Più pregi meno sprechi
di Saverio Pipitone - 14/07/2021
Fonte: Saverio Pipitone
Ogni anno nel mondo il cibo buttato nella spazzatura è di oltre 1 miliardo di tonnellate, di cui fino all’80% ancora edibile. La metà è spreco domestico con un centinaio di kg pro capite e il resto è perso lungo la filiera nei settori primario, trasformazione, commercio ingrosso o dettaglio e horeca (acronimo di Hotellerie-Restaurant-Café-Catering). I più cestinati sono frutta, verdura, cereali, pesce, carne e latticini. Il costo economico totale è attorno ai 2.500 miliardi di dollari – in Italia 300 euro a famiglia – per una domanda sociale inevasa di 2 miliardi di individui, il triplo degli attuali indigenti, che potrebbero essere giornalmente sfamati. L’impatto ecologico è del 38% di energia usata nella fabbricazione alimentare, con l’emissione di gas ad effetto serra pari a 3,3 miliardi di tonnellate CO2 equivalenti, 250 km3 di acqua sfruttata, 1,4 miliardi di ettari di terreni occupati, 4 kg/persona di fertilizzanti spruzzati, 25% di deforestazione, 20% di danni alla biodiversità, 21% di rifiuti in discarica (fonti FAO – UNEP – Piccolo atlante disuguaglianze).
L’insensato sperpero è causato da eccessi di produzione, intermediazione e consumo: dalle pianificazioni disallineate dell’offerta industriale e prodotti difformi agli standard dimensionali ed estetici di mercato o deteriorati nel trasporto e nello stoccaggio, alle svalorizzazioni nei supermarket con inefficienze di rotazione delle referenze a scaffale o nella gestione delle scorte, surplus di promozioni, merci sciupate dai clienti, invenduti, resi e scaduti, sino agli scarti, in casa e nella ristorazione, per troppi alimenti comprati e preparati, inadatta o prolungata conservazione con deperimento, abitudini schizzinose e quant’altro.
Disfunzioni che, nella società dei consumi, si manifestano quali segni di opulenza, ma invero sono sintomi di un sistema fallato, fra volumi smisurati, prezzi speculativi e qualità devitalizzata, con un’industria produttiva e distributiva su vasta e rapida scala che, tramite sondaggi o ricerche settoriali, pubblicità, marketing e manipolazioni persuasive, domina il consumatore – acritico e frustrato – dirigendolo verso sbocchi e bisogni precostituiti.
Per sottrarsi alla contorta trafila, al consumatore occorre riprendere la sua sovranità e optare per le reti alimentari alternative che sono corte, locali, biologiche, salubri, convenienti e parsimoniose, come i Gruppi di acquisto solidali (GAS) e le Comunità che supportano l’agricoltura (CSA).
I GAS sono tipici italiani – il primo nacque nel 1994 a Fidenza/PR – con l’unione spontanea di persone che, in modo collettivo e autorganizzato, comprano direttamente da selezionati contadini o piccoli produttori del territorio, rispettosi dell’ambiente e del sociale, per poi ridistribuire all’interno del gruppo i prodotti: sani, etici e stagionali. Attraverso un tessuto reticolare, un migliaio di GAS scambiano idee, informazioni ed esperienze; assieme ad altre realtà analoghe, partecipano alla creazione di progetti o distretti solidali, per un’economia diversa (mappa).
Le CSA, sorte negli anni Ottanta, sono anglosassoni, ma influenzate dalla tradizione biodinamica rurale europea e dall’antecedente movimento associativo giapponese Teikei contro la chimica agricola. Fattorie e famiglie stringono un patto di prossimità, senza scopo di lucro, per sostenere le colture con l’impegno reciproco di fornire e assorbire il raccolto, agroecologico e programmato, secondo il reale fabbisogno del luogo, condividendo costi, organizzazione, lavoro, responsabilità, rischi e benefici, nell’approccio di un’economia partecipata. Il fenomeno è globale con migliaia di CSA che, in base alle specificità dei Paesi, assumono differenti forme e nomi, dalle Associazioni per la salvaguardia dell’agricoltura contadina (AMAP) in Francia all’Agricoltura sociale sostenibile in Cina, dove nell’ultimo decennio giovani laureati e anziani della classe media hanno ripopolato la campagna come nuovi agricoltori o consumatori critici dello stile di vita urbano (mappa).
Degli studi empirici – riportati in un rapporto di qualche anno fa dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) – mostrano che, quando la spesa è fatta esclusivamente nei GAS o nelle CSA, gli sprechi domestici di derrate diminuiscono da 1,5 kg a 200 grammi a settimana, e anche le perdite nell’intera filiera ortofrutticola calano dal 55,2% al 6,7%.
È stato inoltre documentato che il fruitore delle reti alimentari alternative migliora l’apprendimento sul valore del cibo, dal campo alla tavola, e mangia più vegetali, con positivi influssi nelle proprie condotte di etica alimentare e ambientale (link studi 1-2), volgendosi agli obiettivi 2050 di impatto zero, compreso l’abbattimento degli sprechi, per la salute del Pianeta.
Mao Tse-tung diceva «la lotta contro gli sprechi è un po’ come lavarsi la faccia: forse che l’uomo non si lava ogni giorno?».