Probabilità e dogmatismo aggressivo
di Andrea Zhok - 23/11/2021
Fonte: Sfero
Nell'intento di mantenere forme di confronto civile in una situazione che sta travalicando da tempo civiltà e decenza, propongo di riflettere sull’attuale vicenda della strategia pandemica a partire dal problema generale dell’idea di probabilità.
È possibile, almeno in parte, descrivere le attuali divergenze tra chi accondiscende all’inoculazione, per sé e/o per i propri figli, e chi non lo fa, in termini di diversità nella valutazione di probabilità.
In una valutazione costi-benefici relativi ad una certa azione noi siamo chiamati a giudicare alcuni scenari possibili, attribuendovi un valore, e poi a considerare la probabilità che questo scenario si presenti.
La questione che dobbiamo affrontare innanzitutto è: esiste un modo in cui possiamo fissare queste probabilità in modo definito ed obiettivo?
Per fissare le idee è utile rimandare alle tre principali concezioni esistenti della probabilità (versione un po’ semplificata, non me ne vogliano matematici e statistici).
In primo luogo abbiamo la concezione classica o logicista della probabilità, definita come rapporto tra casi positivi (realizzazioni) e casi possibili. Questa definizione è perfettamente chiara e idealmente predittiva: di principio un dado ideale a sei facce ha una probabilità di 1/6 che ciascuna faccia appaia verso l’alto in ciascuno lancio.
Il problema di questa concezione è che funziona in modo rigoroso solo nei limiti in cui abbiamo a che fare con entità ideali, con enti matematici, ma nel mondo reale non fornisce nessuna garanzia. Nessun dado reale è davvero perfettamente uniforme dal punto di vista dell’omogeneità del peso, dei materiali, degli attriti, e per verificare se davvero un certo dado materiale sia all’altezza del dado ideale l’unica cosa da fare è svolgere un gran numero di lanci, controllando se la distribuzione delle occorrenze delle diverse facce sia equilibrata.
Questa considerazione ci porta al secondo modello della probabilità, che è quello fondamentale nelle scienze della natura e che viene chiamato modello frequentista. Questo modello definisce la probabilità di un certo evento nei termini della frequenza delle sue occorrenze in una serie temporale. Nel caso di cui sopra, dello specifico dado empirico, per controllare che non sia truccato possiamo registrare una lunga serie di lanci e valutare la distribuzione delle occorrenze delle varie facce. Se nel lungo periodo ciascuna faccia tende a presentarsi un numero di volte più o meno eguale alle altre, avremo verificato che il dado è una buona esemplificazione di equiprobabilità.
Ma naturalmente potremmo anche trovare tutt’altro, ad esempio che il 6 compare molto più spesso, e ciò indicherebbe semplicemente che il dado non è omogeneo e che le nostre facce hanno probabilità differenti da quelle attese secondo la teoria classica; in ogni caso avremmo un risultato interessante.
Un singolo dado è un caso estremamente semplice, ma anche in questo caso avremo bisogno di prolungare per un certo tempo i lanci di dadi per poter ottenere un risultato affidabile. Nel breve periodo non è inusuale che certi numeri possano uscire con una frequenza atipicamente alta o bassa, e solo estendendo nel tempo le serie possiamo vedere se avviene una progressiva convergenza stabile su certe frequenze.
Quanto più complessi i sistemi sottoposti a valutazione, tanto maggiore dev’essere il numero di tentativi e la loro registrazione nel tempo. Qui è importante capire che una probabilità di tipo frequentista non consente mai di definire probabilità future in modo certo. Tuttavia (sulla base di un assunto di ‘uniformità della natura’) se si riscontra nel lungo periodo una convergenza stabile, questo è un indice del fatto che una probabilità sta emergendo in maniera definita. Non esiste tuttavia un modo a priori in cui possiamo stabilire quando il ‘lungo periodo’ sia lungo a sufficienza. Di principio potremmo sempre incontrare sequenze in cui per un certo periodo si verifica una certa asimmetria, che poi viene rotta da un’asimmetria differente (anche alla roulette capitano volte in cui il rosso esce venti volte di fila). A definire l’estensione appropriata delle verifiche è di solito la tradizione di ricerca nello specifico campo di studio, che garantisce sulla base dei successi passati l’appropriatezza di una certa stringa temporale.
Posto che la probabilità frequentista è la probabilità rilevante in qualsiasi indagine nel campo delle scienze naturali (e di una scienza che opera su sistemi complessi come la medicina, a maggior ragione), questa breve descrizione ci dice già una prima cosa significativa: il tempo di osservazione in una sperimentazione non è una variabile arbitrariamente comprimibile, se vogliamo valutare la probabilità con cui un certo effetto può presentarsi. Questo significa che la conoscenza intorno alla probabilità dell’occorrere di certi effetti (ad esempio: effetti collaterali avversi o efficacia di risposta del sistema immunitario) risulta compromessa in presenza di una forte compressione dei tempi di sperimentazione. Inutile ricordare come tale forte compressione è proprio ciò cui si è assistito nell’elaborazione dei vaccini anti-Sars-Cov-2 ora in uso nel nostro paese.
Ma ipotizziamo per un momento che questo problema non ci fosse o fosse trascurabile. Avremmo con ciò risolto sul piano probabilistico la questione intorno all’opportunità o meno di ricevere l’inoculazione?
In verità no, non l’avremmo affatto risolta, perché nel caso in ispecie la forma di probabilità cui ci rivolgiamo è una forma più complessa di quella frequentista, e che prende il nome di probabilità soggettiva o soggettivista.
Una delle definizioni date alla probabilità soggettiva dal suo inventore, Bruno De Finetti, suona: “la probabilità di un evento E, secondo l'opinione di un determinato individuo, è uguale al prezzo che egli ritiene equo pagare per ricevere un importo unitario al verificarsi dell'evento E.”
Il riferimento al prezzo qui è un modo per quantificare il valore attribuito ad una certa opzione. La probabilità soggettiva è quella che applichiamo in tutti i casi in cui la ripetizione del medesimo evento non è disponibile: se devo valutare la probabilità di chi vinca il Campionato svolgerò la valutazione sulla base di una serie di indici qualitativi, dati dalla ricchezza della rosa disponibile, dalla tradizione di un certo team, dalla qualità dell’allenatore, ecc. Gli allibratori e i quotisti svolgono continuamente questo tipo di valutazioni, che ovviamente non possono affidarsi a reiterazioni degli eventi.
Ora, nel caso della valutazione intorno ai vaccini è importante capire qual è l’oggetto della nostra decisione. L’oggetto non è semplicemente il dato scientifico relativo all’occorrere di un certo evento, bensì l’effetto da noi vissuto di un certo evento (dell’inoculazione). Non stiamo cioè facendo scommesse sulla mera frequenza obiettiva di alcune conseguenze, conseguenze che magari scopriremo nel lungo periodo o magari no, ma sul peso di queste eventuali opzioni nella nostra vita, cioè sulla loro dimensione intensiva. Qui di ripetibile non c’è proprio nulla. Anche laddove la probabilità, supponiamo di un evento avverso, fosse definita in modo affidabile come estremamente bassa, questo non dice ancora nulla sulla probabilità soggettiva che qui si valuta, perché quella eventuale probabilità frequentista dev’essere moltiplicata per il peso attribuito soggettivamente alle sue conseguenze.
E questo processo pur avendo base soggettiva non è affatto irrazionale, perché semplicemente parte da una non intercambiabilità e non ripetibilità delle situazioni.
Facciamo un esempio tratto da rischi differenti. Immaginiamo che si debba decidere se costruire una nuova centrale nucleare in un certo territorio. Immaginiamo anche che le statistiche sulle centrali nucleari ci dicano che esse sono straordinariamente sicure, con solo tre gravi incidenti nella loro storia (Three Miles Island, Chernobyl e Fukushima). Nel momento in cui volessero costruirla nei pressi di X (e qui ognuno ci metta la città del cuore; se ne ha una) inizierebbero ad intervenire una serie di considerazioni ulteriori, che moltiplicano la bassa probabilità dell'evento per la gravità di cosa potrebbe succedere nel peggiore degli scenari. Già, perché se è la vita mia e dei miei figli e dei miei cari, o l’esistenza della mia città ad essere in questione, beh questo non è oggetto di un esperimento ripetibile.
Le ragioni soggettive per attribuire un peso massivo ad un certo rischio possono essere numerosissime e perfettamente ragionevoli:
“Non sono in fascia a rischio per la malattia, ma se mi capita qualcosa di serio come effetto avverso la mia famiglia non ha un piano B per mantenersi”;
“Ho un lavoro precario, ma non a rischio contagio, mentre se ho conseguenze significative da vaccino perdo il posto e sono in mezzo a una strada”;
“Ho una storia pregressa di reazioni avverse, ma non posso documentarla”;
“Ho già avuto la malattia, ma non posso certificarlo e temo un’iperreazione del sistema immunitario”;
“Sono in una fase delicata (gravidanza, allattamento), mi preservo, ma non voglio correre nessun rischio inutile”; ecc. ecc.
Naturalmente ci possono essere anche ragioni soggettive che amplificano il peso del rischio e che i più considererebbero infondate, tipo: “Ci somministrano sostanze per accorciarci la vita e pagare meno pensioni”, o “Ci somministrano sostanze per distruggere la fertilità e abbattere la crescita demografica”, ecc.
Sia come sia, se questi fossero tutti e soli gli elementi in campo non ci sarebbe niente da discutere. Ogni discorso intorno alla “irrazionalità” delle scelte in questione sarebbe da cestinare in partenza, visto che con riferimento agli attuali processi di inoculazione: a) non esistono valutazioni stabilizzate sul piano frequentista per valutarne in modo solido gli effetti, b) non esiste una piattaforma condivisa di ragioni soggettive atte a conferire pesi definiti a un rischio potenziale.
Chi afferma forfettariamente la “irrazionalità” o il “pregiudizio antiscientifico” di chi decide di non sottoporsi a vaccinazione dimostra semplicemente una scarsa conoscenza delle forme della decisione umana (oltre che uno scarsissimo rispetto per il prossimo e la sua autonomia).
Ma purtroppo su questa base di trattazione semplice viene ad innestarsi un elemento di interferenza. Una parte della popolazione ritiene infatti che l’altrui scelta relativa a sottoporsi o meno alla vaccinazione metta a repentaglio la propria vita. Questo passaggio complica terribilmente il quadro, perché sotto queste premesse è come se ciascun soggetto di principio decidesse sempre anche per tutti gli altri. Tesi di questo tipo hanno una forma che tende a generare strutturalmente conflittualità, e dovrebbero essere fatte circolare con molta parsimonia. Nell'attuale fattispecie questa tipologia viene supportata sulla base di due idee:
1) l’idea di una minaccia indiretta, tale per cui il non vaccinato potrebbe occupare un posto ospedaliero che, forse, se si fosse vaccinato, sarebbe stato disponibile, e questa occupazione del posto letto potrebbe danneggiare qualcun altro che, in caso di saturazione di tutti i posti, si vedrebbe negato l’accesso a quel posto;
2) l’idea di una minaccia diretta, tale per cui il non vaccinato potrebbe essere portatore di un contagio per me nocivo che forse, se si fosse vaccinato, non sarebbe avvenuto.
La prima motivazione è non solo indiretta, ma proprio distorta, in quanto di principio applicabile a chiunque: potremmo egualmente accusare di essere una minaccia per il prossimo il fumatore, o l’obeso, o lo sportivo infortunato (o, perché no, il vaccinato con effetti avversi), che se avessero agito diversamente non avrebbero occupato quel posto letto di cui potrei avere bisogno. Chi ragiona in questi termini, ritiene di avere il diritto di stabilire quali scelte altrui sulla propria vita siano accettabili e quali no. Chi ragiona così, anche se non lo sa, semplicemente rigetta l’idea di servizio sanitario universalistico, e dovrebbe più coerentemente chiedere la privatizzazione del sistema, perché quello è il punto di caduta della sua lamentela.
La seconda motivazione invece amplifica una probabilità marginale ma effettiva (la potenziale maggiore contagiosità del non vaccinato rispetto al vaccinato) fino a farne la protagonista di un danno dai contorni indefiniti: a questo modesto e incerto differenziale statistico vengono imputati morti, lockdown, e catastrofi economiche future.
In un quadro del genere, come dovrebbe essere chiaro, il principale protagonista è l’incertezza.
Abbiamo a che fare con molteplici gradi di inevitabile ignoranza, di elevata incertezza scientifica, con assegnazioni di probabilità oscillanti e mutevoli, con probabilità soggettive dai pesi variabili e in evoluzione, sulla base di nuove informazioni in corso di dispiegamento.
In questo quadro, più che in ogni altra situazione, si sarebbe dovuto procedere con moderazione e cautela, con flessibilità e massima trasparenza, ampliando quanto più possibile gli spazi del dialogo, della circolazione di informazioni, del dibattito pubblico.
Ciò che è stato fatto è andato in senso esattamente opposto: si è operato in modo autoritario, dogmatico, censorio, bloccando l’informazione, punendo il dissenso, irrigidendo le posizioni, rifiutando ogni mediazione, rilanciando sempre di più la posta, esacerbando gli animi, costruendo un capro espiatorio su cui far convergere l’odio pubblico. Si è fatto letteralmente tutto ciò che si poteva fare per creare una spaccatura sociale insanabile.
Che lo si sia fatto intenzionalmente, con l’intento di distrarre l’opinione pubblica, o con l’intento di creare le condizioni per un giro di vite nei meccanismi di controllo, o che lo si sia fatto per semplice sciatteria e stupidità, questo oramai conta poco.
La gravità di questi atti, di cui l’attuale esecutivo porta la piena responsabilità, sono un unicum nella storia della Repubblica, qualcosa di cui - se c’è ancora giustizia in questo mondo - qualcuno dovrà rispondere.