Prigionieri del Novecento o evasi nel nulla
di Marcello Veneziani - 28/03/2025
Fonte: Marcello Veneziani
Ventotene, Fosse Ardeatine, poi ancora Ventotene, e lo sciame abituale di commemorazioni nere di quel tempo. Per non precipitare nella vacuità abissale dell’oggi, la politica si aggrappa al cornicione del Novecento e si dimena con le gambe nel vuoto.
Prigionieri del Novecento o evasi nel nulla: è questa l’alternativa o meglio il pendolo su cui oscilla la politica nostrana. C’è un presidente della memoria che ne officia puntualmente i riti, con relative omelie e lampade votive; poi ci sono i megafoni mediatici che ogni giorno spargono, enfatizzano e amplificano le voci e gli spasmi dei celebranti e infine c’è un ceto politico che per darsi dignità e identità si aggrappa a quel santuario. Persino i suoi più mollicci esponenti, come Romano Prodi, perdono le staffe, persino i più garbati massimalisti, come Fausto Bertinotti, sbroccano davanti a chi tocca l’altarino. È lo sfondo generale della politica italiana ma è soprattutto l’animus tenace della sinistra, il suo tabernacolo inviolabile, che detta ancora l’agenda ideologico-emotiva del nostro presente.
Non sanno parlare di storia se non tornando agli anni quaranta del secolo scorso e sue propaggini. E non sanno dimostrare forza etica, contenuti solidi e identità tenaci se non ricorrendo a quel consueto repertorio di ottant’anni fa. Orrore e Liberazione.
Le loro gambe penzolano nel vuoto e camminano nel nulla, le loro mani sono invece aggrappate disperatamente a quel vecchio scorcio di novecento, che sarebbe il loro blasone, il loro segno araldico di superiorità morale e la certificazione simbolica di essere detentori di una verità assoluta benché venuta dalla storia. Si aggrappano ai morti per mostrarsi ancora vivi, e non sanno invece che in quel modo mostrano di appartenere anch’essi al regno dei morti, fino a considerare la loro identità, altrimenti inavvertita, come una lapide in un cimitero. Per gli etruschi era il peggior supplizio legare un vivo a un morto, per loro è la migliore garanzia di identità, il morto chiamato a deporre nel tribunale della storia sulla loro superiorità morale. Li vedi con le pagelline del passato che sventolano davanti alle telecamere, nei cimiteri, tra corone di fiori e iscrizioni tombali, a testimoniare tramite i morti che loro sono ancora vivi.
Ma tutto questo aggrapparsi a quel frammento luttuoso del passato novecento poi s’accompagna alla cancellazione di tutto il resto, della memoria storica, della ricerca storica, dei mondi, delle tradizioni, delle radici da cui proveniamo. È solo una ciocca di capelli rubata alle bare del Novecento per compiere ancora i loro riti di malocchio e di maledizione verso i nemici d’oggi.
E intanto sfuggono ai temi veri di oggi, alle questioni decisive del presente; si preferisce sfuggire per non apparire troppo appiattiti sul mainstream e remissivi verso il potere dominante.
Giorni fa, esattamente il 21 marzo scorso, mi è capitato di trovare su una bancarella, un libro intervista di Jean Guitton, scrittore e filosofo cattolico, intitolato Il secolo che verrà. Guitton ha percorso per intero il Novecento essendo nato il primo anno di quel secolo ed essendo morto l’ultimo anno dello stesso secolo. A proposito, in che giorno è morto? mi sono chiesto, e sono andato subito a vedere la sua biografia. È morto proprio il 21 marzo, lo stesso giorno in cui avevo tra le mani quel libro. E siccome io sono primitivo che crede ai piccoli segnali magici che ti manda la vita, ho comprato e letto quel libro. Era una specie di fagotto in cui Guitton raccoglieva le masserizie del secolo in cui ha vissuto per consegnarle al secolo che sarebbe venuto e di cui lui avvertiva che non sarebbe stato presente. Sarebbe poi mancato nel primo giorno dell’ultima primavera del secolo, il 1999. L’uomo per Guitton è un animale storico, che sente e racconta storie. Ma ha necessità di due facoltà, forse di due ali, per innalzarsi sul suo tempo e non precipitare nello spazio: la memoria e l’oblio che sono per lui “le due facce della presenza dell’eternità nel tempo”.
E invece cosa è successo in questo quarto di secolo, e in questo primo frammento di nuovo millennio? L’oblio si è fatto amnesia e cancellazione e si è dilatato oltremisura. E la memoria si è sclerotizzata, irrigidendosi su alcuni aspetti e alcune date. È sparita la memoria universale della storia, inghiottita nell’ignoranza vorace del presente; ma anche di quel secolo regresso, il Novecento, abbiamo conservato in forma di feticcio e di fissazione la diade nazifascismo-antifascismo, cancellando regimi totalitari, gulag e bombe atomiche, storie diverse e aspetti salienti. E sul piano morale pratichiamo la memoria quando sarebbe meglio scegliere, ma consapevolmente, la via dell’oblio, per non restare prigionieri di quegli odii e di quelle lacerazioni; e affondiamo invece nell’oblio quando sarebbe fecondo ricordarci delle nostre origini comuni, delle nostre provenienze, dei nostri padri, maestri, antenati.
E non sappiamo più distinguere, dice Guitton, l’essenziale dal passeggero, dall’accessorio, dal marginale. Ovvero quel che resta a dà senso alla vita da quel che passa sfasciando la nostra stessa esistenza o consegnandola all’insofferenza e all’insignificanza.
Il novecento fu il secolo in cui le antiche fedi diventarono ideologie, e partorirono guerre, rivoluzioni, massacri; sul piano storico fu una catastrofe, almeno nella sua prima metà; sul piano scientifico, tecnologico e sociale, invece, registrò progressi senza precedenti. Ma aggrapparsi solo alla sua rappresentazione manichea non ci dà linfa semmai veleno. Ogni guerra, dice Guitton, è guerra di religione. Vero, a patto di considerare che nel Novecento, Dio è stato sostituito dal mito dell’uomo nuovo, e la nuova religione ha sostituito la fede e il culto celeste col fanatismo e gli assoluti terrestri. La teologia fu sostituita prima dalla storia e dallo stato e poi dalla tecnica e dall’economia; anche il paradiso si calò nel tempo e fu inseguito in terra, qui e ora.
Ma a parte quella fettina superstite del Novecento, quel che resta nell’infinito, innominabile presente globale è il Nulla. Non si va oltre, semmai più a fondo. Figli di NN, cioè di Novecento & Nulla, che un tempo era la sigla impietosa per indicare i trovatelli, detti figli di nessuno. Oltrepassiamo il Novecento, anzi circondiamolo con l’amore per la storia che lo precede e la attesa operosa per l’epoca che verrà.