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Poche pillole di filosofia spicciola

di Luciano Fuschini - 18/05/2020

Poche pillole di filosofia spicciola

Fonte: Il giornale del Ribelle

Il virus, con le polemiche che lo accompagnano, ci obbliga a scavare in noi stessi e a porci l’eterna domanda esistenziale che si presenta davanti a ogni momento cruciale della nostra vita: che fare?
L’unica medicina efficace e senza controindicazioni è il nostro sistema immunitario: è rimedio e prevenzione. Davanti all’assalto di un morbo, epidemico e non, bisogna confidare negli anticorpi. Se abbiamo fatto una vita sana e ci siamo alimentati correttamente, spesso vincono gli anticorpi, perché siamo stati programmati per essere sani, non per cedere al primo assalto del male. Se vince il morbo, ebbene, morire non è cosa nuova in questo mondo. Che nascere sia cominciare a morire è filosofia spicciola, da bar, ma non perciò meno vera. Del resto ciò che si dissolve con la morte del corpo è il nostro Io, non il Sé profondo, che si congiungerà con l’Essere. E l’Essere è l’energia che permea il tutto. Lo si può dedurre dal fatto che nulla si crea e nulla si distrugge nella ciclicità olistica di cui siamo parte. Non è ragionevole pensare che solo l’umano si annienti e non si trasformi. Il pensiero che turba è proprio la scomparsa dell’Io. Nemmeno questo è ragionevole. L’Io è essenzialmente ricordo del passato e attesa del futuro. Un’alta percentuale di umani si sbarazza immediatamente del passato, non conosce rimorso e non progetta il futuro. Vive di un presente fatto di sensazioni e di soddisfacimento di bisogni primari, non molto diversamente dall’animale. Quelli che hanno piena coscienza del proprio Io sono coloro che sono radicati nel passato attraverso il ricordo e progettano il futuro. Le forme della rievocazione del passato sono prevalentemente il rimpianto, il rancore e il rimorso, che generano sentimenti penosi. I ricordi legati a esperienze positive si ammantano di nostalgia, e nostalgia significa etimologicamente “dolore della mente”. Quando si rivede un album fotografico, con immagini di un passato felice, è esperienza comune provare un senso sottile ma profondo di malinconia per qualcosa che fu e non è. È un’esperienza di perdita e ogni perdita è un lutto. L’altra direzione temporale che determina i contenuti dell’Io, il futuro, si colora di un’attesa colma di timori. Soltanto la speranza può attenuarli. Solo l’attesa speranzosa ci consente di vivere. Se questo è l’Io, un’autocoscienza fondamentalmente dolorosa, la consapevolezza che con la morte si dissolverà non dovrebbe angosciarci. La peggiore delle sorti sarebbe portarci dietro per l’eternità dei cicli vitali i rimpianti, i rimorsi, i rancori, le nostalgie, che sono il contenuto del nostro Io. Se ci fosse l’inferno, forse sarebbe proprio questo, un periodo in cui l’energia che si è liberata con la morte del corpo continua a ricordare. Non potersi liberare del fardello della memoria. Se morire è la liberazione di un Sé senza ricordi che si congiunge col Tutto da cui è sceso in un corpo, perché temere la morte? Sono considerazioni da bottega del barbiere, ma proprio la banalità di ciò che è semplice attinge nuclei di verità. Rapportato a Covid-19, questo discorsetto significa che a livello soggettivo la minaccia va affrontata serenamente, confidando nelle difese immunitarie ma accettando con un pizzico di fatalismo anche l’eventualità che vinca il virus.  
Altro deve considerare chi ha la responsabilità di governare una comunità. Gli statisti devono in primo luogo agire per la sopravvivenza e la prosperità della nazione che governano. La Peste Nera, che uccideva la metà dei contagiati, compresi bambini e giovani, metteva in forse la sopravvivenza fisica delle comunità che aggrediva. Per scongiurare il pericolo, era d’obbligo chiudere ogni attività e distanziare le persone. Covid-19 uccide lo 0,0 e qualcosa per cento della popolazione. Sconvolgere per questo la vita di una nazione non è bene e non può nascerne bene.