Quarantenni di oggi: una generazione di precari
di Massimo Caruso - 09/04/2018
Fonte: Il Faro sul Mondo
La vita comincia a quarant’anni. Quelli della mia generazione se lo sentivano dire spesso da bambini, magari dai quarantenni di allora che, già a quell’età, profumavano di pensione. La stessa pensione che la mia generazione, una generazione di precari a vita, vedrà molto tardi o forse non vedrà mai.
Non si vuol fare invettiva, ma dati alla mano, la fascia d’età dai 35 ai 49 anni si è di fatto trovata invischiata in una situazione drammatica dalla quale sarà duro uscire senza affrontarne le conseguenze e le relative spese. Le profonde ferite provocate da questa terribile macelleria sociale hanno già un costo ed il conto che arriverà negli anni a venire sarà ancora più salato.
I costi che già si affrontano sono di tipo economico, sociale e sanitario. I costi che si affronteranno saranno prevalentemente di tipo politico, perché quella stessa politica che ha creato questa immane trappola e che non è riuscita tuttora a disinnescarla, dovrà fare in modo di mettere assieme i cocci di una generazione mandata in frantumi già dalla sua prima sortita nel mondo del lavoro. Appunto, una generazione di precari.
I numeri sono impietosi: in Italia, da dicembre 2016 a dicembre 2017, gli occupati di età compresa tra 35 e 49 anni sono calati del 2,1%, per un totale di circa 204mila persone. Il risultato peggiore tra le varie fasce d’età, se si considera che, nello stesso periodo, la fascia tra 25 e 34 anni, ha registrato perdite per lo 0,7%.
Colpa della crisi, certo. Appena finiti gli studi superiori od universitari, la crisi economica globale già mordeva, ragion per cui, l’aspirante lavoratore si trovava ad aggirarsi tra le macerie di quelle che erano state le certezze sulle quali avevano edificato carriere dignitose o brillanti i propri genitori. Il metodo neo-liberista allora ha tirato fuori l’asso dalla manica: la flessibilità. Ci hanno creduto in tanti, intellettuali e politici, sono stati scritti trattati e promulgate leggi in nome di una serie di riforme rivitalizzanti del mondo del lavoro.
L’unico risultato tangibile è stato il fiorire di una folta selva di contratti atipici che si risolvono tutti nella più assoluta precarizzazione dei rapporti di lavoro. Dal 2015 al 2017 il numero di assunzioni a tempo indeterminato è diminuito del 41,5%, mentre le assunzioni a termine hanno registrato un’impennata pari al 38,9%. Lo chiamavano Jobs Act.
Colpa dell’apatia e della poca disponibilità a mettersi in gioco, certo. I dati riguardanti gli inoccupati e coloro che tra di essi hanno rinunciato a ricercare un’occupazione sono cresciuti sensibilmente e la responsabilità è stata fatta ricadere esclusivamente su coloro che invece sono le vere vittime di una strategia socio-economica miope e a senso unico. Si è scaricata unicamente su una determinata fascia anagrafica, su una generazione di precari a vita, la graduale asfissia del sistema del welfare, con il risultato che l’unica quota di reddito familiare in continua ascesa, dal lontano 1969 ad oggi, è quella derivante dalle pensioni (+25,1%).
Del resto, per mantenere una cospicua fetta di popolazione che ha collezionato più anni da pensionati che da lavoratori, i soldi da qualche parte bisognava pur raschiarli. Solo che questo sistema si è rivelato un vero e proprio boomerang, perché quelle stesse pensioni ora servono a mantenere in vita coloro che non ne avranno diritto, essendogli stato esso negato da questo perverso sistema di foraggiamento che ha bloccato tutto lo sviluppo economico a sostegno di coloro che dal mondo del lavoro sono oramai usciti da anni.