Piano A, Piano B
di Enrico Tomaselli - 14/02/2025
Fonte: Giubbe rosse
Mentre l’Europa guarda attonita gli USA che, senza alcun riguardo, la scavalcano e vanno verso un accordo con la Russia, torniamo a chiederci dove (e come) stia andando l’America. Lo Tsunami Trump sembra travolgere tutto e tutti, in patria ed all’estero, ma non è detto che l’onda sia così alta come sembra.
La presidenza Trump – quello che rappresenta ed esprime – è ancora ai suoi esordi, per quanto rutilanti, non è quindi facile comprendere a fondo come si svilupperà, in quale direzione (e soprattutto come) cercherà di portare l’America – e il mondo. Alcuni elementi cominciano però a chiarirsi, e si incistano su quanto si poteva, anche facilmente, prevedere, già dal modo in cui è stata condotta la campagna elettorale.
Il primo di questi elementi è che gran parte dell’azione della nuova amministrazione è rivolta all’interno degli Stati Uniti; rifare grande l’America, nella visione di quel pezzo di potere statunitense che ha portato Trump alla Casa Bianca, significa innanzi tutto smantellare radicalmente quell’intreccio di apparati ed istituzioni messo in piedi durante i decenni di dominio neocon-dem. Un’opera alla quale la squadra di Trump si sta dedicando con vigore – e, si direbbe, con un certo stupore da parte delle sue vittime – ma che, al di là degli effetti mediatici, necessita di tempo per produrre effetti concreti. Ovviamente è più facile la parte destruens, alla quale comunque presto si opporrà la resistenza degli stessi apparati [1], al momento ancora frastornati, ma prima o poi dovrà essere affrontata la questione del come / con cosa sostituirli. E questo sarà più lungo e più complesso.
L’altro elemento, fortemente caratterizzato dalla personalità del neo-presidente, è il medesimo approccio sbrigativo, ruvido – e in ultima analisi aggressivo – applicato sul piano internazionale. In un certo senso, simbolicamente riassumibile nella decisione di rinominare il Golfo del Messico in Golfo dell’America, ovvero una decisione unilaterale, sostanzialmente limitata negli effetti concreti ma di grande visibilità, e che soprattutto rilancia un’immagine muscolare degli Stati Uniti, che hanno deciso di mettere da parte le formalità diplomatiche e di riaffermare sin dai toni il proprio potere egemonico.
Ovviamente qui, come si suol dire, casca l’asino, perché se si tratta di rifare grande l’America, significa che a non esserlo più non è soltanto la sua immagine percepita, e quindi questo genere di maquillage non solo non è sufficiente, ma rischia di avere un effetto boomerang. Perché è tutta la realtà globale ad essere mutata, non soltanto gli USA, e rifiutare di vedere la realtà è il primo passo per compromettere qualsiasi tentativo di cambiarla.
A parte questi primi elementi superficiali, si può però cominciare a ricavare anche un’idea più complessiva del disegno strategico statunitense, o quanto meno delle sue prospettive a breve-medio termine.
In questo quadro, si può affermare che l’obiettivo sia quello di trasformare l’occidente collettivo in una sorta di fortezza americana, in cui le periferie dell’impero – Europa, America Latina, Australia Giappone e Corea del Sud – vanno a ricoprire il ruolo di fossato protettivo; non più, quindi, paesi vassalli dotati comunque di una certa autonomia, ma territori strettamente integrati nel dispositivo politico-militare di difesa della fortezza continentale, e sottoposti al comando diretto dell’imperatore.
Questa manovra di fortificazione procederà in due direzioni: per un verso, il cuore dell’impero – rappresentato dal continente nord-americano – drenerà verso di sé quante più risorse possibili (economiche ed intellettuali) dai paesi vassalli, e per un altro cercherà di alzare un muro tra i territori imperiali ed il resto del mondo, dove hic sunt leones. L’idea di fondo è quella di isolare quanto più nettamente possibile l’occidente, lasciando fuori tutti gli altri, al fine di sfruttare la propria (presunta) superiorità tecnologica, militare ed economica, per impedire che altre potenze superino il gap che le separa dagli Stati Uniti.
L’era della globalizzazione è morta e sepolta. Gli Stati Uniti si sono accorti che la creazione di un mercato globale – che ha favorito la deindustrializzazione occidentale, e americana in particolare – ha dato agio a competitors grandi e piccoli di crescere, sino al punto di minacciare la supremazia di Washington, e pertanto è necessario invertire radicalmente la tendenza: riportare in America la capacità produttiva, mantenere il predominio tecnologico (e quindi militare), ridurre drasticamente il commercio est-ovest – emarginando i paesi più pericolosi e cooptando quelli potenzialmente utili.
In questa prospettiva, l’ostilità verso i BRICS (destinata ad inasprirsi) non nasce tanto dall’idea che sia l’embrione di un blocco anti-occidentale, quanto dalla necessità di dividerne i membri, portandone alcuni nella propria sfera d’influenza (India, Brasile), e respingendone ai margini gli altri.
La strategia trumpiana (del suo blocco di potere) è anche una strategia definibile come beyond liberalism, che intende cioè superare la fase del neoliberismo (supremazia delle oligarchie economiche su quelle politiche), per approdare ad una fase nuova in cui le prime occupano lo spazio delle seconde [2]. Non per caso, sia Trump che il suo quarteback-alterego Musk, sono proprio due oligarchi economici.
In conclusione, gli Stati Uniti stanno andando in direzione di un brusco cambiamento delle relazioni internazionali, ma anche di quelle sociali interne. L’obiettivo è quello di creare un blocco occidentale militarizzato (in senso politico prima che letterale), sotto stretto comando USA, che al riparo di una nuova cortina di ferro recuperi il proprio potenziale e ripristini la propria supremazia, in attesa che questo processo maturi e rimetta l’America in condizione di sferrare il colpo definitivo al suo maggior competitor, la Cina, rimettendo così in riga tutti gli altri.
Si tratta, come ben si comprende, di un disegno assai ambizioso, e niente affatto scontato, che richiede comunque un periodo di necessaria quiete – almeno due o tre lustri – che è poi la ragione (una delle ragioni…) per cui Trump cerca di sganciarsi dal conflitto ucraino, addirittura guadagnandoci sopra due volte [3], e di placare il tempestoso Medio oriente.
A parte le su accennate incognite interne, questo disegno strategico sembra però non tener conto di alcuni fattori decisamente significativi. Innanzi tutto, la supremazia tecnologica che gli Stati Uniti presumono di avere è in realtà assai più limitata, e meno reale, di quanto credano. Dall’AI ai sistemi d’arma più avanzati, Cina e Russia sono più avanti in molti settori, e persino l’Iran e la Corea del Nord sono decisamente competitivi. Del resto, la Cina è in grado di investire in ricerca e sviluppo quanto e più degli USA, e in queste nazioni il numero di laureati in materie scientifiche e tecnologiche è decisamente superiore alle medie occidentali. Paradossalmente, la politica sanzionatoria adottata già da tempo contro i paesi ritenuti ostili, anche sul piano dello sviluppo tecnologico si è rivelata controproducente; questi paesi infatti hanno ricercato soluzioni autarchiche, che escludessero il ricorso a componenti hardware/software occidentali, sviluppando prodotti equivalenti, a volte anche migliori, e spesso più economici. Il caso dell’AI DeepSeek cinese, o dei missili ipersonici russi e iraniani, è emblematico.
Anche sul piano militare la superiorità occidentale è tutta da recuperare. Gli eserciti europei, con forse l’unica eccezione di quello polacco, sono in condizioni di depauperamento, soffrono di una profonda impreparazione alla guerra contemporanea [4], e pagano soprattutto il prezzo di una impostazione dottrinaria desueta, concepita in altre epoche, per altri scenari, e soprattutto per altri avversari. Il dominio missilistico russo e iraniano (la NATO non ha missili ipersonici…) è completo. Sul piano convenzionale la produzione di corazzati e di artiglieria della Russia e della Cina sopravanza largamente quella di tutti i paesi NATO, i mezzi sono più robusti e flessibili, e costano molto meno di quelli occidentali. Nel settore della guerra elettronica la Russia è decisamente avanti a tutti. Nel campo dei velivoli senza pilota, Russia e Iran sono all’avanguardia.
Tradizionalmente, si ritiene che la superiorità occidentale risieda soprattutto nell’aviazione e nella marina. Ma le performance del cacciabombardiere di 5^ generazione russo, il Su-57, sono considerate sbalorditive, e una volta entrato in produzione massiva potrebbe ribaltare i rapporti di forza aerei. Quanto alla marina, anche da sola quella cinese conta ormai un numero superiore di naviglio, in gran parte più moderno, rispetto a quella USA. Le flotte cinese, russa e iraniana – che fanno spesso esercitazioni congiunte – sono probabilmente già in grado di competere con quelle occidentali.
E, ovviamente, l’arsenale nucleare russo è il più grande al mondo.
Appare insomma di tutt’altro che facile realizzazione un disegno che, nell’arco di un tempo relativamente breve, riesca a portare a termine tutti gli obiettivi prefissati, ovvero: ricostruzione del potenziale produttivo americano, adeguamento della forza militare, rafforzamento della supremazia tecnologica, difesa del potere del dollaro come moneta di scambio internazionale. Se anche venissero tutti conseguiti, bisogna comunque tenere presente che anche i paesi avversi proseguiranno nel loro sviluppo tecnologico e militare, e quindi non è detto che risultino sufficienti a colmare il gap. Ne consegue che, anche una prospettiva ottimistica, potrebbe non essere sufficiente per la sfida finale, e sarà necessario dividere il fronte nemico.
Questo è comunque quello che potremmo definire il piano A. Affinché questo determini condizioni tali da poter affrontare e vincere contro l’avversario numero uno, ovvero la Cina, è però fondamentale – appunto – far sì che Pechino arrivi da sola al momento decisivo.
A tale riguardo, Washington conta di riuscire a staccare la Russia dall’alleato cinese [5], e probabilmente di eliminare l’Iran in tempo utile [6].
Il percorso che porta alla realizzazione del piano A, come si è detto, necessita di un periodo di tregua, quanto meno sotto il profilo dei conflitti cinetici. Quindi la necessità di porre fine ai due principali – in cui gli USA sono pesantemente coinvolti – o quanto meno di tirarsene fuori, diventa un obiettivo primario. Entrambe però presentano non poche difficoltà di risoluzione. Per quanto riguarda l’Ucraina, queste difficoltà si possono sostanzialmente riassumere nella assoluta indisponibilità russa a soluzioni compromissorie al ribasso, e nella necessità – non meno rilevante – di evitare una sconfitta manifesta della NATO e degli Stati Uniti (quella sostanziale è inevitabile). Per quanto riguarda la Palestina, invece, si tratta della impossibilità di abbandonare Israele, e della impossibilità di raggiungere una pace duratura senza porre fine all’esistenza di uno stato sionista in Terra Santa.
Nonostante la grande spregiudicatezza di Trump, e nonostante la forte volontà di portare a termine questa decisa sterzata rispetto alla strategia sinora perseguita da Washington, appare evidente che i margini di successo, proprio nei primi passi internazionali, sono estremamente problematici e ridotti.
Poiché ovviamente queste difficoltà non sono emerse dal nulla il giorno dell’insediamento di Trump, ma erano ben note anche da prima, è ragionevole ritenere che nei think tank legati al blocco di potere trumpiano siano state esaminate per tempo, e che siano quindi state immaginate delle soluzioni per affrontarle. Quello che potremmo quindi definire il piano B, e che punta ai medesimi obiettivi ma in tempi e modi meno ambiziosi.
Questa seconda versione del disegno strategico fa perno su due idee guida: sul breve termine, cercare di sviluppare le relazioni bilaterali con la Russia, sulla base di una sorta di partnership per la sicurezza globale, e sul medio termine arrivare alla definizione di una Yalta 2.0, che coinvolga – in diversa misura – anche la Cina, e punti a stabilire nuove regole di convivenza erga omnes. Dal punto di vista statunitense, un simile approccio risponderebbe sempre all’obiettivo di ripristinare la propria capacità di esercitare egemonia, ma prendendo atto che ciò richiede una fase più lunga.
Questo tipo di approccio è assai probabile che incontrerebbe un iniziale favore di Mosca, che avrebbe tutto l’interesse a risolvere (almeno temporaneamente) le aree ed i settori di crisi che la riguardano direttamente: Ucraina, ovviamente, ma anche presenza NATO (USA) in Europa, Mar Baltico, Oceano Artico e, in minor misura, Medio Oriente. Per Washington questa seconda ipotesi avrebbe il (potenziale) vantaggio di offrire l’agio per un tentativo di insinuare un cuneo tra Russia e Cina, anche se questa possibilità risulterebbe limitata comunque da altri fattori.
Innanzi tutto, perché la leadership russa ha ben metabolizzato l’inaffidabilità e la doppiezza occidentale, ma anche perché in questo quadro l’Europa risulterebbe marginalizzata e ridimensionata politicamente, e comunque separata nettamente dalla Russia; pertanto, il baricentro politico-economico russo resterebbe orientato ad est, verso l’Asia – e quindi la Cina.
A giudicare dai toni con cui l’amministrazione Trump sta affrontando il primo approccio con Mosca, sembrerebbe che sia ancora indecisa tra l’approccio carota-bastone ed uno più soft, condito di lusinghe e profferte. Insomma, a metà strada tra piano A e piano B… E per il momento sembra essere ricambiata in egual modo dalla leadership russa. Resta da vedere se e quanto questo idillio iniziale troverà seguito, quando si passerà al negoziato vero. Sul cui cammino pesano due ostacoli grossi come macigni: il rifiuto netto della Russia a qualsiasi congelamento del conflitto, e la precisa volontà di Mosca di accettare il confronto solo nell’ambito di un più vasto accordo di sicurezza reciproca. La distanza tra le parti, insomma, è significativa, e non sarà facile colmarla – sempre che sia possibile. L’entusiasmo (o lo sgomento) con cui viene accolto questo primo, piccolissimo passo – la telefonata di Trump con Putin – appare davvero eccessivo, quasi che la ripresa di un dialogo comporti automaticamente una rapida risoluzione dei problemi. Cosa da cui siamo invece ancora ben lontani.
Tra l’altro, è ovvio che questo percorso, oltre ad essere accidentato, è anche necessariamente lungo. E nel tempo necessario per svilupparlo possono accadere ancora molte cose. Non è possibile prevedere se e come reagirà (a parte l’iniziale frustrazione) l’Europa. Né è possibile prevedere le reazioni in Ucraina – che come l’Europa viene chiaramente messa da parte. C’è da capire come si posizionerà rispetto a ciò la Cina – che intanto ha proposto un vertice trilaterale USA-Russia-Cina per trovare un accordo in Ucraina senza la partecipazione di Kiev, con Pechino pronta a farsi garante degli eventuali accordi raggiunti.
Ma soprattutto è imprevedibile cosa accadrà sul terreno, dove le forze russe continuano a macinare quelle ucraine, dalle quali però non si può escludere che vengano tentate mosse disperate. Se i rispettivi punti di partenza sono già abbastanza lontani, è evidente che cambiamenti significativi lungo la linea di combattimento potrebbero incidere significativamente sulla collocazione del punto d’arrivo.
Una cosa è comunque abbastanza chiara. Quale che ne siano gli esiti, l’apertura all’avvio di una fase negoziale tra Washington e Mosca costituisce uno spartiacque. Ci sarà un prima ed un dopo. E da come si concluderà potrebbe dipendere la scelta della Casa Bianca: piano A o piano B.
NOTE
1 – Non va dimenticato né sottovalutato l’aspetto sistemico dello scontro in atto negli states. Non si tratta, infatti, di una semplice polarizzazione destra vs sinistra (ammesso che questi termini abbiano un senso rispetto al quadro politico americano); il processo innescato dal gruppo di potere trumpiano è più ampio e più profondo di un semplice riallineamento della politica federale, con conseguente eliminazione/modifica degli strumenti istituzionali, ma implica sia un vero e proprio trasferimento di poteri (dal pubblico al privato), sia una drastica riduzione della spesa. E questo significa che ad esserne travolti non saranno soltanto le élite legate a vari livelli ai democratici, ma che l’onda d’urto scenderà più in basso, colpendo anche i ceti piccolo e medio borghesi. In prospettiva, insomma, il risanamento del sistema americano non aprirà semplicemente una frattura ideologica (rep vs dem), ma avrà delle ricadute sociali. E non è affatto detto che la sovrapposizione tra queste due linee di faglia non porti ad un livello di conflittualità così elevato da superare la soglia di guardia: un sistema democratico, sia pure con le forti connotazioni oligarchiche come quello statunitense, rischia di saltare se vengono meno i presupposti comuni tra le parti.
2 – Da un certo punto di vista, siamo di fronte agli albori di un nuovo modello politico e sociale, che rappresenta l’effettiva concretizzazione di certe utopie del capitalismo liberista. In proposito, cfr. “La nuova utopia capitalista”, Enrico Tomaselli, Meer
3 – Dopo aver lucrato sulla rescissione del legame energetico Russia-Europa, che ha portato i paesi vassalli a comprare il GNL americano assai più caro ed a perdere di competitività, dopo aver pompato l’industria militare statunitense (tradizionale volano di ripresa economica degli states), adesso pretende dagli ucraini che risarciscano Washington, consegnando al capitale americano 500 miliardi di valore in terre rare e affini.
4 – Gli eserciti NATO hanno combattuto la loro ultima guerra in Afghanistan (perdendola), laddove però si trattava di qualcosa di molto diverso dal conflitto ucraino, più una azione di controinsurrezione e controguerriglia, nemmeno un conflitto asimmetrico. Di conflitti simmetrici non hanno cognizione dagli anni cinquanta, dalla guerra di Corea. Del resto, proprio guardando alla guerra in Ucraina, si vede come tutte le offensive dell’esercito di Kiev, pianificate dai comandi NATO in base alle proprie dottrine di combattimento, si siano risolte in disastrosi fallimenti. Persino l’addestramento fornito da personale NATO risulta, a detta degli stessi militari ucraini che l’hanno ricevuto, assolutamente inadeguato; il più delle volte, gli allievi avevano più esperienza degli istruttori.
5 – Nonostante tutto, gli USA continuano a considerare la Russia come un avversario minore, ritenendo che la differenza di PIL sia più significativa di tutto il resto. In tal senso, restano sostanzialmente convinti di ciò che pensavano durante l’amministrazione Biden, solo prolungando un po’ nel tempo i calcoli. Se precedentemente a Washington contavano che le sanzioni ed il costo della guerra avrebbero messo in ginocchio Mosca nel giro di un paio d’anni, adesso ritengono che entro il 2030 potrebbe addirittura crollare il regime… In ogni caso, pensano di poter esercitare un misto di pressione e seduzione, tale da spingerla a rompere l’alleanza con la Cina.
6 – Fondamentalmente, la questione sul nucleare iraniano è tutta lì. È anche, certamente, relativa alla sicurezza di Israele ed alla sua deterrenza, ma sopra ogni cosa Washington non vuole trovarsi in una situazione simile a quella coreana, con un paese ostile dotato di armi nucleari e col quale quindi deve scendere a patti. Pertanto è assai probabile che prima o poi gli Stati Uniti prendano in considerazione l’ipotesi di colpire Teheran, considerata (senza armi nucleari) l’anello debole della catena (Cina, Russia, Corea del Nord, Iran).