Quale idea di Occidente? Un’analisi filosofica del conflitto
di Vincenzo Costa - 11/04/2022
Fonte: Vincenzo Costa
In questa guerra non si fronteggiano soltanto eserciti. Si fronteggiano due idee di Occidente. Si fronteggiano due possibilità su come pensare il mondo a venire: da un lato l’idea di un mondo unipolare, accentrato e diretto dall’Occidente, dall’altro l’idea di un mondo multipolare, variegato, fatto di molte culture, stili di vita, forme di organizzazione economica.
La guerra in Ucraina sta pertanto sollevando un problema di ordine generale, relativo a come pensare, in quanto occidentali, il nostro posto nel mondo e il nostro rapporto con l’altro dall’Occidente. Negli ultimi trent’anni questo “altro” ha assunto nomi continuamente diversi (l’Islam, la Cina, la Russia, forse l’India), ma una cosa è rimasta costante: lo abbiamo sempre rappresentato con le sembianze del “mostruoso”, dell’irrazionale, del patologico, dell’anormale, dell’arretrato. Rispetto a questo altro, su cui abbiamo proiettato tutte le caratteristiche del male assoluto, della malvagità e della mostruosità, emerge la nostra identità: noi siamo i buoni, il progresso, i diritti umani universali.
Alla base di questa rappresentazione di noi stessi stanno – se mettiamo da parte tutte le questioni di geopolitica, di politica di potenza, di interessi economici e ci limitiamo alla questione culturale – due presupposti. La prima è quella secondo cui i nostri valori sono quelli universali, anche se all’interno dello stesso Occidente hanno una data di nascita estremamente recente. La seconda è quella secondo cui nella storia dell’Occidente, e solo in essa, si dispiega la ragione. Siamo così indotti a pensare che noi siamo più vicini alla verità, mentre gli altri sarebbero arretrati, dunque nell’errore, da cui possono emendarsi solo assimilandosi a noi, sciogliendo la loro storia nella nostra.
Il progresso consisterebbe allora – nella nostra autorappresentazione – in un enorme processo di occidentalizzazione: tutti gli uomini della terra devono assumere i nostri costumi, adottare il mercato come motore dello sviluppo economico, istituire un modello democratico come il nostro, che diventa l’unico modello di democrazia possibile. Soprattutto, davanti ai valori universali occidentali non si può transigere, sicché i conflitti, che esigerebbero dialogo e riconoscimento reciproco per essere risolti, diventano immediatamente conflitti di civiltà, tra il bene e il male.
Una volta assunto questo atteggiamento la possibilità del dialogo (che è anche negoziato, diplomazia e ricerca del compromesso possibile) diventa impossibile: gli altri si devono piegare. Non davanti a noi, ma ai valori, e noi non dobbiamo esitare a difenderli e se necessario ad imporli con le armi, perché tollerare la differenza sarebbe un atto di viltà verso i valori e la verità. In questo modo è la nozione di politica come capacità di pensare secondo la storia e il tempo ad essere sacrificata. I valori non ammettono infatti dilazione, e se la lotta è tra valori e disvalori la guerra è inevitabile.
Abbarbicato ai valori non negoziabili questo universalismo astratto deve tuttavia necessariamente negare altri valori fondamentali dello stesso Occidente: il pluralismo, la tolleranza, il rispetto. Tende alla riduzione all’uno, a ciò che, di volta in volta, l’Occidente determina come il vero, il bene, il giusto: come l’apice della civiltà, che ovviamente è sempre il suo modo di pensare, talvolta effimero e destinato ad essere abbandonato dallo stesso Occidente di lì a poco.
Su questa base abbiamo inanellato un bombardamento dietro l’altro, un’invasione dietro l’altra: il bombardamento della Serbia, l’invasione dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Siria, della Libia, solo per citarne alcuni. E ora siamo in un conflitto aperto non solo con la Russia, ma anche con la Cina, mentre resta irrisolto quello con il mondo Islamico. Ma poiché questo rischia di portarci a una catastrofe planetaria, a una guerra che rischia di cancellare la stessa storia umana, forse è il caso di iniziare a chiederci: è con questo atteggiamento che intendiamo rapportarci al resto del pianeta? O abbiamo bisogno di cambiare il nostro atteggiamento fondamentale verso gli altri e il nostro modo di considerare il nostro posto e il nostro ruolo nella storia?
Quell’approccio non può che portarci ad uno scontro frontale, a una guerra che potrebbe essere devastante, o ad anni di incertezza, di conflitto latente, che produrrà disastri anche qualora non dovesse deflagrare in guerra aperta e senza ritorno. Produrrà miglia di morti in Africa per fame, aumento delle tensioni nelle nostre società, come certamente anche in quelle dei “nemici”. Produrrà ingiustizie crescenti e, da un punto di vista sistemico, lo sviluppo di forze potenzialmente devastatrici.
Bisogna allora iniziare a liberarsi di questa autorappresentazione celebrativa ed eurocentrica che l’Occidente ha di se stesso.
Questa, peraltro, non è affatto la verità dell’Europa, ma solo la ricaduta dell’Occidente nel mito, poiché rimuove la sua coscienza più autentica: la coscienza della differenza tra sapere e verità. Lo spirito europeo non consiste nel pensare che siamo la verità, ma che siamo ospitati nel movimento della verità: è coscienza della distanza che ci separa dalla verità. L’Occidente inizia con un Socrate che fa del “sapere di non sapere” la sua regola di vita. Dobbiamo allora fare un passaggio, che è un ritorno all’Europa autentica: pensare la storia come una molteplicità o pluralità di storie.
Gli altri non sono indietro rispetto a noi. In questo consiste l’eurocentrismo, nel pensare che esista “la” storia, e non le storie. Semplicemente, gli altri sono un’altra storia, hanno un differente dinamismo di sviluppo, che solo dalla nostra prospettiva appare come arretrato, solo se lo misuriamo con il metro della storia e dello sviluppo delle nostre società.
Pensare di innestare i nostri modi di organizzare la vita in contesti diversi può funzionare a volte (ha funzionato in Giappone), ma non in altri. Un contadino, quando decide di coltivare un campo valuta se il suolo è adatto, se supporta quel tipo di pianta, si chiede quali piante possano crescere in quella terra: sa che ogni suolo permette lo sviluppo della vita secondo certe forme e non secondo altre. Al contrario, l’universalismo astratto è caratterizzato dalla rimozione della peculiarità dei terreni, e questo lo abbiamo visto con le primavere arabe, con i tentativi di esportare la nostra democrazia in contesti in cui non poteva essere innestata, perché strutturati da altre strutture di interazione e da altre concezioni del mondo.
L’universalismo astratto è diventato pericoloso, per noi e per il pianeta, perché emargina la storia e i contesti di verità. Noi non ci siamo ancora liberati dall’idea ottocentesca che pensava la storia universale come il confluire di tutte le culture nella nostra, come un processo di europeizzazione di tutta l’umanità, dunque come un processo che abolisce tutte le differenze e riassorbe ogni alterità e ogni pluralismo. Ed è questo blocco mentale che dobbiamo iniziare a mettere in discussione. È necessario pensare la storia universale, che sta iniziando proprio ora, a partire da un mondo multipolare, in cui si sviluppano più storie, con differenti linee di sviluppo, e che a legarle insieme non è l’idea di espansione del nostro modo di vita, ma la contaminazione tra differenti.
Non la riduzione all’uno, ma il proliferare delle differenze.
E per questo serve la capacità di decentrarsi, di assumere il punto di vista dell’altro, senza la quale l’Occidente perde la sua vocazione universalistica e diventa soltanto una cultura tra le tante: una particolarità che pretende di dovere abolire tutte le altre.