Perché distruggere la scuola pubblica?
di Paolo Di Remigio - 03/03/2017
Fonte: Appello al Popolo
La vicenda della scuola pubblica italiana negli ultimi decenni va inserita nella vicenda generale della repubblica: l’Italia è uno Stato non ancora emancipato dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale, dunque a sovranità più o meno strettamente limitata dalle potenze vincitrici, cioè dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. All’inizio degli anni ’90 la sua classe dirigente, abituata a un’ampiezza di movimento non più compatibile con i piani imperiali atlantici previsti dal ‘nuovo ordine mondiale’, è stata liquidata e sostituita da avventizi alle dirette dipendenze dei poteri globali, che hanno occupato tutti i posti di gestione, dai ministeri alle banche, dai partiti ai sindacati, dai giornali ai pulpiti. Questi proconsoli avevano il compito di smantellare lo Stato e l’economia mista in favore delle burocrazie sovranazionali e del libero scambismo neoliberale; di qui l’adesione cieca alle più folli geopolitiche anglo-americane e la partecipazione autolesionistica al progetto europeo. Nel nome delle regole europee è stata smantellata l’economia italiana; le imprese pubbliche che avevano portato l’Italia a diventare una delle maggiore potenze industriali sono state privatizzate; la disoccupazione è esplosa; è stata ridotta la spesa pubblica; i servizi offerti dallo Stato sono diventati sempre più inefficienti e costosi per i cittadini; le pensioni così ridimensionate da dover essere integrate con la previdenza privata, le file d’attesa agli ospedali così lunghe da costringere a ricorrere alla sanità privata oppure a rinunciare a curarsi; la scuola pubblica così dequalificata da aprire la prospettiva dell’istruzione privata.
Lo Stato minimo implica la scuola minima. La scuola minima è quella che include, diverte, non istruisce. Se istruisse non ci sarebbe spazio per la scuola privata e questo offende il primo articolo di fede dell’ideologia neoliberale: la superiore efficienza dell’impresa privata rispetto all’impresa pubblica. Modello delle politiche scolastiche europee è diventato così il sistema educativo anglosassone che combina una scuola pubblica gratuita, ma degradata al punto da dover disporre i ‘metal detector’ per arginare le violenze, con una scuola privata che promette facile accesso al mondo del lavoro, ma costosa, per frequentare la quale ci si può indebitare per tutta la vita – un sistema fallimentare a parere unanime, denunciato ultimamente dal primo ministro May e dal presidente Trump; un sistema che non può funzionare perché la scuola privata su cui poggia trasforma in cliente l’alunno, gli dà dunque una prevalenza sull’insegnante che rende improponibile la severità e la fatica dell’imparare; un sistema che però consente un imponente giro d’affari.
Solo se la scuola pubblica diventa un ospizio, i genitori si sentono costretti a pagare per l’istruzione dei loro figli; solo il generarsi di questa loro domanda può generare e sostenere un’offerta di istruzione privata qualificata, cioè una scuola privata che non sia più soltanto confessionale o parassitaria della scuola pubblica, ma che costituisca il centro nevralgico del sistema di istruzione.
Questo progetto ha ispirato le riforme neoliberali della scuola, che hanno sottratto allo Stato le risorse per la scuola pubblica, l’hanno affidata ai poteri locali e hanno rimesso la didattica alla spontaneità di insegnanti e alunni. Esso è stato attuato dapprima in Francia: “Nel campo dell’istruzione … è la Francia … che nel corso degli ultimi tre decenni ha subito i cambiamenti più rilevanti rispetto a un sistema originario pubblico centralizzato, gratuito e marcatamente meritocratico. A seguito delle leggi sul decentramento del 1982 e del 1983, il peso dello Stato nel finanziamento della spesa complessiva per l’istruzione è sensibilmente diminuito a favore di quello degli enti territoriali. … Insomma, con l’indebolimento dell’istruzione pubblica nel corso degli ultimi decenni, il peso dell’istruzione privata è incontestabilmente aumentato in Francia a tutti i livelli del sistema educativo insieme alla posizione delle scuole private nella gerarchia qualitativa degli istituti e all’incidenza delle spese per l’istruzione sui bilanci delle famiglie. I livelli crescenti di disoccupazione, aumentando la concorrenza tra i giovani per l’accesso all’impiego, hanno contribuito all’espansione della domanda, quindi dell’offerta, di servizi di istruzione privati: il ricorso da parte di alcuni a una preparazione privata migliore o supplementare costringe gli altri ad allinearsi, al costo di doversi indebitare … Nelle parole di un docente … di un prestigioso liceo parigino: ‘Un’offerta privata diversificata e di buon livello è esplosa nel corso degli ultimi anni in risposta al degrado del servizio pubblico sempre più a corto di soldi’.” (Barba-Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, 2016, pp.163 sgg.)
La comparazione tra l’esperienza francese e quella italiana mostra che sul livello qualitativo della scuola pubblica incide, ancora più della riduzione dei finanziamenti, il decentramento scolastico. L’operazione che in Italia umilia la scuola pubblica col fine ultimo di promuovere a centro d’eccellenza la scuola privata, come sappiamo, è l’autonomia scolastica, realizzata dapprima con abilità, cioè con lentezza condita di orpelli pseudo pedagogici per nascondere il fine maligno, infine con un’accelerazione che ha svelato la natura autoritaria dell’operazione. Il suo carattere saliente è l’eliminazione dei programmi con preciso spessore scientifico-culturale e fissati per legge, e la loro sostituzione con ‘indicazioni’ su cui prolifera una ‘progettualità autonoma’ e incontrollata delle singole scuole o, peggio, dei singoli insegnanti: gli alunni non devono avere più queste conoscenze, queste abilità da acquisire con questo lavoro, ma devono essere coinvolti come protagonisti in attività ludiche progettate da insegnanti animatori.
Il controllo della portata formativa delle attività è attuato a livello di procedura non a livello di risultato, perché questo è determinato ad arbitrio dell’insegnante o dell’istituto, e consiste in ‘competenze’ generiche slegate dai contenuti disciplinari. Le definizioni fumose e inconcludenti delle competenze sono rivelatrici delle intenzioni nichiliste di chi ha riformato la scuola pubblica negli ultimi vent’anni (traggo le due citazioni successive dall’articolo http://www.mondadorieducation.it/Mondadori-Education/MeandYou/Insegnare-programmare-e-valutare-per-competenze). M. Ambel si esprimeva così: «Per competenza si intende, in un contesto dato, potenzialità o messa in atto di una prestazione che comporti l’impiego congiunto di atteggiamenti e di motivazioni, conoscenze, abilità e capacità e che sia finalizzata al raggiungimento di uno scopo» (in «Progettare la scuola», n. 3, 2000, p. 32). Appena sfoltito il ginepraio verboso, ci si accorge subito della scorrettezza della definizione: abilità e capacità sono sinonimi di competenza; ne risulta che la competenza consiste nell’impiegare la competenza. Ci riprovò il Forum delle Associazioni disciplinari, e partorì questa definizione: «Ciò che, in un contesto dato, si sa fare (abilità) sulla base di un sapere (conoscenze), per raggiungere l’obiettivo atteso e produrre conoscenza; è quindi la disposizione a scegliere, utilizzare e a padroneggiare le conoscenze, capacità e abilità idonee, in un contesto determinato, per impostare e/o risolvere un problema dato» (in «Progettare la scuola», n. 4, 2000, p. 42).
Chiusi gli occhi sulle goffaggini della prima parte con il suo ricorso illecito ad abilità che è sinonimo di competenza e con la sventatezza di ridurla a un produrre conoscenza, la seconda parte, effettivamente esplicativa, fa nascere la domanda del perché non si sia scritto semplicemente che competenza è il possesso di strumenti teorici per risolvere problemi. La risposta è che queste definizioni vogliono distruggere l’esistente senza costruire il nuovo. Se si definisse competenza in modo semplice e adeguato, ogni insegnante vedrebbe che ha sempre insegnato competenze: competenze linguistiche, logiche, matematiche, estetiche. Per quanto sfugga ai pedagogisti perseguitati dalle manie classificatorie, nessuna conoscenza scolastica è infatti una nuda informazione; perfino quelle storiche vertono su singolarità esemplari, che costituiscono cioè modelli, quindi strumenti da applicare oltre il loro contesto, per comprendere situazioni in generale. La semplicità della definizione avrebbe dunque confortato la prassi didattica nelle scuole italiane, forse l’avrebbe addirittura migliorata, inducendo gli insegnanti a preoccuparsi dell’universalità delle conoscenze proposte, dunque della loro portata applicativa. Evidentemente non si voleva aiutare gli insegnanti, li si voleva confondere perché diventassero insicuri della loro didattica, perché non offrissero resistenza alla sua liquidazione. Insomma, la programmazione per competenze è stata la maniera subdola per invitare gli insegnanti pubblici a fare di tutto pur di non insegnare nulla.
La ‘Buona scuola’ della Giannini è stata un’accelerazione che ha reso evidente lo spirito dell’operazione senza più giri di parole. Essa prescrive attività evidentemente impossibili, dunque distruttive della didattica: impone la scuola-lavoro nei Licei che li trasforma in istituti professionali pur conservando, contraddittoriamente, il livello teorico delle discipline; impone la metodologia CLIL, cioè l’insegnamento di una materia in lingua straniera, senza che ci siano insegnanti in grado di farlo; premia gli insegnanti valutandone il merito non in base ai risultati didattici, ma alle certificazioni delle attività extracurricolari svolte e alle novità improvvisate.
Lo strumento più estremo di dequalificazione è però la fine della valutazione. Non soltanto nella scuola dell’obbligo non è più consentito bocciare, in ogni ordine e grado la bocciatura è considerata dai quadri superiori dell’amministrazione scolastica come un’inadempienza della scuola. Questa concezione potrebbe essere giusta se ogni studente fosse aiutato a frequentare la scuola congeniale ai suoi gusti e adeguata alle sue capacità, e in caso di errore potesse cambiare facilmente istituto; ma nel contesto dell’autonomia scolastica acquista una portata devastante. L’autonomia, infatti, mette in concorrenza tra loro gli istituti e li spinge ad incrementare con tutti i mezzi del più volgare marketing la loro utenza per evitare di essere accorpati o di sparire. Poiché il fine è di aumentare le iscrizioni e raggiunto il numero di conservarle, le scuole evitano in tutti i modi di individuare nei primi anni gli alunni non motivati o non in grado di frequentare i loro corsi per orientarli verso altri tipi di scuola, e pur di conservarseli preferiscono ridurre al nulla la didattica e gonfiare le valutazioni.
L’amministrazione centrale viene loro incontro non solo scoraggiando le bocciature, ma imponendo una normativa sui ‘bisogni educativi speciali’ per cui qualunque difficoltà di apprendimento può ricevere da una diagnosi medica il diritto all’elaborazione di un percorso didattico semplificato, che porta comunque al conseguimento del normale diploma. In questo modo la scuola pubblica è diventata l’ospizio a cui le concezioni neoliberali la destinavano e i suoi diplomi attestati di frequenza.
Tutto quello che la scuola italiana ha subito e che tanti hanno rilevato con perplessità, non è il frutto di generose per quanto confuse volontà pedagogiche o sociologiche di miglioramento della didattica, ma l’effetto di una volontà consapevole di distruzione della scuola pubblica per generare domanda solvibile di istruzione privata. E se abbiamo il dovere di usare i termini giusti per le cose, dobbiamo dire che una classe dirigente, quella che confessa apertamente di perseguire non l’interesse dei suoi elettori, cioè degli Italiani, ma quello delle burocrazie sovranazionali dipendenti dalle indicazioni dei poteri atlantici (così cinguettava l’ex Presidente del Consiglio: «Nostre battaglie in UE non erano per l’interesse dell’Italia, ma perché ritenevamo fossero interesse dell’Europa». Cfr. https://twitter.com/pdnetwork/status/747357069586608128?lang=it), come ha tradito l’Italia, ha tradito la scuola pubblica italiana: ne ha provocato il degrado scientifico e culturale così da privarla a priori di ogni autorevolezza di fronte ad alunni e a genitori, umiliando gli insegnanti a svolgere compiti di animazione e creando una generazione di semianalfabeti.
Dispiace constatare che gli attori principali del tradimento siano stati i governi di ‘sinistra’; ma non stupisce: dal ‘Manifesto comunista’ del ’48 la sinistra è convinta che la società sia una guerra civile ora occulta ora manifesta; poiché erano i più indifferenti alle istituzioni statali, le sole che garantiscano i diritti, e i più sensibili alle sirene del cosmopolitismo neoliberale, si è consentito ai suoi adepti di passare indenni per Tangentopoli così che attuassero le riforme che hanno distrutto l’Italia.
La lotta per l’istruzione pubblica ha però importanti prospettive. Come lo smantellamento degli strumenti con cui lo Stato interviene nell’economia, anziché stimolare lo sviluppo, il benessere e la civiltà, provoca crisi, miseria e barbarie, così la distruzione della didattica della scuola pubblica non migliora l’istruzione, ma la rende più che mai classista e culturalmente miserevole. L’epoca del neoliberalismo sfrenato volge alla fine. Questo, più che la consapevolezza degli insegnanti sulla degradazione che hanno subito, dà elementi di speranza. La rinascita non può però avvenire senza l’impegno soggettivo di illuminazione delle coscienze; si tratta dunque di smascherare tutto ciò che è accaduto nella scuola dagli anni ’80 in poi interpretandolo alla luce del progetto di privatizzazione della società, di constatarne le conseguenze devastanti, di ripudiarlo, tenendo ferma la necessità di una scuola pubblica che offra a tutti la preparazione teorica e non solo l’abilità professionale, e che conservi al suo interno l’istruzione di eccellenza per tutti i capaci a prescindere dalle condizioni sociali di provenienza.