Politica, bio-business e scienza: il caso italiano di Giuseppe Sermonti fra studiosi darwiniani e non-darwiniani
di Giovanni Monastra - 25/07/2021
Fonte: Saggezza temporale
Il mondo dei biologi italiani è caratterizzato forse più di quello di altre nazioni da una forte dose di conservatorismo e conformismo: è un mondo "ideologizzato", intollerante e totalitario, ben rappresentato da alcune figure emblematiche come Montalenti, Chiarelli o Buzzati Traverso.
Posizioni politiche di orientamento dogmaticamente progressista e interessi economici più o meno manifesti, di cui si fanno portatori, talora involontari, molti ricercatori e studiosi italiani, convergono verso un uso strumentale delle scienze biologiche. Il tutto avviene in una cornice dove lo scientismo, anche se rifiutato da alcuni a parole, è onnipresente nei fatti, con la sua pretesa di imporre la scienza come unica, concreta, oggettiva forma di conoscenza della realtà e come fondamento di valori etici (anche di recente abbiamo sentito affermazioni in tal senso).
Un esempio di tutto ciò emerge con estrema chiarezza quando si affronta in modo critico il tema dell'evoluzionismo darwiniano, dogma indiscutibile per la biologia italiana forse più che per quella di altri paesi, dove il dibattito per lo meno trova alcuni seppur precari spazi (vedi la Francia o gli USA). Così abbiamo assistito in questi ultimi decenni a vere e proprie scomuniche nei confronti di quei pochi studiosi che hanno ritenuto un dovere scientifico, prima ancora che un diritto, ripensare, in modo intellettualmente libero, ai fondamenti della Natura nella sua stabilità e nel suo divenire.
Tutto ciò ha dell'incredibile sia dal punto di vista dei principi che dovrebbero stare alla base della scienza, sia anche in confronto con altre discipline come la fisica. Infatti la scienza moderna per sua natura dovrebbe essere priva di certezze assiomatiche, di dogmi indiscutibili, di posizioni fideistiche: la sua spesso esaltata "laicità" dovrebbe nascere proprio da questo, cioè dall'assenza di un principio di autorità estrinseco e intollerante, dall'assenza di una unicità coatta di pareri.
In altre parole dovrebbe essere "pluralista" non solo nei dettagli, ma anche nelle interpretazioni di fondo dei grandi fenomeni naturali, tra i quali si pone, appunto, quella che si suole definire l'evoluzione della specie.
Il libero dibattito anche su questi temi basilari è lo stimolo per ogni avanzamento della conoscenza: soffocarlo, criminalizzarne gli autori, additandoli come "eretici", in un'atmosfera di vero e proprio terrorismo psicologico, denota una pericolosissima, e contraddittoria, intolleranza che dimostra come la scienza per molti non sia altro che -ci si scusi l'accostamento di termini- un tipo di fondamentalismo "religioso" laico, materialista. Infatti si unisce l'arroganza di chi si ritiene l'unico detentore della verità, vista però in una cupa ottica letteralista e dogmatica, con una visione del mondo che nega a priori ogni possibile apertura verso la dimensione del Sacro, del Trascendente.
È appena il caso di accennare che tale "apertura" non significa affatto commistione tra livelli qualitativi diversi, cioè il mondo della metafisica e quello della scienza, ma integrazione reciproca basata su corrispondenze e analogie. Questo fondamentalismo parascientifico lo si riscontra in Montalenti quando affermava in modo perentorio che «Le scienze naturali debbono cercare di dare interpretazioni naturalistiche, in senso causale, meccanicistico»1 dei fenomeni del mondo biologico. Ma in quali leggi eterne o testi sacri sta scritto che la natura debba essere spiegabile in termini scientifici solo attraverso il paradigma meccanicista? Perché limitare il programma di ricerca in modo così unilaterale e quindi antiscientifico?
Il meccanicismo, infatti, non è la "scienza", ma solo un modo di interpretare i fenomeni naturali, un modo fra i tanti, strettamente legato allo scientismo. Ad esempio, partendo dagli stessi dati, con procedure rigorosamente controllate e sequenziali, si possono fornire spiegazioni perfettamente coerenti di certi processi biologici anche in una cornice olista o strutturalista, quindi lontana dal meccanicismo.
Ma, come abbiamo poco prima accennato, anche confrontando tra loro due discipline scientifiche, quali la biologia e la fisica, emerge con chiarezza l'anomalia della prima. Infatti in ambito fisico non esiste nulla di lontanamente paragonabile con l'intolleranza vigente in biologia nei confronti di ogni concezione della natura vivente alternativa a quella egemone, di stampo meccanicista. In fisica le nuove teorie germogliano in libertà (il che non significa che non ci siano accesissimi dibattiti e scontri furibondi!), forse anche in modo anarchico, ma fecondo per l'avanzamento della disciplina. In biologia, invece, si cerca di soffocarle senza nemmeno dare spazio a un vero dibattito, di cui con tutta evidenza l'Establishment ha paura.
Infatti troppi interessi, anche economici, sono in gioco, legati al dominio e allo sfruttamento della natura al cui progetto risulta estremamente funzionale il paradigma meccanicista (piccolo inciso: per gli stessi motivi, non a caso la medicina si trova in condizioni talora simili).
Infatti l'indagine biologica di tipo meccanicista, con il suo spirito analitico, atomistico, parcellizzante, seziona il mondo vivente in parti disanimate per carpirgli ogni segreto, non per desiderio di astratta conoscenza (anche se la scienza pura ambisce a questo), ma per poterlo possedere.
In un panorama così problematico, conflittuale e spesso soffocante si inserisce la lunga e feconda attività di Giuseppe Sermonti, docente universitario, prima a Palermo e poi a Perugia, e biologo di fama internazionale, però mai approdato a Roma. È stato autore di ricerche all'avanguardia nel campo della genetica dei microorganismi, scoprendo la ricombinazione genetica parasessuale in Penicillium e in Streptomyces.
Per tre anni ha presieduto l'Associazione Genetica Italiana e, nel 1980, è stato vice presidente del XIV Congresso internazionale di Genetica, suscitando la sorpresa dei suoi detrattori italiani. La stima di cui godeva all'estero è testimoniata anche dalla sua nomina a Presidente della Commissione Internazionale per la Genetica dei microrganismi industriali.
Ha scritto importanti testi scientifici tra cui ricordiamo Genetics of antibiotics producing microorganisms (Wiley & Sons) e Genetica generale (Boringhieri).
È autore anche di numerosi libri e saggi di riflessione critica sulla scienza moderna in generale o su alcuni aspetti particolari. Ricordiamo:
Il crepuscolo dello scientismo (Rusconi, 1971),
La mela di Adamo e la mela di Newton (Rusconi, 1974),
Dopo Darwin (Rusconi, 1980),
Le forme della vita (Armando, 1981),
L'anima scientifica (Dino editori, 1982),
La luna nel bosco (Rusconi, 1985),
una acuta analisi su Goethe naturalista, contenuto in un testo di vari autori, dal titolo Goethe scienziato (Einaudi, 1998),
e il recentissimo Dimenticare Darwin (Rusconi, 1999).
Inoltre a Sermonti dobbiamo degli interessanti studi sulle fiabe e le loro connessioni con il mondo del simbolo:
Fiabe di luna. Simboli lunari nella favola, nel mito, nella scienza (Rusconi, 1986),
Fiabe del sottosuolo. Analisi chimica delle fiabe di Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Cenerentola (Rusconi, 1989),
Fiabe dei fiori (Rusconi, 1992).
Ancora dobbiamo ricordare diverse commedie da tavolo, cioè recitate da interpreti seduti attorno a un tavolo, senza la presenza di scenografie. Alcune di queste sono raccolte in Profeti e Professori (Di Renzo Editore, 1997). Infine va menzionata la sua trentennale attività di divulgatore di alto livello su vari periodici e su quotidiani quali, in particolare, «Il Tempo» di Roma, dove chi scrive, già nei primi anni settanta, ebbe già il piacere di apprezzarne gli interventi sia in campo scientifico, sia nel settore delle discipline umanistiche.
Il suo costituisce un caso emblematico in Italia, rivelatore dei disegni ideologici egemonici perseguiti in modo lucido da alcuni personaggi di spicco della biologia nostrana e seguiti passivamente per conformismo e mancanza di indipendenza intellettuale dagli altri, rappresentanti la "maggioranza silenziosa" dei biologi italiani che, in quanto "maggioranza silenziosa", purtroppo non ha nulla da dire e rimane testimone pavida e muta di vergognosi ostracismi e attacchi denigratori contro chi osa uscire dalla massa e rompere gli schemi precostituiti.
Sermonti non nasce "eretico", ma lo diventa attraverso varie fasi del suo pensiero, portandosi in un primo tempo su posizioni vitaliste, e successivamente approdando al platonismo e al neoplatonismo, in un lungo e sofferto itinerario di riflessione sul significato, sui retroscena e le implicazioni della disciplina che insegnava. Questi sono tutti fattori che sfuggono a chi ha trasformato la propria mente in un computer assai efficiente e produttivo, tecnologicamente perfetto, ma fatalmente privo, per suo natura, della dimensione della "profondità" e della "creatività", elementi specifici e qualificanti l'uomo integrale, completo.
Sermonti è al contempo scienziato, filosofo in senso antico, perché attento al fondamento delle cose, al loro "perché", e anche poeta, dove poiesis ritrova il suo significato etimologico di "creazione" non anarchica e scomposta, ma in aderenza a uno schema archetipale: lo scienziato, il filosofo e il poeta costituiscono tre figure che si sono maturate e armonizzate nella sua personalità con il fluire del tempo, attraverso numerosi passaggi, ripensamenti, crisi, come lui stesso ha accennato in alcune occasioni.
Sermonti rammenta che alla fine degli anni sessanta, quando insegnava Genetica all'Università di Palermo,
nel suo «animo la scienza era entrata in crisi. Ricordo una sera, -scrive- mi aggiravo tra i banchi dell'aula vuota e chiedevo a me stesso: "Perché insegno Genetica? Perché insegno la Scienza? Insegno qualcosa a cui non credo, anzi insegno il contrario di ciò a cui credo". La scienza non ci aiuta a conoscere la realtà, anzi si adopera ad insegnarci che la realtà non conta, valgono solo alcuni principi astratti che l'uomo della strada non può comprendere, non può vivere. La scienza non si rende neppure utile. Essa riversa i suoi prodotti sulla società, crea necessità artificiali che coincidono con ciò che essa sa produrre»2.
Eppure per lungo tempo Sermonti aveva creduto alla "utilità della scienza" per l'uomo (ad esempio, nel caso degli antibiotici).
Presto nemmeno il metodo sperimentale riuscì più a soddisfarlo, nonostante passi per essere uno degli elementi più solidi e convincenti della scienza moderna. Infatti esso, scrive Sermonti,
«può affrontare solo un mondo dissociato e condizionato, deve scomporre le cose per poterle leggere e può toccare solo quella parte della realtà che si presenta all'appuntamento sempre rigorosamente eguale. Cioè nulla che riguardi l'uomo».3
In definitiva la scienza mette in luce solo i problemi a cui sa fornire una risposta, e ignora, definendoli di nessuna importanza, quelli a cui è incapace di offrire una soluzione. D'altra parte, il metodo sperimentale ha un idolo, il "dato", a cui attribuisce un carattere qualificante indiscutibile: l'oggettività.
Ma già nel 1971, scrivendo Il crepuscolo dello scientismo, Sermonti, in linea con l'epistemologia più valida e convincente, affermava che
«l'obiettività scientifica» non esiste, in quanto dallo «stesso materiale due scienziati possono trarre conclusioni diverse, ma ambedue vere, sebbene sotto certi aspetti l'una possa valere più dell'altra e quindi a buon diritto superarla; ma ci sarà certamente qualche aspetto per cui anche l'altra è vera».4
Questo non equivale, però, a fare dell'anarchismo sperimentale e teorico, confondendo verità e menzogne: infatti esistono
«anche le cose false, che non hanno cioè neppure un briciolo di verità, ma di queste cose appunto non vale la pena di affermare il contrario».5
Peraltro un dato, anche quello più attendibile e certo, assume significato solo se inserito in una "trama simbolica" che lo dignifica e qualifica.
Per lungo tempo Sermonti aveva cercato di conciliare nel modo classico le "verità della scienza" e le "verità della fede"6, un modo francamente insoddisfacente (purtroppo ancora diffuso in ambito cattolico) in base al quale si postulano due dimensioni incomunicabili e separate (viene da pensare alla formula laicista di "libera Chiesa in libero Stato"), che non si devono disturbare a vicenda con interferenze anche se, alla fine, presentano due concezioni della realtà agli antipodi, fortemente contrastanti.
Ma questo è molto pericoloso se si ritiene veramente che la dimensione spirituale abbia un suo valore conoscitivo e una sua dignità da preservare. Infatti San Tommaso sottolineava giustamente che
«è profondamente errato ritenere che, riguardo la verità di fede, sia indifferente che cosa si pensi del creato, purché si abbia una concezione esatta di Dio…; poiché un errore sulla natura della creazione si riflette sempre in una errata nozione di Dio».
E più recentemente un filosofo laico, ma di grande profondità, come Arnold Gehlen, ha affermato:
«Che l'uomo si concepisca come creatura di Dio oppure come scimmia arrivata implica una netta differenza nel suo atteggiamento verso i fatti della realtà; nei due casi si obbedirà a imperativi in sé diversissimi».
Quindi la "separazione" è del tutto inconsistente in quanto ci sono, almeno in potenza, una serie di conseguenze logiche che rendono "impossibile" nella stessa persona la coesistenza pacifica della dimensione del Sacro e di quella della Scienza moderna, almeno di quella "ufficiale" o "normale" nel senso inteso da Thomas Kuhn. Ogni illusione di farle convivere in questo modo è quindi assurda e irrealistica.
Sermonti supera tale impostazione quando percepisce con nettezza che la scienza moderna nei suoi aspetti convenzionali non sa dire nulla circa il destino, l'ordine, il significato della natura7. «Cosa è successo con l'inizio della scienza moderna?», si chiede, e la sua risposta è la seguente:
«la scienza ha rinunciato alla ricerca dell'armonia e, con passione che certamente nasconde un sottile demonismo, si è lanciata alla ricerca del caos, alla adorazione del disordine e del nulla primigenio»8.
E ancora, sotto un altro punto di vista, si può asserire che
«tutto l'impegno contenuto nella fondazione della Tecnica e della Scienza contemporanea è consistito nel privare le opere umane di ogni significato, cioè di deritualizzarle. Il significato è un'esigenza che limita l'efficienza, obbligando l'operatore a una quantità di adempimenti formali che lo distraggono da perseguire direttamente e alla spiccia il punto di arrivo. I grandi progressi realizzati dalla tecnica sono stati semplicemente il risultato dell'abolizione dalle operazioni umane di ogni sacralità: ciò ha reso, come per incanto, le pratiche umane meravigliosamente efficienti, ha consentito di porre ogni cosa in commercio, di sviluppare da ogni operazione un'industria. A un solo prezzo, appunto: che tutto rinunciasse al suo significato. Ma la natura resiste alla sconsacrazione»9
e, nonostante il disincanto in cui Tecnica e Scienza hanno preteso di sprofondare il mondo, la sacralità riemerge nelle cose, in modo diretto ed elementare.
Il "significato" è inerente alla stessa vita in sé, che Sermonti equipara a un "gioco sacro", cadenzato e regolato da leggi e ricorrenze, ritmi e cicli, che con la sua struttura simbolica fa trasparire l'Eterno, sempre presente dietro le parvenze della manifestazione cosmica. In altre parole, il divenire del bios, ma anche quello dell'intera Natura, si rivela ordinato: in quanto tale è un'epifania dell'Essere che nelle forme lascia la sua impronta.
La scienza, ci insegna Sermonti, per molti aspetti è simbolicamente figlia di Apollo, Hermes, Dioniso (o della loro ombra?), ma anche delle Moire, in quanto pura (almeno così si autodefinisce) come Apollo, elegante come Hermes, giocosa come Dioniso, ma portata per sua intrinseca natura a sezionare, tagliare, parcellizzare la realtà fisica, secondo un'attitudine tipica della Moire10.
Questo è il suo destino derivante dalle sue origini radicate in un orizzonte mitico-simbolico che si è reso autonomo -diremmo, "emancipato"- dal sacro. E ciò può risultarci comprensibile solo per merito delle nostre conoscenze umanistiche, dimostrando così la stretta correlazione tra discipline scientifiche e discipline umanistiche (altro che "due culture" secondo l'impostazione di Snow!).
Però va aggiunto che, forse, da alcune di queste "matrici" può derivare un riposizionamento degli obiettivi e del ruolo della scienza, oltre che dei suoi metodi: in particolare reintegrandola in un apollinismo dionisiaco, superando così l'oscura e opaca influenza delle Moire.
In altre parole, ci riferiamo a una visione della natura di tipo archetipale e solare, posta sotto il segno di Apollo, dove la gratuità e la festosità del gioco, condotto da Dioniso (ma si potrebbe pensare anche al lila indù), ridimensiona e trascende la miseria ragionieristica e mercantile del funzionalismo e dell'utilitarismo di ogni evento e di ogni struttura biologica, postulati dal darwinismo. Un qualcosa di questo genere già esiste, anche se in fieri, e ciò lo dobbiamo anche al tenace e appassionato lavoro di Giuseppe Sermonti, che la ha prefigurata e definita come una disciplina "che cerca modalità e ricorrenze", cioè una "scienza dei tipi" o degli "archetipi", che aggiunga mistero e meraviglia al mondo, non glieli sottragga per rendere l'uomo tranquillo11.
Il futuro ci dirà se essa potrà avere una sua dignità all'interno di una visione pluralista del settore, e non dovrà invece continuare a vedersi addirittura negato lo status di scienza.
Affrontando il tema della integrazione reciproca tra scienza e religione, Sermonti osserva che preliminarmente servirebbe che la religione abbandonasse «il suo carattere puritano» elevandosi «a rappresentazione del Cosmo, a contemplazione dei principi, dei segni e dei simboli»12. La scienza, da parte sua dovrebbe trasmutarsi, liberandosi dallo spirito calcolatore, borghese, mercantile, e quindi, sotto un certo aspetto, anch'esso «puritano», diventando , appunto, la «scienza degli archetipi», cioè delle forme che sottendono la natura, di cui aveva parlato in precedenza. Ponendosi, quindi, al di sopra dei rispettivi e angusti limiti, in un emozionante e pericoloso "al di là del bene e del male" ci troveremmo in una situazione in cui
«una religione elevata al piano metafisico ed una scienza alla ricerca dello spirito del mondo possono identificarsi, ritornare ad essere un'unica cosa».13
L'impegno di Sermonti, volto a chiarire e a demistificare alcuni pervicaci luoghi comuni, iniziò a rivolgersi al grande pubblico nei primissimi anni settanta con Il crepuscolo dello scientismo e successivamente con La mela di Adamo e la mela di Newton. In quest'ultimo libro Adamo e Prometeo vengono presentati dall'Autore come simboli di due fasi della caduta dell'uomo, del suo allontanarsi dal Divino, dall'Essere, e del suo sprofondare nell'opacità del cieco divenire: costituiscono gli archetipi dell'umanità occidentale.[*]
Sermonti critica in modo sistematico lo scientismo, da lui definito una "ideologia politica" in cui si trasforma la scienza nel momento in cui vuole rifondare l'uomo e il suo destino biologico. Il buffo è che tutta questa arroganza risulta assai poco motivata, dato che, come egli rileva, la scienza non ha poi tanti successi di cui essere fiera, dato che specie la biologia e la medicina hanno conseguito notevoli risultati solo vampirizzando sistematicamente le conoscenze empiriche, popolari, del passato, spesso residui di una sapienza religiosa, e diffondendole in modo sistematico e razionalizzato, come se fossero state conquiste proprie, o impossessandosi del merito di fenomeni positivi (quali la diminuzione di gravi malattie contagiose), quando invece l'azione svolta dalla medicina aveva avuto una influenza assai modesta sui fatti.
A titolo di esempio riportiamo alcuni episodi significativi. Il mondo contadino sapeva da tempo che il contrarre il vaiolo dalle mucche, come avveniva ai mungitori, ammalandosi in forma lieve, preservava dal vaiolo umano. Questa conoscenza popolare, trasmessa a un medico di campagna del XVIII secolo, permise di mettere a punto in Inghilterra le prime forme rudimentali, empiriche, di vaccinazione antivaiolo, anche se mancavano ancora del tutto le conoscenze immunologiche tali da far comprendere il meccanismo d'azione di questa misura di profilassi. Il chinino, usato a lungo e con efficacia per guarire dalla malaria, solo nel secolo scorso fu identificato come principio attivo ed estratto dalla corteccia di una pianta, la Cinchona. Già dal XVII secolo il suo uso terapeutico, sotto forma di polvere di corteccia di china, era stato introdotto in Europa dall'America del sud, dove da tempo era impiegato dalla medicina tradizionale degli Indios per la cura delle febbri malariche. Una intera famiglia di composti, (tra i tanti che si possono citare ancora), le cumarine, da cui sono derivati molti farmaci differenziati per attività come vasodilatatori, antibiotici, antinfiammatori, ecc., era nota da millenni nella medicina tradizionale di vari popoli (ad esempio, gli Egizi). Può essere interessante aggiungere che alcune multinazionali farmaceutiche da decenni stanno analizzando i vari rimedi terapeutici delle popolazioni extraeuropee per identificare nuovi principi attivi, da spacciare poi come frutto della sola ricerca scientifica di laboratorio.
La storia dell'aspirina è altrettanto istruttiva: fu per merito di un sacerdote inglese del XVIII secolo se si cominciò a usare, con un certo successo, la polvere della corteccia di salice per curare le febbri. La sua scoperta non derivò da alcun procedimento "scientifico", ma fu il risultato, riconosciuto dallo stesso autore, della applicazione di un antica credenza tradizionale secondo la quale gli ambienti che provocano certe malattie forniscono anche i rimedi naturali per combatterle. Nel caso specifico il riferimento riguarda i luoghi umidi, dove è facile contrarre alcune malattie, ma che al contempo sono favorevoli per la crescita dei salici. Solo successivamente si identificò il principio attivo, l'acido salicilico, la cui attività venne migliorata in un secondo tempo ottenendo un derivato di sintesi, l'acido acetilsalicilico, contenuto nella ben nota aspirina. Si potrebbe ricordare ancora la scoperta del tutto casuale della pennicillina o di altri farmaci, al di fuori di ogni procedura lineare di indagine di laboratorio. Infine è ben noto che, nel nostro continente, la sconfitta delle grandi epidemie, come la peste, fu dovuta non alla medicina, ma a misure di igiene e anche a fatti casuali, come l'immigrazione dall'Asia in Europa del ratto bruno che sostituì il ratto nero, portatore delle pulci che veicolano l'agente patogeno della peste. Tutto ciò precedette di alcuni secoli l'identificazione del bacillo responsabile della malattia e la messa a punto di opportune misure terapeutiche, ormai utili solo in aree dove la cura dell'igiene era molto carente.
Dal canto suo la tecnologia moderna viene definita come l'unione del metodo empirico-utilitaristico con l'astratta oggettività di quello scientifico di laboratorio.
In quegli anni Sermonti inizia a esprimere i suoi rilievi critici nei confronti dell'evoluzionismo darwiniano, di cui smaschera il ruolo di supporto ideologico per il progressismo (gli fornisce un "fondamento naturalistico"), progressismo che costituisce
«il preludio a una immagine uniforme e quindi assolutista del mondo, che rifiuta la variabilità come manifestazione di dissociazione dall'ideale progressista».14
La logica sottostante è quella dell'opportunismo, dell'utilitarismo, dello strumentalismo, dell'adeguamento di convenienza al corso delle cose. L'evoluzionismo, tradotto più o meno correttamente in termini filosofici come sinonimo di progressismo scientificamente fondato e giustificato, era da tempo divenuto un supporto per svuotare di significato ogni valore eterno, ogni principio perenne, per cui supportava (e supporta ancora) l'idea che la morale debba essere semplice figlia del suo tempo e che quindi, in un'epoca dominata e plasmata dalla scienza, è quest'ultima a dover dare i fondamenti etici del vivere dell'uomo. Di fatto costituisce uno strumento di persuasione dello scientismo.
In queste analisi si notano influenze di Eliade, Sombart, Weber, Goethe, Marcel, Zolla, Sedlmayr, Ortega y Gasset, Kerény, Wittgenstein, Nietzsche.
Più avanti troveremo anche altri autori come Guénon, Nasr e Schuon, studiosi di orientamento "tradizionale" il cui rigore nel criticare la modernità è ben noto.
Poi giunge il 1980 ed esce Dopo Darwin, dove la prima parte del volume è opera di Sermonti e la seconda di Roberto Fondi, docente di paleontologia presso l'Università di Siena. È un libro che fece scandalo e smosse le paludose acque del mondo dei biologi italiani. La critica all'evoluzionismo era nettissima, anche se gli Autori differivano su alcune idee quando, dopo aver demolito il castello dei darwinisti si apprestavano a proporre alcune soluzioni alternative.
In particolare Sermonti aveva individuato in due fenomeni, la neotenia e la simbiosi, le forze poste alla base dei processi evolutivi, in luogo delle clas