Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Per Trump dentro son rose, fuori sono spine

Per Trump dentro son rose, fuori sono spine

di Salvo Ardizzone - 27/01/2025

Per Trump dentro son rose, fuori sono spine

Fonte: Italicum

La lunga attesa è finita e Trump si è insediato alla Casa Bianca. A mia memoria, mai vi è stata tanta aspettativa per una nuova Amministrazione. Soprattutto fra i satelliti dell’impero informale americano, si resta sospesi in attesa delle mosse del fresco Presidente, che s’intravedono già fra ordini presidenziali e proclami che sanno (tanto) di propaganda. L’aspettativa d’un radicale cambiamento è palpabile all’interno come all’esterno degli Stati Uniti. Del resto, con il controllo dei due rami del Congresso, una Corte Suprema amica e la legittimazione di una netta vittoria elettorale, Trump ha tutto per governare a piacimento.
L’esito delle elezioni di novembre ha costituito un trauma per il sistema di potere americano e i suoi referenti esterni. È stata la fine d’un ciclo politico, culturale ed economico che durava dai tempi di Obama e che la prima Presidenza Trump aveva solo scalfito senza rovesciarlo. È stato lo schianto dell’era liberal e dei suoi miti, il ripudio del woke, del politicamente corretto, del gender. Ma è stato anche il rifiuto di una globalizzazione che ha arricchito enormemente alcuni per spingere tanti nel disagio e tanti altri nella povertà. Quella globalizzazione che ha alimentato l’imperialismo americano, la sua proiezione di potere egemonico, e non è un caso che sia stato (ed è) l’establishment a essersi opposto.
In ogni caso, per la fetta d’America che aveva dominato è stato uno shock. Shock nel riconoscersi minoritari, nel vedersi semplicemente travolti da un ciclone che avevano del tutto sottovalutato e che ora vuole ribaltare il loro modo di stare nel mondo. Lo si voglia accettare o meno, l’anima americana è spezzata fra due parti inconciliabilmente avverse e questa frattura interna indebolisce – molto – chi si pretende Egemone, unica nazione eccezionale sopra tutte le altre. Per dirla con Madeleine Albright, Segretaria di Stato nella seconda Amministrazione Clinton, unica indispensabile.
È per questa ragione che, malgrado le aspettative globali, gli obiettivi primari di Trump saranno interni. Vorrà regolare i tanti conti sospesi e affermare l’idea di America che lui e i suoi sostenitori hanno. In primo luogo, vorrà spezzare lo strapotere del Deep State che è depositario di un’idea di stato del tutto diversa, e ne ha segnato ostinatamente la traiettoria a prescindere dall’esito delle varie elezioni. Un potere diffuso e trasversale che ha fatto di tutto per ostacolare Trump, prima inceppando la sua prima Presidenza, poi osteggiandolo in ogni modo dopo.
Per questo, Servizi, magistratura, diplomazia e Pentagono (in particolare gli eredi di Mark Milley, il Capo di Stato Maggiore Congiunto che lo definì un fascista ed ebbe con lui infiniti scontri) saranno i primi obiettivi di una drastica campagna di epurazione cui seguiranno vertici e quadri delle burocrazie federali. È questo all’origine dell’attuale ondata di dimissioni, peraltro sollecitate, in realtà pretese. Naturalmente non sarà impresa semplice: le enormi agenzie opporranno una feroce resistenza all’essere decapitate, lasciando prevedere una guerra che devasterà i centri del potere americano che non ne rimarrà indenne. La loro annunciata disarticolazione è minaccia seria di tracollo per un sistema così vasto e complesso. E non basta.
Trump intende tagliare le unghie ai vecchi colossi della tecnologia come Google e Meta, quei Big Tech del tutto allineati al blocco di potere liberal, facendo leva sul nuovo tecno-capitalismo anarco-libertario espresso da aziende come Palantir, Anduril o dal più noto Elon Musk che, appunto, è destinato ad avere ruolo centrale in questa dinamica, e non solo. Quanto la prospettiva sia concreta, lo dimostra il precipitoso allineamento di soggetti del calibro di Zuckerberg o Bezos, freschi scudieri alla nuova corte.
Allo stesso modo, in Neopresidente intende mettere il guinzaglio ai grandi fondi, ai Big Three, riconducendo colossi come Black Rock, Vanguard e State Street sotto controllo, funzionali ai propri fini. E, fiutata l’aria, anche loro si sono rapidamente riposizionati, buttando a mare lo sciocchezzaio politicamente corretto con cui infioravano le loro politiche da pescicani. Unico neo la Federal Reserve col suo governatore Jerome Powell che, benché designato da Trump nella sua prima Amministrazione, ha avuto con lui continui scontri e non intende dimettersi: per il Neopresidente è un problema. Al momento forse l’unico.
Ma attenzione, tutto questo non è affatto una svolta verso la comprensione del disagio provocato dalla dinamica capitalista, tutt’altro; l’ottica neoliberista viene pienamente mantenuta, anzi, semmai viene rafforzata da personaggi come Musk o lo stesso vicepresidente J. D. Dance, che annunciano un nuovo anarco capitalismo in cui meno stato significa anche – e soprattutto – meno welfare, meno sanità e l’illusione del sogno americano per tutti (o quantomeno di quel che ne resta). Quella che si profila è una Fortezza America, centrata su se stessa e blindata sui confini. Non è un caso che il tema dei migranti sia stato centrale in tutta la campagna per le presidenziali e che molti degli ordini presidenziali che Trump ha appena varato nel suo esordio alla Presidenza siano centrati su questo tema. A pensarci suona un po’ bizzarro per un paese costruito e costituito da migranti, ma tant’è.
Sia come sia, gli obiettivi della nuova Amministrazione sono primariamente interni, e Trump lo ha ripetuto più e più volte. Magari con lo sguardo su Groenlandia, Panama e, perché no, Canada, in una riedizione della Dottrina Monroe. Una fortezza racchiusa fra Oceano e Oceano, con a disposizione risorse immense e la convinzione d’avere i mari per fossati. Ma, per farlo in tutta sicurezza, dovrà spegnere le infinite crisi accese dalla Presidenza Biden, e qui cominciano i dolori.
Sono due le caratteristiche che emergono nel nuovo Presidente: il pragmatismo e, soprattutto, l’imprevedibilità. Qualità quest’ultima che in politica estera può spiazzare i competitor ma rivelarsi anche disastrosa se non dosata. Più che mai in un contesto reso conflittuale dalla pretesa egemonica americana di dominare un mondo che, fuor d’Occidente, ormai la rifiuta. È significativo che la formula ossessivamente ripetuta nell’establishment americano sia che gli USA debbano tornare a fare paura. Trump lo crede, pensa che la pace possa esserci solo alle condizioni americane. Non esattamente un buon viatico per far cessare le guerre e distendere i rapporti internazionali.
Certo, potrà essere il pragmatismo a soccorrere il Neopresidente, la sua proverbiale tendenza al deal, all’affare, che dovrebbe fermarlo dinanzi a una possibile catastrofe, ma…ma dovrebbe rendersene conto, e questo è il punto. A parte una sua (assai) relativa conoscenza delle dinamiche mondiali, fra i collaboratori che s’è scelto sono in molti a puntare alla massima pressione se non allo scontro aperto, che, posta l’attuale condizione del mondo, può portare a disastro a prescindere dalle reali intenzioni.
La prima crisi con cui Trump dovrà misurarsi sarà la guerra in Ucraina, ovvero con Mosca per interposta Kiev e subordinata Bruxelles. La battuta di far cessare il conflitto all’istante resta, appunto, una battuta; come abbiamo detto e scritto anche recentemente in più occasioni, è assai difficile che Trump possa offrire una soluzione in linea con quanto la Russia vuole da sempre. Ribadiamo per l’ennesima volta che per Mosca il problema non sia mai stato territoriale ma politico: chiede un nuovo sistema di sicurezza europeo che tenga conto degli interessi di tutti gli attori presenti (dunque anche della Russia); la neutralità di Kiev (ripetiamo che il problema non è l’ingresso dell’Ucraina nella NATO, ma l’uscita della NATO dall’Ucraina); l’estromissione degli ultranazionalisti dai centri del potere ucraino (con loro dentro, qualsiasi discorso di pace vera è utopia).
Per gli USA, accettare simili condizioni dopo tre anni di crescenti investimenti politici, militari ed economici sarebbe una sconfitta strategica e a perdere non sarebbe solo la passata Amministrazione Biden, che quella guerra l’ha fortissimamente voluta, sarebbero gli Stati Uniti, dunque anche Trump. Difficile che il Tycoon accetti d’intestarsi una sconfitta netta. Più probabile che provi a fare “un’offerta che non si può rifiutare” incassando un ovvio rifiuto che innescherebbe un’intensificazione del conflitto. Del resto, la Russia sta vincendo e se non vedrà accettate le sue condizioni minime, che a tutt’oggi continuano ad essere del tutto ignorate, continuerà a combattere migliorando la propria posizione. In ogni caso, occorrerebbe tempo per difficili trattative che passerebbero sulla testa di ucraini ed europei, su cui verranno in ogni caso scaricati costi e cocci del conflitto.
In Medio Oriente Trump ha già ottenuto una tregua, ma una tregua instabile, lontanissima dalla pace perché laggiù tutte le faglie geopolitiche sono in movimento. La differenza fra Biden e Trump è che il primo è un sionista a prescindere, è rimasto accanto a Israele anche quando picconava politiche e interessi degli americani. Trump è certo strenuo sostenitore di Israele, lo ha dimostrato, ma alle proprie condizioni e non accetta di perderci. C’è questo dietro le brutali pressioni fatte dal suo inviato Steve Witkoff su Netanyahu perché accettasse la tregua. Per Trump, il nocciolo della questione è che è Israele ad aver bisogno degli USA non l’inverso. E questo, per la mentalità di un affarista, fa la differenza.
Resta insoluto il nodo iraniano: Trump, al pari degli apparati, vede Teheran come arcinemico ma non ritiene conveniente guerra aperta; ad oggi ritengo francamente improbabile che s’impegni in un conflitto al seguito di Israele, come fortissimamente voluto da Netanyahu; è assai più probabile che torni alla politica della massima pressione via sanzioni e guerra economica. Della cui riuscita è lecito dubitare, visto il fallimento nella sua prima Amministrazione, e visto pure che il mondo da allora è sideralmente cambiato. A parte ogni altra considerazione, l’Iran è oggi tutt’altro che isolato, vedasi partnership strategiche strette con Cina, Russia e la normalizzazione dei rapporti perfino con Riyadh. Certo, il Medio Oriente resta una polveriera in fiamme a cui approcciarsi con ponderazione, dote di cui la nuova Amministrazione non appare assai dotata.
C’è poi l’Indo-Pacifico, ovvero il contenimento della Cina nel quadrante più rilevante del pianeta; per gli USA è la vera partita della vita cui non hanno prestato debita attenzione e risorse necessarie perché forzatamente distratti da questioni in realtà per loro secondarie. Nella sua scorsa Amministrazione Trump ha mostrato un approccio assai più economico e commerciale piuttosto che politico, imponendo dazi ai prodotti cinesi. Il suo obiettivo ufficiale è riequilibrare la bilancia commerciale enormemente squilibrata sulle importazioni.
Il problema è duplice e non solo con la Cina: in primo luogo, come incentivare l’export americano? Gli USA sono ormai un paese deindustrializzato costretto ad importare di tutto; eccezion fatta di finanza e servizi, non sono molti i beni che può produrre ed esportare; si parla tanto di petrolio, gas e dei sistemi d’arma del suo comparto militare-industriale ma, conti alla mano, sono tutt’altro che sufficienti. In secondo luogo, se ostacola l’ingresso delle merci cinesi e d’altri paesi, diminuirà la circolazione dei prodotti determinando un aumento di prezzi già gonfiati dai dazi. E causando così un’impennata dell’inflazione.
Sia come sia, malgrado le minacciose dichiarazioni della nuova Amministrazione, la Cina proverà a tendere ancora la mano per arrivare a un accordo. Dal canto suo Trump proverà a trattare, al solito ostentando forza. Ma può farlo nei confronti della Cina? Francamente è lecito dubitare. Il suo pragmatismo dovrebbe suggerirgli che non gli conviene oltrepassare i limiti di un negoziato duro e arrivare allo scontro, l’inciampo può giungere dai falchi di cui si è circondato, come il segretario di stato Marco Rubio o il consigliere alla sicurezza nazionale Michael Waltz. Il mediatore può essere Elon Mask, che con Tesla ha un consolidato rapporto (e forti interessi) con la Cina. Il suo incontro con il vicepresidente cinese Wang Qishan, avvenuto a Washington in occasione dell’insediamento, potrebbe essere preludio di una trattativa che può sfociare in accomodamento o in traumatica frattura.
E l’Europa? Trump disconosce le burocrazie tecnocratiche della UE, intende negoziare bilateralmente con gli stati bypassando Bruxelles. Suo scopo è il massimo guadagno per gli Stati Uniti, trattando gli europei come vassalli. Colonie da sfruttare, non solo di fatto ma anche di nome. Del resto, è facile pronosticare che un impero in declino spremerà le province per sopravvivere. E, per farlo più facilmente, individuerà i leader su cui basarsi nei vari stati, lo sta già facendo (vedi Germania e Italia e non solo lì). Lieti loro d’avere appoggio per mantenere il potere; lieto il nuovo Signore d’avere servi pronti a collaborare. Il tempo dirà con quali risultati.
(Tratto e adattato dal Format Il Filo Rosso condotto dall’autore sul canale youtube Il Vaso di Pandora)