Perché l’Italia non ha una politica estera
di Alberto Negri - 11/01/2020
Fonte: Il Manifesto
È quasi impietoso misurare la pochezza della nostra classe dirigente con quella del passato. Non prendiamo decisioni perché ci siamo infilati in un imbuto dettato dall’amorfa adesione ai tracciati prescritti dagli Usa e dalle altre potenze europee nostre concorrenti: ecco perché non ne usciamo fuori.
Perché come Paese contiamo poco o niente? Una delle risposte è venuta questa settimana nella stretta di mano tra Putin ed Erdogan all’inaugurazione del Turkish Stream, il simbolo del fallimento della nostra politica estera nel Mediterraneo e in Libia. Quel gasdotto con il nome di South Stream doveva costruirlo l’italiana Saipem non Erdogan ma fu bloccato da Europa e Stati Uniti per sanzionare la Russia sull’Ucraina.
Peccato che alla Germania in questi anni sia stato consentito di raddoppiare il North Stream con Mosca e alla Turchia, riottoso membro della Nato, di raggiungere accordi con Putin nel gas e persino negli armamenti. Dov’erano l’Unione europea e gli Stati Uniti? Hanno contribuito a bloccare i nostri interessi nazionali ma dato via libera a quelli altrui.
Eppure l’Europa produce soltanto un quarto del gas che consuma e ne importa il 75 per cento: ci sarebbe spazio anche per l’Eni che produce la maggior parte del suo gas in Egitto e Libia, alla quale siamo legati dalla pipeline Green Stream. E siccome l’Eni produce l’80% dell’energia elettrica libica: questa è rimasta l’unica vera nostra leva nell’ex colonia.
È quasi impietoso misurare la pochezza della nostra classe dirigente con quella del passato: a Enrico Mattei gli americani avevano imposto di liquidare l’Agip ma lui la tenne in vita per fondare l’Eni che arrivò a sfidare le «Sette Sorelle» in Iran durante lo scontro tra lo Shah e Mossadeq, il leader nazionalista defenestrato da un colpo di stato anglo-americano nel 1953. Senza le spregiudicate manovre di questo ex capo partigiano non avremmo neppure una compagnia petrolifera.
Certo Mattei ha pagato con la vita quando il suo aereo fu abbattuto nel ’62 sul cielo di Bascapè. Perché Mattei intraprese la sua sfida? La politica estera economica ed energetica _ insieme ai rapporti con il mondo arabo e palestinese di Moro, Andreotti, Craxi – è stata una delle poche praticabili per un Paese ridotto a un protettorato americano. Quando questo spazio si riduce la politica estera scompare.
Ogni cedimento, senza contropartite, su qualche dossier economico è un sconfitta e ci priviamo dei pochi margini di autonomia che abbiamo: gli accordi con la Cina e la sfuriata dell’ambasciatore Usa alla Farnesina sono stati la cartina di tornasole dell’atteggiamento colonialista americano.
Per «rimediare» Conte e di Maio poi si sono sdraiati tappetino davanti a Trump e Pompeo diventando campioni europei dell’atlantismo con 70 anni di ritardo.
Quando vengono imposte sanzioni da Trump a un Paese come l’Iran noi ci perdiamo più di tutti: nel 2015 il presidente Rohani assegnò all’Italia contratti per 30 miliardi di euro. L’Europa ha cercato con il sistema Instex di aggirarle, senza troppo riuscirci, per realizzare almeno le esportazioni legali e legittime verso Teheran: ma il nostro Paese, spaventato da Usa e Israele, non ha aderito all’iniziativa.
Perché non riusciamo a realizzare neppure una politica estera «economica»? Ci accodiamo alle decisioni altrui con i paraocchi.
Due esempi: Libia e Siria. Nel 2011 abbiamo abbandonato Gheddafi – dopo avere firmato sei prima con lui accordi miliardari e di sicurezza – e lo abbiamo persino bombardato perdendo ogni credibilità sulla Sponda Sud. Avevamo paura che colpissero i terminali dell’Eni: ma quando mai gli occidentali hanno preso di mira le istallazioni energetiche? Non lo hanno fatto neppure in Iraq nel 2003 e in nessuna guerra del Golfo precedente.
In Siria – dove nel 2011 eravamo diventati il primo partner europeo davanti ai francesi – ci siamo subito schierati, spinti dall’ex segretario di Stato Hillary Clinton, con i «ribelli» anti-Assad che poi si sono rivelati dei tagliagole jihadisti. Ma l’errore peggiore è stato credere che Assad sarebbe caduto in breve tempo. Poi qualche dubbio si è insinuato quando è intervenuta la Russia nel 2015. Per anni la posizione dei nostri governi è stata la seguente: «Assad se ne deve andare». Come no. Ad andare a casa – un governo di incompetenti dopo l’altro _ sono stati loro, i nostri premier e ministri, incapaci di smarcarsi da un copione scritto da altri e che neppure capivano, con l’eccezione di Emma Bonino.
La Libia, dove oggi la pace e la guerra la decidono Putin ed Erdogan, continua essere un disastro. La nostra diplomazia, gestita da un portavoce invece che dai diplomatici, è imbarazzante. Lo si è visto con l’incontro mancato di Sarraj con Conte a Roma ma anche nel vertice del Cairo dove il ministro Di Maio non ha firmato il documento finale perché troppo «anti-turco». Quella Turchia di Erdogan che si è presa Tripoli e minaccia i nostri interessi nel gas a Cipro ma con cui dobbiamo trattare senza avere nessuna leva per negoziare. Eppure al Cairo c’erano i partner del gasdotto East-Med, concorrente del Turkish Stream, che potrebbe essere realizzato proprio dalla Saipem.
Ma noi non possiamo decidere perché ci siamo infilati in un imbuto dettato dall’amorfa adesione ai tracciati prescritti dagli Usa e dalle altre potenze europee nostre concorrenti: ecco perché non ne usciamo fuori.