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Populismo e "democratici"

di Alberto Figliuzzi - 09/01/2017

Populismo e "democratici"

Fonte: Italicum

 

    Il populismo imperversa, a giudicare dall’ormai continuo stato di allarme di chi lo paventa, ma soprattutto imperversa l’utilizzo (quasi sempre a sproposito anche quando non palesemente fazioso) di tale termine da parte dell’egemone mondo politico-intellettuale e del sistema mediatico per denotare tutta una serie di fenomeni che sfuggono a ormai superati e inefficaci strumenti di analisi. Ecco allora che il mondo, d’incanto, si tinge di populismi di tutti i tipi: è populista chi nega dignità di effettiva costruzione europea alla bizzarra entità guidata dall’apparato oligarchico-burocratico-finanziario di Bruxelles, è populista chi, di tale pseudo Europa contesta lo strumento monetario di cui si è dotata; e chi, di conseguenza, continua a dare valore agli stati nazionali; è iperpopulista chi, tacciato anche di razzismo e xenofobia, assiste allarmato al fenomeno delle migrazioni, specie se male gestite o perfino assecondate (in quanto epocali!) dalla nobile filantropia italica; sono pericolosi populisti i critici dell’iperliberismo e della globalizzazione, del primato dell’economia finanziaria sulla politica, gli avversari delle lobby mondialiste operanti in maniera scoperta dietro i governi.

    Un uso disinvolto e strumentale nel migliore dei casi, insomma, o semplicemente rozzo e approssimativo, di un concetto che richiama l’altrettanto spregiudicata manipolazione del termine fascismo (ormai privato di ogni preciso significato politico per quanto negativo e reso, piuttosto, sinonimo dei più deprecabili connotati umani), atto a etichettare e a demonizzare in partenza qualsivoglia soggetto individuale o collettivo tanto temerario da disturbare l’assetto politico, socioeconomico, culturale del sistema di forze (intimamente solidali nonostante superficiali forme di conflittualità) uscite vincenti dal secondo conflitto mondiale. Non nascosta è d’altronde la tentazione, da parte dei più intraprendenti utilizzatori del concetto di populismo, di equipararlo proprio al fascismo, o almeno di fare dei fenomeni da esso chiamati in causa il terreno di coltura di un ben più mirato progetto autoritario. Nel momento in cui particolari espressioni del sentire popolare si collocano al di fuori dei consueti scenari di vita democratica (o presunta tale) gestita fino a ieri dalle tradizionali formazioni partitiche (per quanto adattate ai nuovi luminosi tempi, liberati dai vincoli delle “ideologie forti” novecentesche), ecco che fa comodo diffondere timori e paure (in maniera populista, paradossalmente verrebbe da dire!), facendo intravedere l’inquietante incontro tra gente non più orientata dalle assennate bussole dei veri democratici e il demone fascista, pronto a farne lo strumento di un progetto violento e negatore delle libertà.

    Ora, mentre non è assolutamente vero che il populismo in quanto tale si pone fuori dalla consueta prassi delle democrazie parlamentari (collocandosi, piuttosto, solo fuori dai partiti storici incapaci di interpretare bisogni ed esigenze di vasti e nuovi ambienti popolari in un mondo profondamente mutato), è vero invece che esso tende a sollecitare, in ambiti meno interessati dalla contingente polemica politica, e dovrebbe ancor di più favorire in futuro, una seria riflessione sulla democrazia, fino ad ora quasi del tutto assente al di fuori di una sia pur cauta letteratura accademica. Succede, infatti, che, invece di cercare di capire le vere dinamiche interne a realtà popolari che si configurano in forme nuove rispetto a quelle per le quali erano adeguati le ideologie ed i partiti novecenteschi; anziché studiare nuove architetture ideali e istituzionali tali da permetterne una ordinata rappresentanza e partecipazione; anziché cioè concepire inedite e più autentiche modalità di vita democratica, ci si limita ottusamente ad additare come una forza oscura ed inquietante, manipolata da agenti demagogici, ogni realtà che si ponga contro un modo ritenuto canonico, ortodosso, e quindi intoccabile, di vedere la politica, l’economia, la società.

 

    Pertanto, se ha senz’altro ragione chi rifiuta di identificare il populismo con l’attuazione della volontà del popolo, dato che il popolo è un’entità per più di un verso astratta, che non si riesce a immaginare come qualcosa di omogeneo e di compatto, in quanto al suo interno coesistono di fatto gruppi sociali diversi e spesso in contrasto tra loro, ovvero quelle che fino a qualche tempo fa erano definite classi sociali, termine ormai desueto nell’odierna società…, non per questo, al solo fine di evitare una definizione molto generica di populismo, ci si deve limitare a considerare i modi in cui il termine in questione viene di fatto inteso nell’odierno panorama politico e le diverse prassi di ispirazione populistica adottate da questo o quel partito o movimento (in corsivo citazioni da Che cosè il Populismo, di F. Federico). Anzi, è proprio la descritta situazione che dovrebbe spingere a superare una rappresentazione puramente esteriore e tutt’altro che oggettiva (in quanto spesso suggerita solo dalla logica dei contrasti partitici) dei presunti populismi per cogliere invece e studiare le interne nuove articolazioni della società che non si sentono più rappresentate dalle formazioni politiche tradizionali. Quel che viene chiamato negativamente populismo è insomma un sintomo di una profonda crisi della formula liberaldemocratica di ascendenza ottocentesca che, uscita fortunosamente indenne dalle esperienze rivoluzionarie del Novecento, quella comunista e quella fascista, mostra tutte le sue insufficienze, paradossalmente, proprio nel momento in cui dovrebbe permettere rappresentanza e partecipazione ad una società che si è voluto orientare, dopo il collasso della Russia sovietica, nel senso del più spinto liberismo.  Se è esatto perciò dire che con la fine delle ideologie novecentesche, cioè con la perdita di forti paradigmi nell’ambito della vita civile e sociale e di traguardi prospettici altrettanto netti verso i quali tendere, ha fatto sì che numerose nuove forze politiche cerchino di sintonizzarsi sull’immediato sentire della gente (sulla sua “pancia”, come con brutta espressione da molti si usa dire), nella qual cosa consisterebbe appunto il populismo; non si comprende affatto perché i malesseri lamentati da fasce sempre più ampie di popolazione, in maniera trasversale rispetto alla collocazione sociale e alle vecchie categorie di Destra, Centro e Sinistra (per esempio in relazione al fenomeno migratorio), debbano essere aprioristicamente liquidati come manifestazioni deteriori e pericolose di basso livello intellettuale e morale, alle quali perciò il politico illuminato (quindi per ciò stesso antipopulista!) non dovrebbe dare soverchio spazio. È, in altri termini, del tutto arbitrario e anche poco felice culturalmente denunciare, oggi, la perdita della funzione sociale e persino di una funzione pedagogica della politica mentre una parte non “allineata” di questa registra e magari amplifica oltre misura tanti nuovi gravi problemi sempre più diffusamente e acutamente sentiti; e non averlo fatto invece in passato, quando pure partiti e movimenti, come anche forze sindacali, spesso esasperavano conflitti invece di moderarli e placarli, sia sul piano delle relazioni internazionali che sociali, ciò contribuendo anche a guerre e violenze. Chi può decidere, insomma, del retto e saggio operare della politica? Improponibile che si riconosca ad una certa parte, magari controllata e manovrata da agenti occulti e da mille torbidi interessi, il diritto di giudicarne un’altra, buona o cattiva che sia, comunque liquidata come populista sol perché capace di intercettare bisogni, desideri, paure non rilevati o sottovalutati dal “sistema”. Non è perciò corretto (se si vuole fare seria politologia e non già partecipare in prima persona allo scontro tra partiti in cui ogni argomento è buono per svalutare l’avversario) sentenziare in maniera preconcetta l’assenza, nell’operato di quella tale o tal altra forza dichiarata populista, di un ben solido complesso di principi e idealità; essendo proprio questi a generare o ad acuire quella sensibilità a diagnosticare e a curare i “mal di pancia” della gente che con tanto disappunto viene sottolineata. Insomma, i tratti negativi che con sconcerto si imputano al populismo (come la sua straordinaria capacità di trovare consenso nelle aree più diverse, una volta nettamente divise, della mappa politica e sociale, da cui spesso il suo spiccato carattere movimentista difficile da collocare) non è detto siano il segno di improvvisazione e superficialità o di mera demagogia elettorale, bensì potrebbero al contrario rivelare lucida intelligenza nel cogliere i nuovi allarmanti scenari del tempo presente.    

    Per tutto ciò, anche se ci si sposta su un terreno più teorico affrontando il tema in esame in termini più generali e fondamentali, i seri limiti delle analisi prodotte dai dichiarati nemici del populismo si mostrano in tutta evidenza. Per esempio (per riprendere, in sostanza, il vecchio confronto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa), che quello di popolo sia un concetto astratto se non presentato nelle sue complesse articolazioni sociali (come ricorda il già citato Federico) è sicuramente una idea tutt’altro che infelice, quanto quella che lo stesso popolo non sia automaticamente un’entità virtuosa per sua intima essenza; che di conseguenza non se debbano accogliere in maniera automatica le istanze e le proteste, bensì sia necessario, senza precipitazione ma con prudenza e misura, passarle al vaglio di superiori principi, possibilmente condivisi, di equità, giustizia, eticità. Ebbene, una tale ragionevole impostazione non viene affatto seguita in primo luogo proprio dalle forze sedicenti democratiche, assolutamente prive oggi di una solida dotazione ideale (o, se si preferisce, ideologica) in grado di impedire la loro subalternità ad una visione “politicamente corretta” della realtà attuale (nell’interesse di uno sfrenato e non arginato mondo neocapitalistico) molto più discutibile, forse, di quella dei populismi. Di conseguenza, non si tratta tanto di prendere posizione tra forze politiche tradizionali, ritenute sane, e quelle tacciate di volgare populismo, quanto di avere chiara consapevolezza della profonda crisi della stessa formula democratico-parlamentare; il che è messo in luce, sia pure senza il necessario radicalismo concettuale che forse si richiederebbe, da una ormai abbondante letteratura. Per esempio, pur non essendo proponibile al momento una escursione inevitabilmente lunga su questo terreno, è d’obbligo ricordare almeno il pronunciato esito oligarchico (se non addirittura l’intima natura oligarchica, a volerne seguire il percorso storico) delle democrazie rappresentative occidentali, così spesso documentato, tale da rendere una pietosa finzione la formula della “sovranità popolare”; o la loro deriva verso quella che è stata chiamata efficacemente “democrazia recitativa” (cfr. In democrazia comanda sempre il popolo? di Emilio Gentile), che, sul palcoscenico delle istituzioni statali, vede il popolo cosiddetto sovrano solo come comparsa occasionale, quasi sempre assistendo, esso, come pubblico, allo spettacolo in cui protagoniste sono appunto le più varie oligarchie, spesso corrotte, nell’apatia dei cittadini, con la manipolazione dell’opinione pubblica, la degradazione della cultura politica ad annuncio pubblicitario.

    Per concludere, il duro confronto a cui si assiste tra le sedicenti “vere” forze democratiche (in verità per niente affatto virtuose) e il populismo nelle sue varie manifestazioni (sia quello così qualificato dagli avversari, sia quello che tale si autoproclama, altrettanto poco credibile come perfetto depositario di volontà popolare, nonostante la sua legittima pretesa di rappresentanza) dovrebbe far sentire il bisogno di rivedere e studiare, confrontandole con la realtà di oggi, altre modalità di vita democratica, magari rimaste quali ipotesi teoriche sui libri o segnate da vita breve sulla scena della storia, in quanto sconfitte dalle forme istituzionali di stampo liberale, quelle che più si addicono, in fondo, all’ambiente sociale saturo di individualismo economicistico in cui si è immersi, di cui l’altra faccia è la commistione multiculturale della globalizzazione. Ben altro servirebbe per dare plausibilità all’idea democratica, altrimenti illusoria sia nella versione ritenuta ortodossa che in quella populista. Ma se ne potrà riparlare.