitale. E non è una posizione neo-luddista – sebbene di certo qualcuno cercherebbe strumentalmente di farla apparire tale. Niente affatto. Si tratta di porre una questione di democrazia, di diritti umani. Ed anche di biodiversità antropologica.
Una cosa è avere la possibilità di servirsi delle innovazioni tecnologiche, ma tutta un’altra è essere obbligati di fatto a servirsene: ad imparare come farlo, ad aggiornarsi continuamente dietro a tutte le successive innovazioni, e ad averle, ovvero a comprare i dispositivi necessari. Una cosa è potersi connettere ed un’altra dover essere sempre connessi o che chiunque abbia il diritto di presupporre che lo siamo e che sappiamo (dobbiamo sapere) come svolgere una qualche mansione in ambito digitale (l’uso del termine “mansione” non è casuale: suggerisco la lettura del libro “Schiavi del clic” di A.A. Casilli, dove si mostra tutta una serie di aspetti del mondo digitale per i quali anche coloro che vedono sé stessi come semplici utenti del web, svolgono in realtà tutta una serie di azioni che sono equivalenti a quelle lavorative nell’economia complessiva di come funzionano le piattaforme).
Si sta configurando una situazione ancora più restrittiva delle libertà personali ed ancora più impattante sulla naturale varietà antropologica, ovvero della diversità di forme in cui può esplicarsi l’essere umani (che è qualcosa di più che una molteplicità puramente culturale) di ciò che è stata la rivoluzione industriale caratterizzata dalla meccanica. Una situazione analoga, potremmo dire, a quella che si sarebbe prodotta se, al diffondersi nella società dell’uso delle automobili a livello di massa, fosse diventato illegale (di diritto o di fatto) muoversi a piedi o in bicicletta; anche andare al lavoro a piedi o in bicicletta. E quindi se fosse diventato obbligatorio acquistare una macchina o almeno una moto e saperla guidare. Non che non ci siano stati molteplici incentivi di varia natura in questa direzione, ma gli spostamenti a piedi e in bici sono rimasti a tutt’oggi possibili sia di diritto che di fatto.
Adesso qualcuno parla pure di fornire gratis per un anno degli smartphone (compreso abbonamento online ad un paio di quotidiani, magari, che sembra più culturale) a chi è sotto un certo livello di reddito, ma cambia qualcosa in meglio questo? O piuttosto non mostra una volta di più – insieme all’essere la digitalizzazione evidentemente la priorità all’interno del più massiccio programma di investimenti (e quindi di fattori di cambiamento della società a molteplici livelli) dell’Unione Europea (contro la quale possiamo anche non avere niente, ma non dimenticandoci quanto peso abbiano in essa banche, potentati finanziari, lobbies multinazionali, megaaziende online tuttora ampiamente esentate da tasse, ecc….) – che è in atto un processo attraverso il quale l’assorbimento all’interno di un determinato sistema/modo di vivere, di comunicare, di pensare addirittura, legato indissolubilmente al digitale, diventa ogni giorno più obbligatorio?
Non bisogna farsi confondere dal fatto che non venga imposto per legge un obbligo esplicito a comprare un dispositivo informatico-digitale, a saperlo usare su internet o ad avere una connessione, un account ecc…. Molte cose possono esser facilmente fatte diventare obbligatorie di fatto, sebbene non esplicitamente nel diritto: un chiaro esempio è il consenso rispetto alle normative sulla privacy (cookies ecc…) che ora ci viene richiesto ogni volta che accediamo ad un sito internet; quale libera scelta realmente abbiamo se, non dandolo, non potremmo più accedere a nulla sulla rete?
Ma quando questo assenso ci viene richiesto anche sui siti istituzionali, di istituzioni che sempre più presuppongono lo svolgimento di qualsiasi pratica burocratica necessaria soltanto online (ancora spesso quasi-soltanto, è vero, ma con l’alternativa che può rivelarsi complicatissima, tra centralini che non rispondono, file negli uffici, mancanza di chiarezza su ogni passaggio, incompetenza degli addetti; e comunque con l’emergenza Covid che sta dando un’accelerazione decisiva verso l’online come unica opzione) possiamo ancora negare che questa “libera” scelta non sia altro che un’ipocrisia? (E la stessa cosa potrebbe mostrarsi ora col vaccino anti-Covid che, seppure fosse lasciato come “volontario”, se fosse reso indispensabile per salire su treni, bus, aerei, traghetti, iscriversi a scuole, università, piscine, palestre, entrare in biblioteca, al cinema… e magari pure per poter lavorare, è evidente che sarebbe di fatto obbligatorio……ma questa è una digressione ulteriore che ora possiamo lasciar da parte).
Questo più che incipiente totale assorbimento di tutta l’umanità nelle reti informatiche e nel ciberspazio può apparire rivestito dal manto di neutralità che – in modo molto miope, purtroppo – siamo soliti attribuire alle cose “tecniche”, sulle quali cerchiamo di rassicurarci dicendo “dipende dall’uso che se ne fa”. In realtà – anche senza scomodare Marshall McLuhan che dimostrò come “il mezzo è il messaggio” – non possiamo non accorgerci quanto l’uso costante, abituale, interiorizzato, di determinati mezzi e delle forme, delle procedure, degli approcci che essi comportano, abbiano già in molti modi e da molto tempo forgiato il nostro essere umani. Ma, ancor di più, la Tecnica e i dispositivi tecnologici non sono in alcun modo neutri quando diventano di uso quotidiano pressoché per tutti, quando sono un requisito indispensabile per agire socialmente, perfino in quanto cittadini di un paese e soprattutto, ancora una volta, quando vengono resi, di fatto, obbligatori (ovvero quando perfino le amministrazioni pubbliche e tutte le aziende fornitrici di servizi, anche essenziali, possono sentirsi – e si sentono – autorizzate a presupporre che chiunque abbia un tale dispositivo e che lo sappia usare….lasciamo stare poi il fatto che lo voglia o meno avere ed usare).
Tecniche e mezzi tecnologici non sono affatto neutrali: fanno in ampia misura la differenza che c’è tra una persona che si identifica con la cultura “moderna” ed una appartenente ad una società “tradizionale”; hanno cambiato la filosofia, la visione del mondo dell’Occidente, ciò che consideriamo reale o possibile, ma anche giusto o accettabile e ciò che riteniamo non lo sia; hanno modificato le relazioni tra individui e tra classi sociali; si potrebbe perfino dire che certi concetti di individuo o di classe sociale li hanno financo fatti scomparire, sostituendoli con altri o lasciando un vuoto indeterminato al loro posto…
Ma, pur senza allargarci troppo per motivi di spazio, una cosa è evidente: che l’assorbimento vieppiù totale dell’umanità nella versione digitalizzata del mondo è un processo che per sua natura comporta e richiede una sostanziale standardizzazione nei modi certamente della comunicazione e più ampiamente della relazione interpersonale – e ciò già basterebbe – ma, in modo più sottile, nella selezione degli stimoli a cui ci abituiamo ad essere (in)sensibili ed a rispondere; nel modo in cui gli rispondiamo; nel modo in cui usiamo il linguaggio limitandone le sfumature e l’ampiezza.
Ancor di più: nel modo in cui accettiamo e via via ci identifichiamo con una necessaria(? – e comunque conseguente) standardizzazione degli elementi del pensiero. È il codice binario (sì o no, bianco o nero, buono o cattivo, vero o falso ecc…..), il modulo stile quiz con risposte prestabilite, la forma-mentis del business plan che si fa modello unico ed assoluto del rapportarsi con il mondo, via via in qualsiasi tipo di contesto e situazione. Ma, allora, ciò che non rientra in questo modello non solo sarà inadatto al linguaggio standard in uso: non sarà più nominato e con ciò sarà via via considerato irreale, inesistente, impossibile, nemmeno più considerato del tutto. Quando avremo solo individui cresciuti avendo conosciuto solo questa forma di pensiero e di comunicazione, non dovremo riconoscere che un cambiamento antropologico decisivo sarà avvenuto? Un impoverimento della biodiversità antropologica e, in definitiva, dell’essere umani? Ma chi ci sarà a poterlo riconoscere? Qualcuno ancora potrà esserne consapevole (per favore, non diciamo “avrà gli strumenti per esserne consapevole”, ma chiediamoci solo “chi sarà”, costui, per esserlo)?
Non si tratta, come ripeto, di farsi fautori dell’essere analfabeti digitali: se stiamo scrivendo e leggendo un testo pubblicato su internet certamente non lo siamo, né siamo cechi agli aspetti positivi di questi mezzi tecnologici. Ma se qualcuno non riesce (pensiamo ai moltissimi anziani che popolano un paese come il nostro: dobbiamo preoccuparcene e stare a casa per evitare di contagiarli col Covid; bene, però perché allora si fa come se non esistessero – come fossero già morti – quando per qualsiasi cosa ormai viene richiesto lo SPID, un PIN, una password, anche a persone che non sanno nemmeno che cosa siano?) o se non vuole, perché deve esservi costretto – fosse anche solo dalle circostanze (che però sono state create da decisioni politiche)? Credo che così come sosteniamo il diritto dei popoli indigeni a sopravvivere alle trasformazioni storiche avvenute intorno a loro, mantenendo il proprio stile di vita tradizionale se è ciò che vogliono per sé (e così salvaguardiamo anche una modalità umana in più di vivere su questa Terra), allo stesso modo dovremmo garantire alle persone che, nelle nostre stesse società moderne, scelgono di restare del tutto o in parte fuori dal cosiddetto ciberspazio, di poterlo fare liberamente. Non dimentichiamo, tra l’altro, che continuando ad affidare sempre più tutto ai supporti informatici, dal funzionamento di ospedali, comunicazioni ed infrastrutture al patrimonio di conoscenze accademiche e ricerche scientifiche, all’insieme di dati necessari alle pubbliche amministrazioni, alle banche, alla finanza, ai registri di proprietà ecc….ecc…ecc…. ci stiamo potenzialmente esponendo ad un rischio enorme, di quelli che una specie vivente corre sempre quando si iperspecializza e fa dipendere l’intera sua modalità di adattamento e di sopravvivenza da una singola risorsa (in questo caso le infrastrutture necessarie alle reti digitali, tra cui i satelliti, ad esempio) ed un singolo habitat (il ciberspazio, appunto, che, peraltro, strettamente parlando, neppure esiste in realtà). Lo stesso potremmo dire dell’aver ridotto l’alimentazione dell’umanità a nemmeno una decina di varietà di piante coltivabili industrialmente tra le centinaia di migliaia edibili che ci sarebbero: basterà una malattia sconosciuta e incontrollata che colpisca una o due di esse a ridurci alla fame. Cosa dire dunque di – ad esempio – una pioggia di meteoriti o una tempesta magnetica solare che metta fuori uso la maggior parte dei satelliti grazie ai quali funzionano i megaserver di Google e simili? È molto improbabile? Certo, ma possiamo mettere il destino della nostra specie (già peraltro a rischio per numerosi altri problemi altrettanto creati da questo stesso modello di sviluppo/idea di progresso) nelle mani della presunzione che un’eventualità di questo tipo sia del tutto impossibile?
Io credo sia ora di proporre all’attenzione di tutte le persone sensibili al valore di “restare umani” e che non vogliono perdere completamente uno sguardo prudente e lungimirante sul futuro, uno sguardo non abbagliato dalla mitologia dello sviluppo tecnologico obbligatorio quasi fosse una ragione di vita per l’umanità intera – il che si spaccia per atteggiamento pro-scientifico, ma non è altro che una maldestramente camuffata forma di neo-religione – di considerare come non più procrastinabile il porre pubblicamente la questione del riconoscimento del diritto universale – come diritto umano, intendo – all’analfabetismo digitale.
È un’idea che riprendo da Giannozzo Pucci, al quale va riconosciuto il coraggio e la lungimiranza di averne parlato per tempo, con particolare riferimento ai piccoli contadini oggi schiacciati dalla burocrazia: un’idea che, contrariamente a quanto potrebbe apparire, guarda al futuro, credo, nel senso che pre-vede (e potrebbe prevenire) alcune per nulla improbabili conseguenze collaterali di quanto va prendendo forma oggi.
Un’idea che, d’altro canto, non ostacola in alcun modo l’affermarsi degli effetti positivi dello sviluppo in atto, tanto quanto salvaguardare il diritto di spostarsi a piedi o in bici non impedisce quello di produrre ed usare le auto, nemmeno alle stesse persone che decidono, nella misura in cui lo ritengono opportuno, di avvalersi del diritto di non usarle. Un’idea che mi sento di riprendere e, possibilmente, ampliare come proposta da porre nei termini di un diritto universale, per tutti gli esseri umani.
Potrà forse non doverne/volerne usufruire nessuno di un tale diritto, perché tutti vorranno avere e saper usare i “nuovi” mezzi che la tecnologia ci mette e ci metterà a disposizione? Benissimo. Meglio così, forse, se sarà questa la scelta di ognuno. Ma fino a quel giorno in ogni ufficio dovrebbe esserci per legge sempre almeno un impiegato/a che possa aiutare a svolgere le varie pratiche chi non può o non vuole farlo online; ogni azienda che offre servizi di base dovrebbe prevedere analoghe procedure parallele a quelle digitali…. e così via.
Questo, almeno per i privati cittadini e per le aziende ed imprese individuali e le associazioni di piccole dimensioni.
Sarebbe, tra l’altro, un’ottima “cartina di tornasole” per verificare se la narrazione di questa forma di modello socioculturale ipertecnologico come via di progresso per tutti, come qualcosa che è qui per far crescere la libertà e l’autorealizzazione di tutti, è sincera.
O se è invece un progetto che siamo costretti ad accettare che ci piaccia o no.
Ed, in questo secondo caso, dovremmo chiedercene il perché.