Quanto manca alla fine?
di Lorenzo Merlo - 17/02/2017
Fonte: Il giornale del Ribelle
A volte sembra d’essere prossimi a vedere realizzati quei cambiamenti di paradigma che ci stanno a cuore. L’ambiente non più argomento di facciata, la questione demografica come problema primario, politiche dedicate all’homo senziente, non più solo oeconomicus, il cibo, i sentimenti e l’inquinamento come fonte di salute e/o malattia, altrimenti detto l’industria farmaceutica della malattia, la Terra come sacra, eccetera. Ma non è così. Manca ancora molto. Si può ipotizzare e supporre sia esperienza comune alla maggioranza di noi avere avuto la sensazione che le cose stiano per cambiare. Mi riferisco alla cultura, quel seno dal quale succhiamo valori e pensieri, speranze e direzioni, scelte e possibilità. Oggi più che mai sembra vicino il momento in cui al pil – come referente del benessere di una nazione - venga sostituito un criterio politico che ha nell’uomo e nei suoi bisogni fondanti il criterio di ricerca e scelta. Oggi più che mai sembra che l’ambiente possa definitivamente assurgere a problema capitale e non semplice corollario di governi che non vogliono fare la figura dei cattivi.
Oggi come mai qualcuno accenna al problema demografico mondiale. Non nei riduttivi termini produttivo-economici, entro i quali normalmente viene citato a sostegno dei problemi di crescita economica che affliggono tutti gli stati indebitati; neppure in quelli a sfondo razzistico, usati per argomentare - più o meno velatamente - che musulmani e cinesi seppelliranno tutti i signor Rossi e con buona pace di tutti. Il problema demografico riguarda invece l’implicito concetto di crescita infinita, incompatibile con tutto, in particolare con una Terra finita. Se la crescita demografica, così auspicata affinché i signori Rossi restino prevalenti sui Mohammad, affinché nuovi consumatori sostituiscano quelli che ci hanno lasciato e l’economia possa così mantenere il suo règime, è invece vista attraverso la preoccupante ottica della ninfea, il sentimento e quindi le cose cambiano. In un lago le ninfee raddoppiano ogni giorno. Se impiegano 10 giorni a coprire l’intera superficie, quanti giorni saranno necessari per coprirne la metà? Ecco, indipendentemente dal punto in cui siamo - che non è certo ai primi giorni - la questione demografica, come qualunque altra se vista con la storpiante lente della crescita infinita, ha questa caratteristica. Preoccuparsene ha senso, affinché le case farmaceutiche, già abili nel mantenere alto il mercato de ipropri clienti, non siano esortate - stavolta esplicitamente - a produrre e diffondere pillole decimanti, e contagianti virus dal costoso antidoto. Sempre per il bene comune, sia chiaro. […]
Così, costretto da un aggiornamento obbligatorio ai giornalisti, ho presenziato ad un incontro intitolato Le prospettive della Nuova Strategia globale dell’Unione Europea. Al tavolo la moderatrice, professoressa Paola Bilancia, Università degli Studi di Milano, ha presentato i relatori come i massimi esperti nazionali ed internazionali sul tema della sicurezza dell’Unione. Erano i dottori Flavio Brugnoli, direttore Centro Studi sul Federalismo, Gianni Bonvicini e Vincenzo Camporini, entrambi Vicepresidenti Istituto Affari Internazionali, quest’ultimo ex Capo di Stato Maggiore della Difesa 2008-11. […] Ecco qualche appunto preso in ordine cronologico. - La strategia egemonica degli Stati Uniti si avvia dal dopoguerra con il piano Marshall, la creazione della Nato, l’imposizione del dollaro come riferimento dell’economia mondiale. Nulla di strano da un punto di vista storico. La sorpresa sta nel sentirlo affermare come una conditio sine qua non della nostra stessa storia e cultura; nel sentirlo affermare come dato costituente di noi stessi, non come dato dal quale liberarsi; nel vederlo dichiarato come necessario, lasciando che la nostra sovranità, politica, economica vada perduta tranne che per avallare quell’egemonia. - L’incontro aveva come fulcro il recente (28.06.16) rapporto della nostra Federica Mogherini, attuale Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Una strategia globale per la politica estera e di sicurezza dell’Unione europea, da cui il titolo dell’incontro al quale stavo partecipando. Il documento, naturalmente più volte citato, è servito anche per precisare che attualmente il problema della sicurezza non riguarda più come in passato una questione tra stati, ma la minaccia viene da entità che non sono solo stati. Vero e sacrosanto, tuttavia mi ha ricordato quanto le leggi - costituenti a parte – tanto più hanno a che fare con i grandi numeri, tanto più sono in ritardo rispetto a ciò che vogliono regolamentare. Senza contare che nei grandi numeri, e la globalizzazione li ha fortemente moltiplicati, la velocità di mutamento è a sua volta accelerata, rendendo fortemente volatili le dinamiche intersociali. […] La panoplia occidentale, quindi anche europea, è sempre più estesa e articolata. Ciò comporta un sicuro incremento di attenzione e ricerca nella tecnologia perché è il vantaggio tecnologico che produce sicurezza. Non ricordo chi dei quattro l’abbia detto ma tutti erano d’accordo e non hanno obiettato né implementato il concetto. Siccome la paura è crescente e siccome con essa si abbassa lo standard di tolleranza, le forze da dedicare allo stato sociale tenderanno a ridursi affinché quel vantaggio tecnologico sia mantenuto. Sempre che la Cina, l’India, il Pakistan, la Russia non la pensino nello stesso modo. Ai tempi di Solana, che precedette la Mogherini, due problemi che l’UE voleva affrontare erano l’incremento del mercato delle armi e le mafie. Nel rapporto del 2016 si trova invece un appello alla questione ambientale e uno a quello esistenziale. Bello. Ci sarebbe d’andarne fieri. Ci sarebbe, sì, perché poi ho sentito dire, ripetere e ribadire che è un peccato che i finanziamenti alla Difesa siano stati ridotti. “Un peccato perché grazie all’industria per gli armamenti avremmo goduto di positive ricadute sociali, perché il pil crescerebbe. In pratica è un boomerang doloroso non incrementare quell’industria.”
- Nel documento si fa volontà di elevare l’Unione Europea a attore internazionale. È stata una delle sorprese. Pensavo che quella volontà esistesse da sempre, che precisarlo ora a mo’ di linea guida, fosse pleonastico. Mi sbagliavo. […] - L’Unione Europea è un cantiere aperto, leggevo su una delle diapositive sul muro alle spalle del tavolo dei relatori. Non era un titolo allarmante, almeno fino a quando ne ho ascoltato i contenuti, tutti, effettivamente, di non facile accesso ai profani, tutti prodotti evidentemente da accurati e particolari studi e ricerche. “La sicurezza dell’Unione dipende dai valori e dagli interessi dei 27 Paesi che ne fanno parte.” Di Junker, attuale vice della Mogherini, si è detto poco e quel poco non poteva che essere la sua affermazione dedicata ad invocare la necessità di un esercito europeo. Il discorso è subito andato avanti, tranne che per un attimo, nel quale mi sono chiesto che senso patrio potessero avere quei soldati e che forza morale per tenere duro visto che sarebbero stati irreggimentati per denaro e non per ideali. Ma come dare contro a dei professionisti della guerra, se gli stessi ministri degli esteri dei Paesi membri dell’Unione Europea in occasioni quali la crisi jugoslava, solo per dirne una, non sono convolati loro sponte – e neppure da nessuno sollecitati - ad un comune tavolo a Bruxelles per dedicarsi anima e corpo alla ricerca di una azione europea.
- Ma nel 2016 c’è stato un altro step da non tralasciare. Questa volta senza ironia visto le tragedie che evoca. Il documento riferisce di realizzare una politica estera militare non più dedicata a far capire a quei selvaggi come si devono organizzare gli stati e come devono stare le cose, bensì in forma di aiuto senza alcuna ingerenza. Dopo l’epoca, i mercenari e le risorse spese per l’esportazione della democrazia abbiamo capito ciò che, tra gli altri, anche Mu’ammar Gheddafi aveva in pratica detto in suo intervento alle Nazioni Unite il 23 settembre 2009. - Ora l’Unione Europea da economica deve divenire politica affinché la sicurezza se ne giovi. Se l’avessi letto in un tema liceale avrei pensato d’essere di fronte ad uno statista in fieri. Al momento mi sono sentito travolto da un’onda più forte delle precedenti […] - L’attuale situazione sta entro le 3C. Complesso, per movimenti dei poteri e degli interessi nazionali; Connesso, ogni evento ovunque si verifichi deve interessarci, tutto è connesso a tutto; Conflitto, che ora è da considerare permanente. È una sintesi efficace che non so da chi possa essere contestata. È una sintesi che dice che siamo sulle uova, che sa che Donald Trump o Marine Le Pen - nel caso vincesse le presidenziali francesi del prossimo aprile - potranno con poco muovere molto. Forse più che un cantiere, l’Unione Europea è un omelette, nella quale, tra l’altro, delle nostre specialità non si sentirà neppure il retrogusto. L’incontro al quale stavo partecipando, oltre che momento dell’aggiornamento dei giornalisti era elemento di un corso universitario, numerosi erano gli studenti presenti. Per questi e per i colleghi che non si erano mai occupati di certi argomenti, no, ma per me sentii imbarazzo più volte assistendo alla presentazione di consapevolezze circolanti da decenni e anche secoli, come illuminanti intuizioni dell’ultima ora, a firma Unione Europea. La motonave della cultura ha curve lunghe e gira piano, ancora più piano in momenti di crisi, di nazionalismi e di paure. In queste contingenti, burrascose acque, tutti i marosi vanno presi di prua. Appare perfino infantile pensare ad alternative quando “manca la mappa del disegno complessivo della politica dell’Ue”. Chi ha il timone non ha la rotta. Una banalità per chi si guarda intorno, per quanto terrifica. Come diceva in una domanda posta ai relatori da un giornalista presente “il casino organizzativo è assoluto.” Dunque nessun lapillo verso quella meta che ci sta a cuore, che ci era parsa a volte prossima.
Ma quanto manca alla fine?